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ANTONIO BETTELLI È RESPONSABILE NAZIONALE DIPARTIMENTO POLITICHE NAZIONALI INTERNAZIONALI EUROPEE DIFESA E SICUREZZA DEI LIBERALDEMOCRATICI ITALIANI

ANTONIO BETTELLI È RESPONSABILE NAZIONALE DIPARTIMENTO POLITICHE NAZIONALI INTERNAZIONALI EUROPEE DIFESA E SICUREZZA DEI LIBERALDEMOCRATICI ITALIANI

Per Gentile Concessione del Nuovo Giornale Nazionale.it Quando ero a Beirut, dove ho trascorso un periodo importante della mia vita e della mia esp

L’ intervista su Repubblica del Generale di Corpo d’ Armata della riserva Antonio Bettelli
VITTORIA NATO A VILNIUS: CUI PRODEST?
IL RUGGITO DEL LEONE

Per Gentile Concessione del Nuovo Giornale Nazionale.it

Quando ero a Beirut, dove ho trascorso un periodo importante della mia vita e della mia esperienza professionale, ero solito sentirmi dire che se pensavo di avere finalmente capito il Libano era solo perché ancora una volta (il Libano) mi era stato spiegato male.

Se difficile è capire il Libano, coacervo di ben diciotto confessioni religiose e piccolo spazio geografico conteso tra gli interessi di svariati protettori stranieri, impossibile è districarsi nella realtà africana, quest’ultima assurta ancora una volta all’attenzione delle cronache internazionali per il recente colpo di stato in Niger.

Le ragioni di questa difficoltà, se non impossibilità, alla comprensione dei fenomeni sociali e politici di un Paese africano parte della galassia di entità appartenenti alla fascia sub sahariana o alla estesa regione del Sahel occidentale, ma lo stesso concetto varrebbe per altre aree del grande continente africano, risiedono innanzitutto nell’erroneo presupposto con cui noi europei-ex colonizzatori-occidentali guardiamo a quelle realtà.

Nell’osservare e nel giudicare, il nostro approccio di democrazie evolute tende ad anteporre, non sempre disinteressatamente, la visuale post illuministica e la razionalità propria del pensiero cartesiano, accostamenti intellettuali che ci inducono a ritenere che tutto debba avvenire secondo logiche conformi a predefinite strutture formali coerenti con i nostri modelli di riferimento.

Trattiamo di realtà, invece, per le quali i confini tra Stati, voluti e tracciati nella maggior parte dei casi proprio da noi europei-ex colonialisti-occidentali, sono mere linee virtuali e immaginarie, così come le istituzioni formali, replicate a modello degli organi propri delle democrazie liberali, sono contenitori vuoti e adatti, al massimo, a insediare il capo di turno che risulti più funzionale al soddisfacimento dei nostri interessi. Ci sfugge, quasi di proposito, che ciò che noi stessi abbiamo creato e sempre meno efficacemente imposto non si raccorda con culture che ascrivono invece il potere, quello in grado di muovere effettivamente le cose, più a una riunione di anziani che a una seduta di un’assemblea nazionale.

Il concetto di formalità, per evidenze antropologiche e socioculturali così lontane dalle nostre, non solo il più delle volte non esiste nella sua fattualità, ma neppure ne viene percepito il bisogno dagli attori e dei fruitori locali. Persino le più comuni attività socioeconomiche, quelle che spesso noi tendiamo a criminalizzare riconducendole a traffici illeciti di droga, armi ed esseri umani – facendolo correttamente, in quanto aspetti del vivere sociale difformi al nostro sistema di valori e perché di quelle attività ne percepiamo con gravità l’effetto terminale a danno delle nostre società – sono in molti casi espressioni di ordinaria sopravvivenza per gli intermediari locali, i quali appartengono a una lunga filiera di azioni che nel concatenarsi impediscono al singolo agente di apprezzare la magnitudo criminale del proprio comportamento, e poi con quale alternativa di vita e sulla base di quale coscienza individuale e collettiva? Forse la nostra?

Ricordo emblematicamente quello che accadde in Afghanistan nel 2018, quando le missioni USA e NATO avevano imboccato, sotto le inquisizioni finanziarie dell’amministrazione Trump e per effetto del senso di irresolutezza dei costosissimi sforzi sostenuti dagli americani e dai nostri governi, il viale del definitivo tramonto. Si lanciò, in quel contesto, un’operazione militare su vasta scala, l’ennesima finalizzata al contrasto al narco traffico. In quel frangente, gli americani, investiti di un ruolo diverso da quello delle nazioni europee partecipanti alla missione NATO, quest’ultima limitata al Train, Advise and Assist (ma non per questo non testimone di quanto stava accadendo sul fronte amico), avviarono una poderosa campagna aerea e terrestre per colpire, spesso per mano delle Forze Armate afgane, le produzioni di oppio locali, specie quelle ubicata nel sud Pashtun del Paese.

Quelle attività produttive, criminali in quanto anello iniziale della lunga catena del narcotraffico internazionale, erano delle piccole fattorie rurali, animate da nuclei familiari circoscritti a poche generazioni, perciò fatte di nonni, genitori e figli, dediti alla coltivazione, alla raccolta agricola e alla preparazione del primo prodotto oppiaceo usando strumenti rudimentali per essudare, essiccare e rimestare il lattice delle capsule ancora immature del papavero.

Oggi è di tutta evidenza come quell’ennesima operazione militare, tra le ultime di una lunga serie di interventi più o meno cinetici operati dallo strumento militare americano e NATO in Afghanistan (tutti ricordiamo il surge voluto dall’amministrazione del Presidente OBAMA del 2011 al quale la NATO aderì massivamente), non abbia prodotto alcun risultato e sia solo parte ormai storica di un’epopea politico-militare dell’Occidente in Asia Centrale durata circa vent’anni, costata trilioni di dollari e di euro, inefficace nel perseguimento di gran parte dei suoi obiettivi e concausa del ritorno allo status quo ante del potere talebano. Un cammino oltretutto disseminato di centinaia di migliaia di lutti tra i cittadini afgani, lutti che forse vi sarebbero stati in ogni caso e in altra forma, ma dei quali noi siamo stati non incolpevoli testimoni agli effetti di un agire rivelatosi improduttivo.

Tornando al narco traffico afgano e leggendo i rapporti dell’Agenzia della Nazioni Unite che ha competenza su questa spinosa materia, è significativo notare come nel 2018 un chilogrammo di oppio prodotto e distribuito nella rete del narco traffico internazionale generasse profitti pari al massimo a 150 dollari per la modestissima famiglia afgana, come viene detto segmento iniziale della filiera di produzione e di distribuzione, 3500 dollari per l’organizzazione criminale afgana, intermediatrice per la raccolta e per la spedizione del prodotto verso i mercati anche e soprattutto occidentali (solo gli USA consumano il 25% dell’oppio mondiale), e fino a 45000 dollari per la corrispondente organizzazione criminale operante sulle sponde europea e americana, distributrice terminale della filiera illecita una volta che l’oppio è trasformato nella sua versione più sofisticata e micidiale.

Credo allora che le responsabilità del crimine andassero, in quel caso, cercate altrove rispetto alla umile fattoria del deserto del sud dell’Afghanistan, anche alla luce del fatto che per quella famiglia, vistasi sopraffatta dalla potenza militare dell’Occidente e inibita nella prosecuzione dell’unica forma di sostentamento e di sopravvivenza possibile, la percezione del crimine commesso era, più che verosimilmente, molto marginale.

Tornando all’attualità e all’Africa, la mia impressione è che siamo innanzi al compimento di un ulteriore passo del lungo percorso di presa di coscienza da parte di popoli autoctoni che, confinati entro forme statuali geopolitiche incomprensibili, relegati a forme di governo aliene dalle usanze di gestione del potere reale e mescolati e accorpati in appartenenze claniche e tribali non coincidenti con formazioni sociali eterodirette, cercano, attraverso dinamiche turbolente e spesso irrazionali, di ridefinire i termini economici, sociali e politici del loro vivere.

In questo mutamento perennemente in itinere, assimilabile a un sistema vettoriale molto complesso, le forze agenti sono molteplici, sia attive sia reattive. Riferendosi per esempio alla possibile matrice russa, citata da alcuni commentatori, ritengo che il colpo di stato sia certamente una buona opportunità per la Russia, utile a Mosca per ampliare la propria influenza in Africa a discapito dell’Occidente; guardando invece ai nostri interessi nazionali, il cambiamento di regime in Niger, avallato formalmente da Mali e da Burkina Faso, guidate da giunte militari golpiste sottoposte a influenze a noi non amiche, costituisce un oggettivo intralcio all’affermazione dei nostri piani di compartecipazione economica in Africa; osservando, inoltre, quanto la Francia ha dichiarato in poche ore, con ondivaghe ipotesi di intervento militare, poi ritirate, si intuisce quanto l’Eliseo sia preoccupato per un divenire che oltre a sottrarre una delle principali fonti produttive di materie prime energetiche potrebbe suscitare reazioni sociali interne nei già turbolenti spazi delle banlieue parigine; osservando, ancora, gli interventi della CEDEAO (ECOWAS) a guida nigeriana (la Nigeria è lo stato più influente dell’Africa Occidentale e anche il più vicino agli Stati Uniti), si intuisce come il ristabilimento dello status quo ante proclamato dal Segretario di Stato Blinken nelle ore immediatamente successive al golpe di NIAMEY sia problematico e potenzialmente foriero di una deflagrazione ulteriore dell’intera area; guardando, infine, alla possibile matrice islamica, è innegabile riconoscere che la sconfitta di ISIS in Medio Oriente possa aver delocalizzato significativamente le mire del califfato islamico verso l’Africa, ma mi domando, tuttavia, se questa visione di ISIS come se fosse un brand affaristico di tipo occidentale, strutturato con tanto di CEO, Amministratore Delegato e statuto azionario, rispecchi la realtà antropologica e culturale di una terra nella quale gli intermediari di potere sono per definizione entità amorfe e destrutturate.

Aggiungo, richiamando quanto detto in merito all’Afghanistan, che l’appello alla corruzione, cui spesso noi europei-ex colonialisti-occidentali facciamo ricorso per giustificare i nostri interventi, potrebbe apparire dissonante alle orecchie dei partner africani. Come accennato, ciò che per noi è un crimine efferato è invece spesso, nella filiera socioeconomica di altri popoli, una forma di sopravvivenza priva di alternative credibili.

Con atteggiamento di diffidenza verso chiunque dichiari di aver capito come stanno andando le cose in Africa e rievocando, per estensione, l’adagio libanese che ho proposto in apertura, mi sento di dire che se qualcuno afferma di aver capito che cosa sia accaduto in Niger, allora significa che non glielo hanno spiegato bene!

a cura di Antonio Bettelli

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