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Futuro lavoro digitale: cosa cambia e cosa faremo

Il workplace ibrido e digitale, la great resignation e la sostenibilità: nel post-pandemia metodi e posti di lavoro non sono più gli stessi. Cosa sta accadendo?

Futuro lavoro digitale: cosa cambia e cosa faremo

Alzi virtualmente la mano chi può dire che il suo modo di lavorare non ha subito modifiche negli ultimi due anni. E faccia lo stesso chi pensa che il 

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Alzi virtualmente la mano chi può dire che il suo modo di lavorare non ha subito modifiche negli ultimi due anni. E faccia lo stesso chi pensa che il lavoro in sé non sia atteso da un cambiamento epocale di cui non si intravedono i confini ma di cui si ha la certezza che avverrà.
Certi di non vedere mani alzate e senza voler rievocare ancora una volta la società liquida teorizzata di Zygmunt Baumann, che peraltro abbiamo già sotto i nostri occhi, diciamo che il modo in cui stiamo lavorando cambia e cambierà. Le spinte sono molteplici e tutte hanno come combustibile la tecnologia e come comburente la pandemia.

Esemplare la definizione che dà Boston Consulting Group in un recente documento sul lavoro di nuova generazione: “il Covid è stato il miglior Chief innovation officer”, a significare come le aziende abbiano scoperto nuovi approcci e capacità che manterranno il loro valore molto tempo anche dopo la fine della pandemia.

Great resignation e nuovi spazi di lavoro

Come la great resignation, quel fenomeno globale che vede giovani e meno giovani dare le dimissioni o, per rimanere in Italia, il south working, ossia il lavoro che dal Nord in presenza si sposta al Sud in remoto.

C’è una recente indagine di Aidp, l’Associazione italiana per la direzione del personale, secondo cui la fascia d’età maggiormente coinvolta dal fenomeno delle grandi dimissioni è quella dei 26-35enni.
Randstad, società specializzata in collocamento delle risorse umane, ha individuato i dieci fattori che spingono il movimento delle grandi dimissioni: relazioni professionali, contenuto del lavoro, valori aziendali, stipendio, tempo, crescita, specializzazione, clima aziendale, lavoro da remoto, voglia di cambiare.
Spicca, allora, che per favorire l’assunzione di lavoratori del Sud in tutta Italia, permettendo loro di lavorare in smart working dai territori d’origine, Randstad abbia siglato un protocollo di intesa con South Working, associazione che promuove il lavoro agile: ora è possibile candidarsi per un’offerta di lavoro lavorando da remoto dal Sud o da piccoli centri. Prevenendo, in sostanza, un elemento scatenante le dimissioni.

Che ne sarà della pensione?

Il 27 marzo si chiude la Global Money Week promossa dall’OECD, decimo appuntamento a livello globale, che dal 21 marzo sta attirando l’attenzione dei giovani sull’educazione finanziaria (quest’anno il tema è stato: Costruisci il tuo futuro, gestisci bene il tuo denaro).
Viene da chiedersi: con tutte queste dimissioni, del futuro, della pensione dei giovani, del loro danaro, che ne sarà?
Secondo Andrea Scaffidi, Head of Retirement di WTW, società di consulenza e di brokeraggio assicurativo, i giovani lavoratori italiani non stanno preparando il loro futuro né gestendo bene il loro denaro, inconsapevoli che le scelte finanziarie vanno prese e vissute giorno dopo giorno, “dall’acquisto della casa al finanziamento della propria formazione calcolandone i rendimenti rispetto al futuro miglioramento di reddito che ne potrebbe conseguire. Oppure si può decidere quando iniziare ad accumulare una somma a tutela della vecchiaia e quanto accantonare o quale sia il modo migliore per investire i propri risparmi”.
Oggi, dice Scaffidi, solamente il 17,4% degli iscritti al secondo pilastro della pensione complementare ha meno di 35 anni e un terzo dei nuovi assunti non compie alcuna scelta pensionistica. Quando, invece, i dipendenti aderiscono a un fondo pensione e versano un contributo, la contribuzione media annua per gli uomini è di 2.880 euro e di 2.340 euro per le donne. Il contributo per i giovani fra 25 e 34 anni, però, si ferma a 1.610 euro all’anno.

Che lavoro faremo: le competenze digitali

La pandemia, si diceva, come principale causa al cambiamento, ma anche il digitale fa la sua parte. E la farà ancora di più, stando ai dati di Qlik, società che fa software per capire gli andamenti aziendali, che in un report sull’evoluzione della formazione (upskilling), realizzato a livello mondiale con The Future Labs su 1.200 dirigenti e oltre 6.000 dipendenti, fa capire come l’uso dei dati stia trasformando metodologie e posti di lavoro. In sintesi: l’alfabetizzazione sui dati, cioè la capacità di leggere, lavorare, analizzare e comunicare con i dati, sarà la competenza più richiesta entro il 2030. L’85% dei dirigenti crede che diventerà un requisito vitale in futuro come lo è oggi la capacità di utilizzare un computer, e i dipendenti alfabetizzati potrebbero aumentare il loro stipendio del 26%.

Alberta Zamolo Generali

Un esempio di formazione sul digitale lo ha fornito Alberta Zamolo, head of Group Academy di Generali, ossia la manager che è responsabile della formazione per i 72mila dipendenti del gruppo assicurativo, in occasione del convegno Future of Work di IDC, che Money.it ha seguito.
Con un programma lanciato nel 2019 e subito adeguato con il conclamarsi della pandemia, Zamolo ha creato una vera e propria macchina di upskilling e reskilling con la consapevolezza che le competenze non sono uguali per tutti. Ha così individuato assieme alle persone un catalogo di 60 competenze da coltivare. Un esempio di co-design che ha portato a realizzare corsi per tutte le 72mila persone, dalla digitalizzazione ai comportamenti. Il passo successivo sono i master di alto livello di formazione interna (esempio: i data scientist).
Le persone? Sono contente: chi fa upskillng vede la crescita, chi fa reskilling rinasce. E Generali misura questi effetti in termini di produttività. Il nuovo ciclo strategico triennale partito nel 2022 verte su una formazione ibrida, non più solo digitale, con la sostenibilità al centro della scena formativa per finance e insurance.

Aggiungiamoci pure che il 71% degli oltre 6.000 impiegati e professionisti IT intervistati da Ivanti, società di software e sicurezza IT, ha detto che preferirebbe lavorare da qualsiasi luogo piuttosto che ricevere una promozione e che secondo lo studio Flebile Working di Mercer, società di consulenza e soluzioni tecnologiche HR, per 8 aziende italiane su 10 il modello ibrido di lavoro è l’immediato futuro e 6 aziende su 10 in Italia stanno cercando di allineare politiche, programmi per le persone e infrastrutture a obiettivi di diversità, equità e inclusione.

Nel futuro del lavoro entra la sostenibilità

Alla spinta della trasformazione digitale e della pandemia se ne aggiunge un’altra, proveniente dalle sfide legate al clima e ai cambiamenti sociali: la sostenibilità.
Qualche dato a supporto: entro il 2023 il 70% delle aziende Global 2000 avranno modelli di lavoro remoti o ibridi, il 60% avrà piattaforme con intelligenza artificiale per gestire l’intera vita lavorativa dei dipendenti fino al pensionamento ed entro il 2024 il 70% delle imprese avrà investito in dati e strumenti relativi a diversità, uguaglianza e inclusione per la gestire il capitale umano.

Roberta Bigliani IDC

La sostenibilità entra dunque nel mondo del lavoro e lo fa per stabilire un equilibrio fra individuo, azienda e società, stabilendo cinque priorità.

Sempre nel convegno Future of Work le ha evidenziate Roberta Bigliani, Group Vice President, Head of Insights di IDC Europe.
La prima non è nuova: l’empowerment, «che si fa creando una cultura collettiva, basata su strumenti cognitivi, tecnologici, complessivi, per tutti. Che significa che non esistono solo coloro che vanno in ufficio, ma anche chi sta a casa, chi è a una cassa del supermercato, chi trivella per strada».
Seconda priorità, un modello di leadership non più gerarchico: «il manager deve essere trasparente con tutte le persone dentro e fuori, pensare sistemico ed essere umano». Qui la digitalizzazione deve essere inclusiva, ossia tenere presente tutte le persone che lavorano. «Se lasciamo l’utilizzo dei dati solamente ai data analyst non siamo messi bene: i dati devono essere messi in mano in modo strumentale a tutti».
Terza: la resilienza, elemento fondamentale in qualsiasi strategia aziendale. «Va oltre qualsiasi dimensione tecnica, è delle singole persone in un contesto organizzativo. Il punto è come creare gli skill che permettono alle persone di essere resilienti».
Quarta: il mondo ibrido è qui per restare. Per il 60% delle aziende il remote first è il primo approccio. «Essere tradizionale o virtuale è più facile che stare nel mezzo, in modo ibrido». Le sfide sono il supporto IT, la cybersecurity, gli accessi, la cultura del trust, e poi i manager devono capire che lavorare in modo ibrido è diverso. «Quindi la quarta priorità è la parità di esperienza, attuabile con gli strumenti tecnologici».
Quinta priorità: a chi tocca fare tutto questo? A tutto il top management, per intero nessuno escluso.

Perché il posto di lavoro deve essere ibrido

Roberta Bigliani ha fatto riferimento a un top management che deve accettare e sdoganare il lavoro ibrido in azienda. Lo testimoniano e propongono tutti: dai fornitori di tecnologia e soluzioni digitali ai responsabili delle risorse umane, come si diceva una volta, illuminati.
Fa parte della prima categoria Sabino Trasente, senior business solution strategist di Vmware, portatore di una proposta che si chiama virtual floorplan, dove le persone collaborano e formano connessioni: più che un luogo di lavoro in tradizionale, un collaboration center. Un luogo dove si creano le cosiddette tribe, microcomunità tendenti a una, si spera, sana autoregolazione.
Una proposta che trae la sua forza da una ricerca da cui risulta che il lavoro ibrido resterà per il 74% delle aziende e, se sarà garantito accesso completo alle risorse digitali, avrà la stessa user experience di quello in presenza.
Gli fa eco una ricerca di Lenovo, per la quale l’83% delle persone lavorerà in modo ibrido, con il 60% che vorrebbe farlo da casa.
Marco Frenquellucci, Services Sales Executive, snocciola I benefici: bilanciamento di lavoro e vita privata, produttività e razionalizzazione degli spazi. Vantaggi compensati dalle sfide: servono strumenti idonei per l’ufficio, i temi della sicurezza e della continuità di lavoro spostano il loro baricentro sull’utente. Ammettere questo significa capire che per mettere in pratica il lavoro ibrido bisogna saper fare i servizi.
La business continuity sull’utente finale è così minacciata da tre fattori: la distribuzione corretta degli strumenti di lavoro (che computer dò e a chi?), un supporto inefficace che può bloccare il lavoro (quanto impiego a risolvere il problema a chi lavora da casa?), l’esposizione dell’utente agli attacchi (le reti che utilizziamo sono sicure?).

Team ibrido per scelta

Ma come si gestisce un team ibrido? Per Nicola Ladisa, HRO director della Holding DeAgostini, funzione IT e HR sono storicamente abbinati nei cambiamenti, ma oggi è primaria la focalizzazione sulle persone.
La tecnologia aiuta: dobbiamo imparare a gestire occasioni di lavoro interfunzionali, sono competenze che i manager devono sviluppare assieme alle persone. Dobbiamo capire che la mediazione del dispositivo è lo strumento per ingaggiare le persone. La funzione HR non deve vivere nella torre eburnea di un tempo, quando era la persona delle policy, del recruitment, delle relazioni sindacali. Ora si è evoluta, si è avvicinata alla linea di business“.
Pierluigi Fioretti, deputy head digital e printing solutions di Canon, società che ai servizi di stampa gestiti ha ora affiancato quelli di gestione del workflow, dice che “oggi ovunque ci si trovi si può lavorare con la stessa produttività che si aveva prima: l’ufficio è diventato liquido”, facendoci così tornare al punto da cui avevamo iniziato, quella società liquida in cui siamo immersi.

Fonte: Money.it

 

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