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Turchia: la spericolata politica estera per tornare un impero

Turchia: la spericolata politica estera per tornare un impero

Dallo scoppio della guerra in Ucraina fino ad oggi una delle poche certezze che sono emerse dal conflitto è che il contrasto tra Russia e Occidente ap

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Dallo scoppio della guerra in Ucraina fino ad oggi una delle poche certezze che sono emerse dal conflitto è che il contrasto tra Russia e Occidente appare al momento difficilmente sanabile. In questo contesto di instabilità e tensione, uno dei pochi Paesi in grado di portare avanti una politica indipendente nei confronti di Russia e Ucraina è stata la Turchia. Alla mediazione di Ankara si deve infatti l’accordo tra i due belligeranti relativo allo sblocco dei porti ucraini, che ha permesso di far ripartire le esportazioni di grano da cui dipendono numerosi Paesi mediorientali, i quali coprono ampia parte del loro consumo interno con il grano di Kiev. Non a caso, prima che Russia e Ucraina giungessero ad un accordo, con la Turchia a fare da garante con le Nazioni Unite, si è sentito spesso parlare di crisi alimentare globale. La Turchia è stata inoltre, durante i primi mesi del conflitto, il Paese più attivo nel cercare una soluzione diplomatica. Diversi incontri diplomatici tra i funzionari dei due Paesi sono stati organizzati a Istanbul per cercare di raggiungere un cessate il fuoco. Recentemente, tramite il presidente Recep Tayyip Erdogan, la Turchia ha svolto un ruolo importante come mediatore per la spinosa questione della centrale nucleare di Zaporizhzhia, occupata dai russi e finita al centro di aspri combattimenti tra i due eserciti. Combattimenti che hanno fatto temere si potesse verificare un ennesimo incidente nucleare in un Paese che sta ancora facendo i conti con le conseguenze dell’esplosione occorsa nel 1986 nella centrale nucleare di Chernobyl. Un ruolo che a prima vista potrebbe essere dettato da un sano desiderio di pace globale, ma che nasconde una serie di interessi evidenti, che Erdogan sta portando avanti giocando contemporaneamente su più tavoli, come un navigato campione di scacchi.

I principi cardine della politica estera turca

Come riportato dal sito del Ministero turco per gli Affari Esteri, i principi cardine della politica estera di Ankara sono due: proteggere gli interessi della Turchia in un ambiente regionale e globale instabile e sviluppare a livello mondiale le condizioni per una pace e uno sviluppo sostenibili. Sul fatto che Ankara, quando si tratta di politica estera, miri prima di tutto a proteggere gli interessi nazionali non ci sono dubbi e non dovrebbe nemmeno stupire dato che così agiscono anche tutti gli altri Paesi sullo scenario internazionale. Mentre più di un dubbio sussiste sul fatto che la Turchia lavori al contempo anche per sviluppare la pace a livello globale. Negli ultimi anni la Turchia è stata uno dei Paesi più attivi in Medio Oriente, Nord Africa e nel Mediterraneo, non solo a livello diplomatico ma anche militare. In Siria ad esempio, nella guerra civile iniziata nel 2011, Ankara ha fornito dapprima supporto e addestramento al Free Syrian Army, uno dei tanti gruppi che si opponeva al governo di Bashar al-Assad, per poi intervenire militarmente nel 2019. Intervento giustificato da ragioni di sicurezza, ossia creare una zona cuscinetto tra la Siria e il confine turco per prevenire la minaccia “terroristica” rappresentata dai curdi. La questione dei curdi è infatti uno dei temi caldi nella politica interna ed estera per il governo di Ankara. In Medio Oriente vivono circa 40 milioni di curdi sparsi tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Venti milioni si trovano in Turchia, concentrati principalmente nelle regioni a sud-est vicino al confine con la Siria. Dalla fine degli anni ’70 è in corso un conflitto tra i curdi, che vorrebbero creare in quelle regioni un Kurdistan indipendente o quantomeno autonomo, e il governo turco. Il principale “nemico” di Ankara è il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), considerato un’organizzazione terroristica non solo dalla Turchia, ma anche da Stati Uniti e Europa. Il PKK è stato negli anni capace di espandere la propria influenza anche ai Paesi vicini dove esistevano comunità curde, come Siria e Iraq, aumentando quindi i timori di Ankara. Non a caso l’intervento militare diretto dell’esercito turco è arrivato quando i curdi, avendo sconfitto lo Stato Islamico, stavano iniziando a costituire delle comunità autonome nelle zone della Siria che avevano liberato. Le ingerenze della Turchia verso i Paesi vicini non si limitano solo alla Siria: da anni l’esercito turco porta avanti anche una campagna di bombardamenti contro presunte basi del PKK nella regione del Kurdistan iracheno. L’Iraq ha protestato pubblicamente in diverse occasioni contro i continui raid aerei turchi, nel corso dei quali forse sono state usate anche armi chimiche, una chiara violazione delle più basilari norme del diritto internazionale. Evidentemente, la violazione della sovranità territoriale di altri stati non rappresenta un ostacolo per Ankara nel perseguire i suoi interessi nazionali.

Mediterraneo e Libia

Anche nel Mediterraneo la Turchia ha portato avanti una politica incentrata sul
perseguimento dei propri interessi nazionali, principalmente per ragioni di natura economica. I rapporti con la vicina Grecia sono storicamente tesi e anche l’intervento militare turco in Libia può essere parzialmente letto sotto questa chiave. Ankara, dopo una delibera parlamentare del gennaio 2020, ha ufficializzato il supporto militare al Governo di Accordo Nazionale (GNA) che si contendeva il controllo della Libia con le truppe del generale Khalifa Haftar (CNT). Guarda caso, poche settimane prima del “via libera” parlamentare, il presidente Erdogan aveva concordato con il GNA un memorandum che avrebbe garantito alla Turchia il controllo di un corridoio marittimo di 16 miglia nautiche come Zona Economica Esclusiva (EEZ), che andava dal nord-est della Libia fino alle coste turche e che ignorava completamente i diritti economici della Grecia. Nel Mediterraneo infatti è in corso una “guerra economica” in cui la Turchia si trova a fronteggiare non solo la Grecia, ma anche CiproIsraele ed Egitto. Il motivo principale delle tensioni nel mare nostrum è relativo al controllo e allo sfruttamento delle EEZ, non solo per la pesca, ma piuttosto per la possibilità di scoprire giacimenti di gas naturale, diventato una risorsa ancor più strategica alla luce della crisi energetica odierna. Basti pensare che nel 2019 Erdogan decise di inviare un nave da esplorazione accompagnata da caccia bombardieri in un tratto di mare vicino ad alcune isole greche, mossa che spinse la Francia ad inviare una portaerei in supporto di Atene. Anche in questo contesto, pace e sviluppo sostenibile sono stati soppiantati dalla mera ricerca esclusiva dell’interesse nazionale, tanto che la Turchia è stata in diverse occasioni sanzionata anche dall’Unione Europea per aver fatto trivellazioni illegali nel Mediterraneo occidentale.

NATO e Unione Europea

Il perseguimento dell’interesse nazionale è stato un fattore chiave per la Turchia anche nella gestione dei rapporti con la NATO e l’Unione Europea (UE). La Turchia fa parte dell’Alleanza Atlantica fin dagli anni ’50 ed è il secondo esercito di tutta l’alleanza, potendo mettere a disposizione oltre 440 mila uomini, più del doppio della Francia – al terzo posto in termini di effettivi. Eppure i rapporti tra Ankara e la NATO hanno subito diverse battute d’arresto negli ultimi mesi, principalmente riguardo all’entrata nell’alleanza di Svezia e Finlandia. Il presidente Erdogan ha infatti minacciato in diverse occasioni che avrebbe posto il veto all’ingresso dei due Paesi scandinavi, date le loro posizioni troppo tolleranti verso i curdi. La Svezia sarebbe inoltre colpevole, secondo Ankara, di dare rifugio ai “terroristi” del PKK: in realtà da anni il Paese, per questioni umanitarie, offre rifugio politico ai curdi, tanto che nell’ultimo parlamento svedese sedevano sei deputati di origini curde. Lo scorso agosto, quanto il presidente americano Biden ratificava i documenti per l’ingresso dei due paesi nella NATO, mancava ancora la firma di Turchia e di altri 6 Paesi. I dissidi tra Turchia e NATO hanno in realtà radici più lontane: nel 2020 Ankara acquistò il sistema missilistico russo S-400, decisione che mandò su tutte le furie gli americani, che non esitarono ad imporre sanzioni all’industria bellica turca, oltre ad escludere Ankara dal programma dei caccia F-35, al cui sviluppo la Turchia aveva partecipato. L’acquisto di armi dai russi arrivò in seguito ad una diatriba tra Stati Uniti e Turchia relativa al prezzo di acquisto del sistema missilistico americano Patriot. Infatti la NATO, bisogna ricordarlo, non è solo un’organizzazione militare a scopi difensivi, ma anche un mezzo con cui Washington può spingere la propria industria bellica, imponendo ai Paesi membri la tipologia e la quantità di armamenti da acquistare. Anche i rapporti con l’Unione Europea degli ultimi anni non sono stati idilliaci: da tempo i colloqui per l’ingresso della Turchia nella UE si sono arenati. Tensioni tra UE e Turchia ci sono state anche durante la crisi dei migranti del 2015. E recentemente il nostro (ancora per poco) capo del governo Draghi non aveva esitato a definire Erdogan un dittatore di cui si aveva bisogno, dopo che quest’ultimo aveva “umiliato”, durante un colloquio, la presidente della Commissione Europea Ursula Von der Layen. Il punto è che sia UE che NATO, per questioni economiche e strategiche, hanno bisogno della Turchia, anche se appare evidente come questa sotto il governo di Erdogan si stia trasformando in un governo autoritario, lontano da quelli che sono (o dovrebbero essere) i tanto acclamati valori cardine dell’Occidente.

Fonte: Indipendente.online

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