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Il colpo mortale all’ industria dei semiconduttori inflitto dagli Usa alla Cina

Il colpo mortale all’ industria dei semiconduttori inflitto dagli Usa alla Cina

“Autosufficienza e forza nella scienza e nella tecnologia”, ha ripetuto spesso nel discorso di apertura del XX Congresso nazionale il presidente Xi Ji

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“Autosufficienza e forza nella scienza e nella tecnologia”, ha ripetuto spesso nel discorso di apertura del XX Congresso nazionale il presidente Xi Jinping. Per l’esattezza ha pronunciato la frase cinque volte, mentre altre tre volte ha sottolineato la necessità che le catene di approvvigionamento (supply chain) rimangano resilienti e affidabili per continuare a guidare l’economia cinese e proteggere la sicurezza nazionale. L’accento sul tema che ha conquistato sempre più centralità nella politica di Pechino arriva in un momento di particolare tensione nei rapporti tra Stati Uniti e Cina. Il 7 ottobre, l’amministrazione Biden ha annunciato una serie di restrizioni sulle esportazioni di tecnologia avanzata made in Usa verso la Cina, nello specifico chip informatici di fascia alta e macchine per la produzione dei semiconduttori. Per il Bureau of Industry and Security (BIS) “con questi aggiornamenti verrà limitata la capacità della Repubblica Popolare Cinese di acquistare e produrre alcuni chip di fascia alta utilizzati nelle applicazioni militari, sviluppare supercomputer e semiconduttori avanzati”.

Se applicate alla lettera – sottolinea Alessandra Colarizi su China Files – le nuove misure assesteranno un colpo mortale all’industria cinese dei semiconduttori e ai piani di sviluppo di Pechino. All’apice della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, nel 2019 durante l’amministrazione Trump, erano state colpite singole aziende come Huawei e ZTE, ma in questo caso parliamo di un intero settore che verrebbe compromesso. Settore che vede la Cina consumare tre quarti dei semiconduttori venduti nel mondo e produrne solo il 15%. L’analista ed esperto di Cina, Bill Bishop, l’ha definita una “escalation massiccia”, spiegando nella sua newsletter Sinocism come l’impatto di queste misure siano ancora tutte da comprendere. “Francamente – prosegue – credo che molti stiano sottostimando gli effetti che queste avranno sia sulle supply chain e lo sviluppo tecnologico che sulle relazioni tra Stati Uniti e Cina”.

La risposta da Pechino per il momento è ancora tiepida. Il ministro del Commercio ha accusato Washington di “bullismo tecnologico”, ma non ci sono state controffensive commerciali probabilmente perché il tutto è avvenuto alla vigilia del XX Congresso. Nota sempre Bishop che “le possibili risposte da parte di Pechino sono limitate perché alcuni provvedimenti apparentemente più ovvi – come prendere di mira Apple – danneggerebbero in realtà la stessa economia cinese. Boeing avrebbe senso, ma è stata già punita. Non mi stupirei se a questo punto venissero utilizzate come arma di ricatto le terre rare”. Un’altra chiave di lettura ce la fornisce Matt Sheehan del Carnegie Endowment for International Peace, secondo cui quella di Biden è un enorme scommessa. Probabilmente questa strategia avrà gli effetti desiderati nei prossimi anni con la Cina costretta a fare un passo indietro e utilizzare chip meno avanzati considerati superati dall’industria. Ma dopo queste iniziali difficoltà, Pechino sarà incentivata a velocizzare il processo di indipendenza dalle aziende statunitensi, e a quel punto l’influenza americana sul settore tecnologico cinese sarà pari a zero. Insomma, Joe Biden ha scelto di giocare le carte in suo possesso di cui conosce l’impatto nell’immediato. Quello che avverrà tra dieci anni è decisamente più incerto.

E a proposito di Apple, poco dopo l’annuncio delle restrizioni, il colosso di Cupertino ha congelato tutti i piani di utilizzo di memory chips prodotti dalla cinese Yangtze Memory Technologies Co. (YMTC). Alcune fonti hanno dichiarato a Nikkei Asia, giornale con sede a Tokyo che ha dato per primo la notizia, che Apple aveva da poco completato i processi di verifica della flash memory NAND che sarebbe stata impiegata negli iPhone venduti in Cina. La società, inoltre, non aveva escluso di estenderla successivamente ad altre produzioni visto il prezzo competitivo offerto dalla società cinese grazie anche ai sussidi statali. Il piano però è saltato nel momento in cui la YMTC è stata inserita nella lista di aziende coinvolte dalle restrizioni degli Stati Uniti, e anche nel caso in cui Apple volesse tenere YMTC come partner per il mercato locale, nel giro di un paio di anni la società cinese non sarebbe più in grado di soddisfare il livello tecnologico richiesto da Apple per via di queste limitazioni. Nel 2015 la Cina copriva il 25% delle entrate di Apple, più di tutta l’Europa, oggi è scesa al 19%. Ma a diminuire non sono state solo le vendite. Con il crescendo delle tensioni tra le due più grandi potenze al mondo, Apple ha bisogno di diversificare fornitori e catena produttiva. La pandemia da questo punto di vista è stato un enorme campanello di allarme che ha reso evidenti le conseguenze di un mondo globalizzato dove la formazione di un singolo collo di bottiglia in un punto singolo della supply chain la danneggia nella sua interezza. Così India e Vietnam sono già diventati gli interlocutori prescelti dall’azienda americana che offriranno sicuramente stipendi più bassi e mercati potenzialmente floridi.

Taiwan stretta nella morsa della guerra fredda tecnologica

Taiwan è la più grande produttrice di semiconduttori, sul piano tecnologico i più avanzati al mondo, e sa bene di avere a disposizione questo enorme “scudo di silicio” che le fa da garante con gli Stati Uniti in caso di tentativo di invasione da parte della Cina. “Chiunque ha bisogno di semiconduttori avanzati” – ha spiegato durante una visita a Washington la ministra per gli Affari Economici di Taiwan, Wang Mei-hua – ed essere attori protagonisti di questo settore “rende Taiwan più sicura e [le assicura] la pace”.  Ma la determinazione di Taiwan di tenersi stretta sull’isola l’industria dei semiconduttori – scrive il Financial Times – si scontra con gli obiettivi strategici degli Stati Uniti e i timori nei confronti della Cina. Washington vuole portare la taiwanese TSMC, l’azienda che detiene la quasi totalità (circa il 92%) della produzione di chip più avanzati al mondo, negli Stati Uniti e con il Chips Act – un piano per rilanciare l’industria dei semiconduttori approvato dal Congresso il 9 agosto – avviare quel percorso di produzione interna che la svincolerebbe da Taiwan e da ogni tipo di dipendenza estera. Lo scorso anno, Eric Schmidt, CEO di Google dal 2001 al 2011, ha affermato che gli Stati Uniti sono “molto vicini dal perdere la posizione di pionieri nella microelettronica – fondamentale per le nostre aziende e le nostre forze militari – per via della dipendenza da Taiwan”.

“Il futuro dell’industria dei chip è in America”, ha dichiarato il presidente Biden un mese dopo che il Congresso è riuscito ad approvare il Chips Act. Eppure gli analisti sono molto lucidi nel mettere in guardia sui limiti che questi piani di investimenti –  anche in Europa la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen ha spesso parlato di autosufficienza tecnologica – hanno in termini di tempistica e competenze. L’industria dei microchip non è un settore dove stanziando dei soldi si hanno risposte automatiche e rapide. Servono ingegneri altamente qualificati con esperienze pregresse, tecnologie avanzate e capacità innovative che si accumulano in anni se non decenni. Vorrà dire qualcosa se Morris Chang ha fondato la TSMC nell’ormai lontano 1987. Gli equilibri, quindi, continueranno ad essere molto instabili soprattutto se, come si teme a Washington, il piano di “riunificazione” della Cina con Taiwan andrà più spedito del previsto. E il predominio di Taiwan nel campo dei semiconduttori potrebbe anche non essere lo “scudo di silicio” sperato – avverte Brad Martin, direttore della National Security Supply Chain Institute alla Rand Corporation, sempre al Financial Times – ma diventare piuttosto il suo punto di vulnerabilità. Se la Cina dovesse imporre un blocco limitato e non violento a Taiwan, altri paesi potrebbero evitare di sostenere l’isola per non rischiare l’effetto escalation e questo porterebbe ad una interruzione delle forniture di chip, se non addirittura a uno smantellamento della filiera.

Fonte: Valigiablu.it

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