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Globalizzazione: solo “tra amici” e nasce una nuova era

Possiamo dipendere dalle nazioni ostili ai valori dell’Occidente? Per ragioni di sicurezza è il momento di ri-localizzare molte produzioni nei Paesi alleati

Globalizzazione: solo “tra amici” e nasce una nuova era

ll mondo del futuro vedrà una globalizzazione «riservata agli amici», cioè ai Paesi che condividono i nostri stessi valori? Le sanzioni economiche a

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ll mondo del futuro vedrà una globalizzazione «riservata agli amici», cioè ai Paesi che condividono i nostri stessi valori? Le sanzioni economiche alla Russia potrebbero essere un passo decisivo in quella direzione, suggerisce la segretaria al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen. All’ultimo vertice G20, dove gli alleati occidentali hanno disertato l’intervento russo, la Yellen ha lanciato il neologismo «friend-shoring».

È calcato sul verbo «off-shoring» con cui si indicano le delocalizzazioni in Paesi d’oltremare. Secondo la Yellen e altri esponenti dell’Amministrazione Biden, per ragioni di sicurezza è il momento di ri-localizzare molte produzioni nei Paesi alleati. Tanto più che le sanzioni possono usarle gli altri contro di noi, come il taglio delle forniture di gas russo a Polonia e Bulgaria. E il problema non è solo la Russia. Abbiamo visto quanto è rischioso per la nostra salute dipendere dalla Cina per medicinali e apparecchi biomedici; ora Pechino limita anche le sue esportazioni di acciaio e di fertilizzanti per dare la priorità ai propri bisogni interni. Le nostre economie possono dipendere da una nazione ostile ai valori dell’Occidente? I nuovi confini geopolitici della globalizzazione potrebbero dunque restringersi alle liberaldemocrazie di cui ci fidiamo: Stati Uniti, Canada, Unione europea, Svizzera, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Australia e alcuni altri. Ma è possibile? È realistico? Quali ne sarebbero le conseguenze?

«Friend-shoring» non è un obiettivo nuovo. Ci riporta alle giornate di Seattle del dicembre 1999. In quella città della West Coast si celebrò un summit della World Trade Organization (Wto), l’organizzazione mondiale del commercio che doveva essere l’arbitro della globalizzazione. Due anni dopo sarebbe entrata a farne parte la Cina. Ma nel ’99 a Seattle ci furono contestazioni poderose, manifestazioni oceaniche videro confluire sindacati, operai e ambientalisti. Uno dei temi che univa quel fronte composito era la concorrenza al ribasso su diritti umani, diritti dei lavoratori, ambiente: le delocalizzazioni venivano denunciate come lo strumento per aggirare tutte le conquiste dei Paesi occidentali. Quelle resistenze furono travolte anche perché la sponda politica dei sindacati e degli ambientalisti, cioè la sinistra di governo, divenne globalista con i vari Bill Clinton, Tony Blair, Gerhard Schröder, e lo rimase fino a Barack Obama. Il protezionismo divenne una bandiera dei sovranisti, e con scarso successo almeno fino al 2016 (Brexit-Trump). Ora il partito democratico Usa fa dietrofront. Le parole della Yellen riscoprono lo spirito dei contestatori di Seattle.

Nel frattempo però decenni di delocalizzazioni ci hanno reso così dipendenti dai Paesi autoritari, che la nostra emancipazione è problematica. Dopo due anni di pandemia, e nonostante tutti i proclami sulla necessità di liberarci dalla dipendenza cinese, in America se entro in una farmacia a comprare una mascherina trovo sempre prodotti made in China. I dazi imposti da Donald Trump sulle importazioni cinesi vengono aggirati per 67 miliardi di dollari di importazioni annue usando un cavillo giuridico che esenta la «modica quantità»: basta sparpagliare gli acquisti del made in China su una miriade di consumatori con ordini individuali su Amazon e altri siti. In quanto alle materie prime, l’America ne è ricca ma Europa e Giappone no. Per liberarsi dal gas russo Mario Draghi deve cercarlo in Algeria, Libia, Egitto, regimi liberticidi. Per accelerare la transizione verso un’economia con zero emissioni carboniche, stiamo spingendo sul solare e l’auto elettrica: due settori dove la Cina ha un semi-monopolio di apparecchi, componenti, metalli.

«Friend-shoring» significa rivedere gli equilibri economici su cui si regge il sistema occidentale. Trent’anni di globalizzazione hanno abituato molte imprese multinazionali ad avere un costo del lavoro basso e profitti conseguenti. Riportare produzioni in Occidente significa accettare costi del lavoro superiori, più i costi delle tante regole, ambientali e non solo. L’America, per aver semi-chiuso le frontiere all’immigrazione, ha visto salire i salari operai come non accadeva dagli anni Ottanta: era ora, però adesso le imprese protestano, alzano i prezzi, l’inflazione galoppa. Come negli anni Settanta — quando ancora l’Occidente produceva in casa buona parte dei beni industriali — rischia di ripartire una spirale prezzi-salari-profitti, alimentata da un’implicita lotta fra capitale e lavoro sulla ripartizione del reddito nazionale.

La Cina ci aveva offerto un mondo lowcost a cui dovremo dire addio se vogliamo proteggerci. Non bisogna trascurare i benefici: così come le delocalizzazioni hanno sventrato la classe operaia occidentale, le rilocalizzazioni possono far rinascere milioni di posti di lavoro. Non sarà un processo spontaneo, però. Per creare il clima favorevole agli investimenti «fra amici» ci vorranno grandi riforme. Quali? Visto da sinistra: lo Stato dovrà pianificare questo smantellamento-ridimensionamento della globalizzazione, il che significa che per certi aspetti dovremo assomigliare un po’ di più a quei sistemi dirigisti che governano i nostri avversari. Visto da destra: lo Stato deve ritirarsi, smantellare la burocrazia e alleggerire le tasse, affinché l’Occidente torni ad essere una terra accogliente per le tante imprese che fuggirono a investire in terre lontane. Il «friend-shoring» se perseguito seriamente è una rivoluzione, o una contro-rivoluzione, con l’inevitabile corredo di vincitori e perdenti.

Fonte: Corriere.it

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