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Il concetto di occidentalizzazione

Il concetto di occidentalizzazione

Testo del Prof. Giancarlo Elia Valori Il nostro concetto di "occidentalizzazione" Tengo a precisare la differenza essenziale, ossia l’errato signifi

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Testo del Prof. Giancarlo Elia Valori

Il nostro concetto di “occidentalizzazione”

Tengo a precisare la differenza essenziale, ossia l’errato significato che da noi s’intende con “occidentalizzazione” rispetto a Occidente storico. Qui da noi l’“occidentalizzazione” significa soltanto esaltazione della tecnocrazia, dei mercati e dei commerci nel significato liberale-borghese del termine e l’annullamento del concetto di politica indipendente con l’omologazione dei partiti al pensiero unico. Ormai i partiti si distinguono non più per la carica ideologica, ma per la forza mediatica dei leader: sono come delle squadre di calcio che dispongono di un calciatore fortissimo, ma se quest’ultimo è acquistato da un altro club, i rapporti si rovesciano. E del resto di cambia-casacca è piena la storia della politica italiana.
Questo presuppone il tentativo di annichilire ogni valore metafisico che sia legato agli ideali politici, religiosi, nazionali, umanitari: ovvero alla considerazione dell’uomo, o dell’evento, solo in funzione del profitto, del danaro, del guadagno di pochi su una massa che si vuole amorfa, privata di sentimenti e omologata al sistema di produzione capitalistico. Però vediamo come si è giunti all’occidentalizzazione che è ben cosa differente dall’Occidente inteso in senso storico, e dalla modernizzazione considerata in senso letterale.
Quando agli inizi del sec. XX gli Stati Uniti d’America del presidente Thomas Woodrow Wilson (1913-1921) sostenevano di agire a favore della libertà dei mari e della democratizzazione dei governi europei, in realtà usavano questi slogan per garantirsi la penetrazione economica nell’Europa continentale, come già era accaduto nell’America Latina. Per cui la richiesta di Washington era quella di un mondo in cui fosse possibile accedere ai mercati e agli investimenti: ossia una politica eminentemente imperialista, coperta dal pretesto di non avere colonie: mentre rispetto alle originali Tredici Stelle della Nuova Inghilterra, gli Stati Uniti d’America avevano già fagocitato il 75% del territorio messicano e acquistato a buon prezzo regioni extraeuropee francesi (Luisiana) e russe (Alaska). Non per nulla Wilson aveva fatto leva sulla dottrina Monroe, per la sua funzione di un’espansione senza limiti spaziali determinati da confini.
Per meglio dire era necessario sconvolgere il diritto internazionale, che al tempo non era altro che il diritto pubblico europeo. Esso abbracciava il concerto degli Stati – ribadito dal Congresso di Vienna del 1815 – che, nonostante i continui scontri 1820-1870, aveva protetto i Paesi dall’emergere di un’unica potenza. Un diritto già basato sulle conquiste territoriali dei secc. XVI e XVII ed erede di Vestfalia. Inoltre l’esperienza coloniale del sec. XIX avrebbe minato l’ordine europeo. Il diritto pubblico europeo e internazionale riconosceva tradizionalmente che la proprietà privata e il controllo del mercato sarebbero rimasti protetti in qualsiasi trasferimento di territorio tra i suoi Stati. I cambiamenti territoriali dell’Occidente inteso storicamente – le tre spartizioni della Polonia (1772, 1793, 1795), la nascita dell’Italia (1861) e della Germania (1871) e la conseguente annessione dell’Alsazia-Lorena oltre alle guerre precedenti, non provocarono cambiamenti radicali dell’ordine sociale ed economico europeo.
Però la successiva corsa alle colonie era posta in un’arena in cui i diritti di proprietà dei popoli indigeni e le loro rivendicazioni politiche erano definiti inesistenti. Fintantoché, da un punto di vista concettuale, la terra coloniale era stata tenuta separata dal «normale territorio statale», l’Europa non aveva incontrato problemi; ma nel momento in cui la terra coloniale, con la sua assenza di uno status di proprietà privata– che avrebbe potuto proteggere i diritti dei nativi – viene assimilata legalmente al territorio della madrepatria, «muta anche la struttura del diritto internazionale europeo fino ad allora esistente, che trova cosi la sua fine» – afferma Carl Schmitt – a svantaggio dei medesimi possessori europei di colonie. L’Europa «ha creduto nel più candido dei modi che il processo di ampliamento che diventava sempre più esteso, sempre più esteriore e sempre più superficiale fosse una vittoria». In realtà si ebbe la traslazione del Vecchio Continente: e da centro della terra, nel diritto internazionale, questa fu scambiata per un’elevazione dell’Europa a punto centrale del mondo. Minando le tradizionali immunità dei rapporti di proprietà privata dai trasferimenti di territorio, le annessioni coloniali avevano indebolito il pluralismo territoriale e i diritti di proprietà all’interno degli Stati europei.
Non si può non essere d’accordo con Carl Schmitt quando scrive nel Il nomos della terra nel diritto internazionale dello Jus Publicum Europaeum (1950) che la banalizzazione della territorialità europea stava solo preparando la strada al trionfo della campagna anglo-statunitense per imporre un impero di globalizzazione economica. Schmitt aggiunge: «Con questa abdicazione del diritto internazionale l’Europa [al tempo, come detto, il solo e storico Occidente] entrò vacillando in una guerra mondiale [la prima 1914-1918] che destituì il più antico continente dalla posizione di centro della terra e annullò la limitazione della guerra fino ad allora riuscita». Per cui britannici e statunitensi imponevano un universalismo commerciale o di mercato basato sul controllo dei mari, cosi come il democratico specchietto delle allodole chiamato Società delle Nazioni, voluto da Wilson, ma nella quale gli Stati Uniti d’America non entrarono mai, in quanto vi erano i Paesi latino-americani che facevano le sue veci. Non va affatto dimenticata nemmeno la madre della SdN, ossia la conferenza di pace di Parigi del 1919 che rappresentava il primo trionfo dei nuovi princìpi. Però essa non solo lasciò il mondo in un più grande disordine: sopprimendo quattro grandi potenze europee (Austria-Ungheria, Germania, Russia e anche l’eurasiatico Impero Ottomano); avviando una nuova ripartizione del territorio europeo; e partorendo con le sue misure iugulatorie l’incipiente nazismo, seme dell’avveniente II Guerra Mondiale con il nuovo intervento statunitense a fianco di una Gran Bretagna da sempre antieuropea e sul viale del tramonto, ma che alla quale la Casa Bianca non regalò alcunché facendosi pagare tutto.
Dopo la seconda conflagrazione mondiale l’emisfero occidentale rappresentava una nuova struttura spaziale amorfa, esattamente come quelle che gli ingenui europei avevano concordato, quando si spartivano le terre durante l’era coloniale. Da colonialisti divennero colonizzati con un unico confine che separava i Paesi controllati dalla NATO e gli altri dal Patto di Varsavia (a parte le eccezioni di Albania, e meno radicalmente Romania). L’occidente europeo divenne il mantenuto del protettore pagato che lo difendeva dai cattivi, ma con tanto di salario e controllo di mercati, sistema di produzione e politiche interne.
Il Nuovo Ovest, ossia gli Stati Uniti d’America, aveva sradicato l’Europa – il Vecchio Ovest – dalla sua collocazione metafisico-storica, rimuovendola da centro del mondo. L’Occidente, con tutto quello che il concetto implica sul piano morale, civile e politico, non venne eliminato o annientato, e neppure detronizzato, ma soltanto spostato, creando l’“occidentalizzazione”, che non ha nulla a che fare con l’Occidente e le sue tradizioni spirituali e storiche.

 

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