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Dalla crisi energetica ai fertilizzanti: le conseguenze delle politiche “green”

Dalla crisi energetica ai fertilizzanti: le conseguenze delle politiche “green”

Una notizia piuttosto trascurata sui media nazionali è quella che riguarda l’aumento del costo dei fertilizzanti nel settore agricolo. Notizia non di

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Una notizia piuttosto trascurata sui media nazionali è quella che riguarda l’aumento del costo dei fertilizzanti nel settore agricolo. Notizia non di poco conto se si pensa che costituisce una delle principali cause dell’inflazione nei beni alimentari. Secondo l’Istat, nel mese di gennaio 2022, la svalutazione si attestava a + 2,4% per gli alimenti lavorati e a + 5,4% per quelli non lavorati. L‘aumento dei prezzi dei fertilizzanti deriva in parte dai costi energetici globali, con il prezzo medio del gas naturale in Europa per il trimestre ottobre-dicembre, 10 volte superiore a quello dell’anno 2020, secondo i dati della Banca Mondiale. Il gas naturale infatti, è essenziale nella sintesi dell’ammoniaca, alla base della produzione dei principali fertilizzanti azotati, e un suo aumento si ripercuote necessariamente su quest’ultimi: ciò sta danneggiando sia gli agricoltori dei Paesi in via di sviluppo sia quelli delle nazioni occidentali. Come riporta Bloomberg, è difficile sopravvalutare l’importanza dei fertilizzanti nel processo di produzione alimentare in quanto, secondo alcuni esperti, “la popolazione mondiale potrebbe essere la metà di quella che è oggi senza fertilizzanti azotati”.

È necessario sottolineare come tale allarmante condizione non sia dovuta a fattori “naturali”, ma sia interamente riconducibile a decisioni di natura politica e geopolitica: l’aumento dei costi del gas naturale – e più in generale dell’energia – è strettamente legata, infatti, alla transizione energetica, uno dei pilastri delle politiche europee a cui è destinata la percentuale più alta (37%) delle risorse del Next Generation EU, designato a recepire, tra le altre cose, i programmi del Green Deal. Ossia l’insieme di iniziative politiche della Commissione europea per limitare l’impatto ambientale. Ma anche i fattori geopolitici incidono fortemente sull’aumento dei prezzi delle fonti energetiche e sono ascrivibili alla contrapposizione tra i paesi del blocco atlantico e la Russia.

Il Green deal e la Banca europea per gli investimenti

Il Green Deal mira a dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2030 e ad azzerarle entro il 2050. Su questo presupposto, la Banca europea per gli investimenti (BEI) ha deciso di eliminare i finanziamenti ai progetti tradizionali di energia da combustibili fossili, incluso il gas naturale, per destinarli interamente alle cosiddette “energie rinnovabili”. Tuttavia, la decisione della BEI, più che incentivare l’uso di fonti energetiche alternative, pare sortire l’effetto opposto: ha innescato, infatti, una maggiore domanda di metano. Almeno per ora la produzione di energia rinnovabile non è ancora in grado di soddisfare il fabbisogno europeo e si rivela inoltre più costosa. Anche le energie green infatti, necessitano di materiali di base, la cui richiesta è esplosa negli ultimi mesi comportando, a sua volta, il rincaro dell’“energia pulita”.

L’aumento della domanda – dovuto alla carenza di scorte – e, contemporaneamente, una minore capacità dell’offerta di farvi fronte, ha dunque comportato l’aumento dei costi energetici che è sotto gli occhi di tutti e che è destinato ad aumentare, insieme all’aumento del prezzo dei beni alimentari. Forse anche per questo motivo, la Commissione europea ha di recente deciso di inserire nella tassonomia UE delle energie pulite il nucleare e il gas naturale, pur tenendo fermo il proposito di diminuire l’impiego di quest’ultimo. Nonostante ciò, la decisione ha suscitato il disappunto della BEI che si è dichiarata non disponibile a finanziare progetti verdi relativi a gas e nucleare.

L’insieme di queste decisioni ha avuto il paradossale effetto di bloccare l’estrazione di metano per aumentarne le importazioni dall’estero, rendendo così le nazioni europee ancor più dipendenti da altri Paesi – in particolare dalla Russia – e rinunciando a perseguire la sovranità energetica che rappresenta una questione di sicurezza nazionale. In questo senso, le decisioni in materia energetica sono strettamente legate all’ambito delle politiche internazionali.

Geopolitica ed energia

Il caso recente più emblematico di commistione tra geopolitica ed energia riguarda il gasdotto Nord Stream 2: con un valore di 11 miliardi di dollari, quest’ultimo collega direttamente Russia e Germania, evitando il transito per l’Ucraina. È attualmente il gasdotto più lungo del mondo (1230 chilometri) e affianca il Nord Stream 1, inaugurato nel 2012, andando a raddoppiare la fornitura di gas verso l’Europa. Tuttavia, il progetto ha subito molti rallentamenti ed è stato bloccato sul finire del 2019 a causa delle pressioni statunitensi: gli USA temono, infatti, che il gasdotto possa trasformarsi in un mezzo per aumentare l’influenza russa sui Paesi UE, rinsaldando così i legami tra Mosca e Bruxelles e indebolendo i rapporti tra i Paesi del blocco atlantico. Attualmente, il progetto non è ancora attivo perché non ha ottenuto la certificazione europea che ne deve verificare la conformità alle direttive UE sul gas. Il ministro degli Affari Esteri della Germania, Annalena Baerbock, ha affermato lo scorso 17 gennaio che il condotto non è ancora “pienamente conforme” alla normativa europea e ha avvisato Mosca, che Berlino potrebbe applicare delle sanzioni in caso di escalation intorno all’Ucraina. Questo ritardo nel rendere operativo il Nord Stream 2 – così come la gestione europea dei rapporti col Cremlino – non fa che aggravare la situazione energetica del Vecchio Continente, già ampiamente compromessa da politiche internazionali destabilizzanti che portano la firma della NATO: tra queste, la guerra in Libia del 2011, che ha comportato – in aggiunta alla situazione di disordini politici nel nord Africa – una riduzione delle forniture e maggiori difficoltà per le attività di esplorazione ed estrazione dell’italiana ENI, una delle maggiori aziende petrolifere mondiali per giro d’affari che trasporta il gas libico in Italia attraverso la conduttura GreenStream. Utile notare infine come a trarre beneficio economico dalle tensioni Ue-Russia e dalla mancata messa in funzione del gasdotto russo-tedesco fino ad ora siano stati soprattutto gli esportatori di gas statunitensi.

Ma a far lievitare il costo dell’energia è stata anche la decisione di Bruxelles di rendere autonomo il prezzo del gas naturale che prima era legato, invece, all’andamento del petrolio. In questo modo, la UE si è legata alle dinamiche di domanda e offerta del mercato, rinunciando ai contratti a lungo termine con la Russia, con l’intenzione di colpire Gazprom e inasprendo invece ulteriormente la crisi energetica. Nonostante ciò, Bruxelles non ha esitato ad accusare Mosca di avere ridotto le forniture: a riguardo, durante la tradizionale conferenza stampa di fine anno 2021, il presidente russo Vladimir Putin ha sottolineato di avere avvertito i partner europei sul pericolo di eliminare il sistema dei contratti a lungo termine sul gas: «Abbiamo detto, voglio ripetere, che non c’è bisogno di eliminare i contratti a lungo termine. No, ci ha detto la Commissione europea, dobbiamo passare alle dinamiche di mercato, il mercato si regolerà. Bene, si è regolato, più di duemila dollari per mille metri cubi».

Inflazione e possibili carestie alimentari

Le dinamiche geopolitiche unitamente alle decisioni europee e internazionali in materia di energia ricadono in primo luogo sui consumatori finali che rischiano di subire una perdita del potere d’acquisto. Oltre a luce e gas, infatti, ad aumentare a livello globale sono i costi dei prodotti alimentari: l’indice FAO 2022 dei prezzi dei cereali ha raggiunto una media di 140,6 punti a gennaio, vale a dire 15,6 punti al di sopra del livello di un anno fa; mentre quello dei prezzi dell’olio vegetale si è attestato ad una media di 185,9 punti, in aumento di 7,4 punti su base mensile, raggiungendo il massimo storico.

L’Europa è stata una delle regioni che più ha risentito della crisi energetica e questo ha avuto conseguenze negative sulle aziende di fertilizzanti: molte infatti, sono state costrette a diminuire la produzione. Tra queste la norvegese Yara International Asa e la principale azienda chimica europea BASF SE. Questo avrà ripercussioni soprattutto sulla resa e la qualità del grano nel Vecchio Continente, tanto che alcuni gruppi agricoli locali francesi hanno lanciato l’allarme in una dichiarazione congiunta, affermando che l’aumento delle spese per i fertilizzanti potrebbe aggiungere costi per 4 miliardi di euro al settore agricolo. Tuttavia, questa crisi è estesa a livello globale e nei Paesi in via di sviluppo può condurre al rischio di una vera e propria carestia alimentare, mentre molti paesi come Russia e Cina hanno deciso di limitare fortemente le esportazioni di fertilizzanti attraverso dazi e ostacoli burocratici.

L’ONU e la COP26

L’ONU è l’organizzazione sovranazionale che più di altre ha incentivato le politiche e gli accordi internazionali per fare fronte ai cosiddetti cambiamenti climatici. Le conferenze internazionali organizzate dalle Nazioni Unite hanno portato alla nascita di programmi come il Green Deal nella UE e più in generale a piani di decarbonizzazione nella maggior parte dei Paesi del mondo. Su questi presupposti è stata istituita la COP – acronimo di Conference of Parties – la riunione annuale dei Paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici. In particolare, la COP26 del 2021 tenutasi a Glasgow ha ribadito l’obiettivo di eliminare le emissioni entro la metà del secolo azzerando l’uso del carbone, riducendo gli altri combustibili fossili (petrolio e gas naturale) e investendo sulle rinnovabili. Obiettivi meritori, ma se il loro raggiungimento è lasciato – come pare al momento – alla improvvisazione e alla libera iniziativa green delle aziende il fatto che si traduca in costi economici che finiranno scaricati sui cittadini è quasi una certezza. Dunque, nonostante l’ONU sia propensa ad attribuire le cause della malnutrizione ai cambiamenti climatici, in realtà esse vanno ricercate almeno in parte proprio nelle soluzioni messe in atto per contrastarli: dai combustibili fossili, infatti, deriva l’85% della produzione mondiale di energia, mentre il metano rappresenta circa l’80% del costo dei fertilizzanti azotati. Ridurre l’utilizzo di queste fonti energetiche, senza che siano messe in campo alternative pronte o significative misure riparatorie significa di fatto ostacolare lo sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo, aumentando i disagi sociali e la penuria di beni alimentari.

Filantropismo e Green economy

D’altronde, lasciata alla mano magica del mercato capitalistico, la transizione ecologica sta già tramuntandosi in una gallina dalle uova d’oro per le oligarchie finanziarie globali, che hanno individuato nelle “economie verdi” un nuovo modello di business e di “riprogettazione” dell’intera economia. Lo stesso World Economic Forum (WEF) sostiene il passaggio a un nuovo modo di generare profitti improntato su digitalizzazione e transizione ecologica. Così come sostiene la necessità di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, pur essendo consapevole che ciò “costerà 3,5 trilioni di dollari in più all’anno”. Riassumendo il rapporto della società di consulenza McKinsey – che analizza costi e conseguenze della transizione energetica – il WEF dichiara che gli impatti della green economy sui consumatori “includeranno l’aumento delle bollette energetiche, la perdita di posti di lavoro nelle industrie ad alte emissioni, i cambiamenti in ciò che le persone mangiano e l’aumento delle spese per porre fine alla nostra dipendenza dai combustibili fossili per riscaldare le case e viaggiare”. Tutto questo si riverserà soprattutto sulle fasce sociali meno abbienti, ma anche sui ceti medi della popolazione.

In definitiva, è ancora una volta l’uno percento della popolazione mondiale a guadagnare dai grandi stravolgimenti economico-sociali, mentre la restante parte ne subisce – spesso inconsapevolmente – le conseguenze. Con la beffa che i magnati del capitalismo finanziario fautori della “green economy” si sono autoproclamati “filantropi” e vengono considerati tali da buona parte dell’opinione pubblica proprio mentre contribuiscono ad aumentare povertà e disoccupazione. Come già abbiamo messo in luce nello speciale “Emergenza climatica: la transizione necessaria e il gioco delle élite globali” il fulcro della questione non è contestare la necessità di una transizione ecologica, ma quello di sottolineare come questa debba essere fatta pagare a chi per decenni si è arricchito sulle emissioni nocive e non ai cittadini. La ricetta opposta a quella proposta dal World Economic Forum che, non a caso, è l’associazione di categoria che racchiude le principali multinazionali globali e non certo una onlus che si preoccupa del benessere della società. Anche se i piani vengono spesso confusi anche su certa stampa complice.

Fonte: Indipendente.online

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