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Metaverso: il reato di molestie sessuali nella rete

A pochi mesi dall’annuncio del progetto di realtà virtuale ideato dalla neonata Meta arrivano le prime critiche e i primi problemi giuridici

Metaverso: il reato di molestie sessuali nella rete

Era l’ottobre del 2021 quando Mark Zuckerberg annunciava il cambio di nome della sua società da Facebook a Meta e la volontà di concentrare le forze s

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Era l’ottobre del 2021 quando Mark Zuckerberg annunciava il cambio di nome della sua società da Facebook a Meta e la volontà di concentrare le forze sulla creazione del Metaverso, una realtà virtuale capace di riprodurre nel modo più fedele possibile le attività della vita reale.

Due mesi dopo, il 10 dicembre 2021, la società californiana ha ufficialmente rilasciato Horizon Worlds, una piattaforma multigiocatore che al momento è disponibile soltanto per i maggiorenni di Stati Uniti e Canada dotati degli Oculus Quest, i visori per la virtual reality di Meta. Si tratta, in altri termini, del primo tentativo concreto di creare un vero e proprio Metaverso. In particolare, per accedere alla piattaforma, oltre alla strumentazione tecnologica ad essa dedicata, è necessario avere un account Facebook. Dopodiché, una volta scelto l’avatar, si può iniziare a interagire con gli altri utenti usando la propria voce ed esplorare un “mondo” di stampo futuristico.

Senonché, come forse era prevedibile, la possibilità di relazionarsi con gli altri ha dato vita alle prime controindicazioni, contro le quali non sono servite le raccomandazioni di Meta contro bullismo e abusi.

Fin dalle prime esperienze di utilizzo della piattaforma, infatti, molte donne hanno raccontato di aver subito aggressioni verbali da parte di altri avatar con voci maschili, pedinamenti e continui apprezzamenti non richiesti. Per questo, è arrivata anche la prima denuncia per molestie sessuali sul Metaverso e, presumibilmente, non sarà l’ultima. Una ricercatrice che stava testando la piattaforma Horizon Worlds in qualità di addetta ai lavori ha infatti raccontato di essere stata subito avvicinata e accerchiata da diversi avatar che le hanno indirizzato epiteti e inviti a sfondo sessuale, e che poi l’hanno seguita a lungo nel mondo virtuale continuando ad apostrofarla in vari modi. Il tutto alla “presenza” di altri utenti che scattavano fotografie, giravano filmati e incoraggiavano i molestatori a continuare.

La vicenda ha inevitabilmente acceso il dibattito non solo sul grado di sicurezza del Metaverso, ma anche sui profili giuridici dei reati commessi nella realtà virtuale e delle misure di tutela necessarie per “governare” un fenomeno di questa portata. Sotto questo punto di vista, anche il nostro Paese dovrà cominciare a pensarci.

Violenza sessuale: è configurabile anche senza contatto fisico?

Visti i problemi pressoché immediati delle prime applicazioni del Metaverso negli Stati Uniti e in Canada, è forse il caso di iniziare a pensare ai risvolti giuridici di tali condotte nell’ordinamento italiano che, presumibilmente, non tarderà a trovarsi di fronte al fenomeno.

Partendo dalla violenza sessuale, quest’ultima è sanzionata con la reclusione da 6 a 12 anni dall’art. 609-bis c.p., e consiste nella condotta di colui che con violenza, minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali. Inoltre, il comma 2 della stessa disposizione commina la medesima sanzione all’ipotesi di commissione del reato abusando dell’inferiorità psichica o fisica della vittima, o traendo quest’ultima in inganno mediante sostituzione di persona.

Ora, ciò premesso, il nodo cruciale ai fini della punibilità della condotta online risiede nel riferimento della norma al fatto di “compiere o subire atti sessuali”, il quale potrebbe far pensare alla necessità di un contatto fisico tra l’autore e la vittima. Peraltro, né l’art. 609-bis sulla violenza sessuale, né il successivo art. 609-ter sulle circostanze aggravanti della stessa, fanno esplicito riferimento all’ipotesi di consumazione del reato mediante strumenti elettronici.

In realtà, a sopperire a queste carenze letterali ci ha pensato la Corte di Cassazione. Già nel 2013, con la sentenza n. 19033 pronunciata dalla Terza Sezione Penale, la Corte aveva ritenuto commesso il tentativo di violenza sessuale da parte di colui il quale, tramite minacce, voleva costringere le sue vittime a ricevere fotografie a contenuto esplicito che lo ritraevano, e ad inviargliene altre in cambio. Tale orientamento è stato poi ribadito in pronunce successive, nelle quali gli Ermellini hanno confermato le condanne avvenute in sede di appello nei confronti di soggetti che avevano costretto le vittime a ricevere od inviare materiale pornografico, nonché a subire messaggi allusivi e sessualmente espliciti (Cass. Pen., Sez. III, sent. n. 17509/2018; Cass. Pen., Sez. III, sentenza n. 25266/2020).

Si può quindi affermare che, secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, nella violenza sessuale commessa con strumenti telematici di comunicazione a distanza, la mancanza di contatto fisico tra l’agente e la vittima non è idonea né ad escludere la commissione del reato ex art. 609-bis c.p., né a garantire il riconoscimento della circostanza attenuante del fatto di minore gravità.

2. Molestie nella realtà virtuale: sono sanzionabili?

Quanto al caso delle molestie, le conclusioni possono essere analoghe, seppure si tratti di una fattispecie molto diversa rispetto alla precedente e, soprattutto, non specificamente pensata per la tutela della sfera sessuale. L’art. 660 c.p., infatti, punisce con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516 chi, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo. Dalla lettura della norma, quindi, si nota che il legislatore non ha previsto un reato autonomo di molestie sessuali, bensì un reato generico di molestia o disturbo alle persone, il quale può, a seconda delle circostanze concrete, andare anche a minare la sfera sessuale. In altri termini, il bene giuridico tutelato è, in questo caso, la tranquillità pubblica e del privato: nel primo caso, si fa riferimento al luogo in cui viene realizzata la condotta, in quanto deve essere compiuta in luogo pubblico o aperto al pubblico; nel secondo frangente, invece, rileva l’utilizzo del mezzo telefonico o di qualsiasi altro idoneo ad arrecare disturbo. In questo caso, è lo stesso legislatore a prevedere chiaramente la possibilità che il reato possa essere commesso anche a distanza. Peraltro, la rilevanza penale di una condotta molesta tenuta nella realtà virtuale potrebbe essere sorretta da due argomenti distinti.

Innanzi tutto, può essere presa in considerazione l’integrazione della natura pubblica o aperta al pubblico del luogo in cui avvengono gli atti incriminati. Sotto questo punto di vista, la Corte di Cassazione ha risposto con la sentenza n. 37757/2014, nella quale si era pronunciata circa l’inserimento degli apprezzamenti sgradevoli sul profilo Facebook della vittima, ritenendo che  la pubblicazione di siffatti messaggi sulla pagina del social network possa violare l’art. 660 c.p., in quanto la pagina del profilo è da considerarsi una “piazza immateriale” che consente un numero indeterminato di accessi e di visioni e che può essere assimilata al luogo pubblico, coerentemente con l’evoluzione che impone di adattare vecchi concetti allo stato attuale della tecnologia.

Secondariamente, le molestie “virtuali” potrebbero trovare appiglio anche sul riferimento al mezzo telefonico o a qualunque altro idoneo a recare disturbo.

Tuttavia, benché sia importante la sanzionabilità dell’illecito commesso online, la nota dolente la si può riscontrare proprio sul fatto che, come anticipato, il reato ex art. 660 c.p. si configura come un disturbo generico alla quiete pubblica o privata che non concerne specificamente la sfera sessuale. Più precisamente, manca nel nostro ordinamento un alter ego dell’art. 222-33 del Codice penale francese, che sanziona il c.d. harcèlement sexuel. Quest’ultimo consistente proprio nella condotta di imporre a una persona, in maniera ripetuta, osservazioni o comportamenti aventi una connotazione sessuale o sessista che ledano la sua dignità a causa della loro natura degradante o umiliante, oppure creino nei suoi confronti una situazione intimidatoria, ostile o offensiva.

3. Le altre fattispecie a tutela della “vita virtuale”

L’ordinamento italiano, nel corso degli anni, si è adeguato in vario modo all’avvento delle nuove tecnologie, tanto da un punto di vista legislativo che giurisprudenziale.

Innanzi tutto, vanno menzionate la L. 10 luglio 2019, n. 69 sul c.d. revenge porn – ossia la diffusione di materiale multimediale a contenuto sessualmente esplicito senza il consenso della persona ritratta – o la L. 29 maggio 2017, n. 71 sul cyberbullismo. Il primo intervento normativo porta con sé l’importanza di essere stato uno dei principali rappresentanti dell’esigenza di sanzionare le violazioni della privacy anche laddove vi sia la sola intenzione di fare del male alla vittima, e non necessariamente quella di ottenere un vantaggio economico. La seconda legge, invece, ha voluto rafforzare la tutela dei più giovani rispetto a quei comportamenti denigratori che dai corridoi scolastici si sono trasferiti sul web. A interventi di questo tipo, si aggiungono diverse pronunce giurisprudenziali – come quelle viste nei paragrafi precedenti – con le quali la Cassazione ha provveduto ad interpretare le norme alla luce dell’evoluzione tecnologica, permettendo la repressione di condotte che, altrimenti, avrebbero rischiato di rimanere impunite in quanto escluse dalla definizione letterale. Oggi possiamo quindi affermare che l’ordinamento giuridico del nostro Paese contiene una serie di reati volti a tutelare le persone rispetto alle condotte illecite commesse sfruttando la tecnologia. Oltre a quelli menzionati, infatti, si può citare il cyberstalking, ossia il reato di atti persecutori commessi tramite strumenti informatici o telematici ex art. 612-bis, comma 2, c.p., o la diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3, c.p., vale a dire la lesione all’onore e alla dignità mediante mezzi di pubblicità diversi dalla stampa, ivi compresi i social network.

4. Conclusioni: come affrontare il futuro

Come anticipato, è necessario prendere in considerazione fin da subito il fatto che, benché la piattaforma Horizon Worlds sia ad oggi limitata ai cittadini maggiorenni di Stati Uniti e Canada, anche l’Italia dovrà fare i conti con il Metaverso. Da questo punto di vista, l’ordinamento giuridico è munito di molteplici strumenti normativi e giurisprudenziali volti a tutelare le vittime di eventuali reati commessi nella realtà virtuale. Ciononostante, non si può nascondere la necessità di procedere ad ulteriori interventi. In particolare, sarebbe opportuno integrare l’art. 609-bis c.p. in materia di violenza sessuale con il riferimento espresso alle nuove tecnologie, non accontentandosi del solo lavoro interpretativo della Suprema Corte. Inoltre, sarebbe altrettanto apprezzabile un’integrazione del Codice penale con una norma ad hoc per le molestie sessuali, distinta dalla fattispecie generica dell’art. 660, sulla scia del già citato harcèlement sexuel francese. Dopodiché, una presa di posizione dell’Unione europea potrebbe essere necessaria, soprattutto alla luce del Regolamento UE 2016/679 in materia di protezione dei dati personali e del futuro Regolamento sull’intelligenza artificiale, i quali testimoniano come l’approccio finalizzato a “governare” la diffusione e l’uso delle nuove tecnologie sia solidamente continentale.

Da un punto di vista tecnico, invece, a seguito dei primi fatti illeciti commessi sulla piattaforma Horizon Worlds, Meta ha annunciato la creazione della c.d. Safe Zone. Si tratta, in sostanza, di una sorta di “bolla protettiva” che gli utenti possono attivare quando si sentono minacciati, impedendo a qualsiasi altro avatar di parlare con loro o di avvicinarsi. Se a prima vista può sembrare un’iniziativa risolutiva, c’è il rischio concreto che prendano il sopravvento le controindicazioni. Infatti, il pericolo è quello di spostare le responsabilità sugli utenti vittime dei reati, distogliendo l’attenzione dagli autori e, soprattutto, dall’azienda. La possibile conseguenza, cioè, è che se una persona subisce un illecito, questo sia sminuito dall’eventuale mancata attivazione della Safe Zone da parte della vittima. Peraltro, proprio in questo senso le reazioni provenienti dai vertici di Meta dopo la denuncia della ricercatrice hanno fatto molto discutere. C’è chi ha detto che il racconto della donna molestata fosse un “buon feedback per migliorare”, e chi ha invece qualificato l’evento come “sfortunato”.

Ebbene, non è discutibile il fatto che gran parte dei rischi della rete nasce da utilizzi delle nuove tecnologie privi di una base culturale improntata sul rispetto reciproco, sulla tutela dei diritti e sulla legalità, ma allo stesso tempo, proprio per questo, è necessario che i fornitori dei servizi garantiscano un livello altissimo di sicurezza, anche in collaborazione con le autorità, il che non può – ad oggi – limitarsi ad una Safe Zone attivabile a comando. Il Metaverso, infatti, è certamente virtuale e un avatar può essere cancellato, ma i traumi – come quello subito dalla ricercatrice che ha poi denunciato i fatti – sopravvivono anche nella realtà.

Fonte: Altalex.com

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