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Come mettere in comunicazione pubblico e privato?

Esistono punti di contatto armoniosi che portino una cooperazione più profonda tra imprese e istituzioni? Una domanda complessa, alla quale hanno provato a rispondere Simone Bemporad e Renata Codello nel loro libro pubblicato da Marsilio

Come mettere in comunicazione pubblico e privato?

Un’impresa deve senza dubbio fare profitti, a meno che non sia esplicitamente senza scopo di lucro: la questione è se il profitto sia davvero il suo u

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Un’impresa deve senza dubbio fare profitti, a meno che non sia esplicitamente senza scopo di lucro: la questione è se il profitto sia davvero il suo unico scopo (profit as purpose), se invece lo scopo sia diverso dal profitto ed entrambi rappresentino gli obiettivi che si pone (purpose and profit), o infine se il profitto si possa raggiungere attraverso il perseguimento di uno scopo (profit through purpose purpose as profit). Tenendo bene a mente una domanda: in che cosa consiste l’intuizione che dà vita a un business di successo, la scintilla da cui tutto ha origine? Il profitto, come un termometro al contrario, misura la salute di un’azienda. Se il suo valore è molto basso indica uno stato di malessere. Tuttavia nel Dna di un’impresa non c’è semplicemente il profitto, ma anche il desiderio di soddisfare un bisogno, o di rispondere a una richiesta – si propone, insomma, uno scopo, un purpose, che ovviamente non deve confliggere con ragioni sociali, ambientali ed etiche. Perché possa essere realizzato serve un’azienda sana, che faccia profitti, e così facendo si assuma le proprie responsabilità nei confronti della società. […]

La responsabilità sociale d’impresa è importante perché definisce un orizzonte etico per le decisioni e le azioni degli amministratori, ma è vero anche che spesso è intesa come attività sussidiaria, esterna al core business e quindi non sufficiente a creare quell’interdipendenza necessaria a stabilire un nesso fra scopo e profitto. C’è sempre il rischio che i buoni propositi restino lettera morta o non siano radicati nelle priorità di una società. La sostituzione di principi come la responsabilità sociale d’impresa o di indicatori Esg con il più complesso e ampio concetto di sostenibilità può determinare una svolta nell’approccio a questi temi.

Da parecchi anni la sostenibilità è entrata a far parte della configurazione delle aziende, in forma sempre più strutturata e legata al core business. È interessante notare che, se fino a pochi anni fa la questione era considerata inerente alla comunicazione di un’azienda, parte dell’immagine che quest’ultima intende trasmettere di sé attraverso le relazioni sulle politiche adottate, da un po’ di tempo ha assunto un ruolo centrale nelle strategie aziendali. La sostenibilità è diventata una componente a pieno titolo della compagine operativa, non solo per far conoscere all’esterno, e in particolare agli investitori, i dati relativi al proprio impegno rispetto ai cambiamenti climatici o ai temi dell’inclusività, ma per studiare e mettere a punto fattive strategie per raggiungere gli obiettivi prefissati. E questo accade non solo per le imprese nate all’insegna della sostenibilità, ma anche in aziende che nel farne propri i principi si sono profondamente ristrutturate.

Una sera di qualche anno fa a Davos, in Svizzera, ho partecipato a una cena durante il World Economic Forum, una fondazione senza fini di lucro che organizza annualmente un incontro tra i principali esponenti della politica e dell’economia a livello mondiale. La serata era dedicata ai responsabili e a coloro che, all’interno di una società, si occupano di sostenibilità. Seduto accanto a me c’era un manager di Acciona, un’impresa di costruzioni spagnola, fra le maggiori in Europa. Gli ho chiesto di cosa si occupasse e lui mi ha risposto di essere responsabile delle Operations, del Business Development, dei Rapporti istituzionali e di altre attività collegate. Un’area ampia, ho commentato io, chiedendogli quante persone contava la sua struttura. «Settecento» mi ha risposto. Ne sono rimasto stupito: un ruolo di primissimo piano, insomma. Allora scherzando gli ho chiesto: «E cosa ci fai a una cena per chi si occupa di sostenibilità?». «Il mio job title è Global Head of Sustainability» mi ha spiegato. Illuminante. Questa risposta racchiude il significato che la parola «sostenibilità» deve avere all’interno di un’azienda: non un’attività laterale, complementare, da conseguire in parallelo, o ex post, ma embedded in tutte le attività e parte integrante del processo che genera profitto. Acciona è al terzo posto nella classifica EcoAct delle compagnie più sostenibili al mondo fra quelle quotate nei maggiori mercati azionari, ed è fra le prime cento nella graduatoria di Corporate Knights, la società canadese che dal 2002 elabora informazioni e dati sulla sostenibilità delle imprese.

Renata Codello, Umanesimo digitale
Per quanto paradossale possa sembrare, la rivoluzione digitale è la condizione che attualmente più facilita il ricongiungimento della cultura tecnica con quella umanistica e la contaminazione fra aree disciplinari e campi di indagine diversi. Il digitale e internet sono ottimi strumenti per la diffusione della conoscenza, la democratizzazione del sapere, il miglioramento delle condizioni educative. Non per niente internet è stato indicato come uno dei diritti fondamentali dell’uomo dall’Internet Governance Forum e dalle Nazioni Unite nel 2010. La proposta è stata poi rilanciata in un convegno, tenutosi nell’ottobre 2017, dalla Pontificia accademia delle scienze e dalla Fondazione per la collaborazione tra i popoli, creata da Romano Prodi. Al termine della giornata di studi, internet è stato dichiarato «lo strumento principale per rendere possibile l’inclusione, l’efficienza e per promuovere l’innovazione in diversi settori economici come la salute, l’agricoltura, l’ambiente, il lavoro, la parità di genere e la reciproca comprensione» (Pontifical Academy of Sciences 2017). Il Parlamento europeo è tornato sul tema nell’ottobre 2020, in un incontro voluto dall’allora presidente David Sassoli, cui hanno partecipato Tim Berners-Lee, l’inventore, con Robert Cailliau, del World Wide Web, Simona Levi, Romano Prodi e Ursula von der Leyen. Sassoli ha spiegato che la digitalizzazione nel tempo della pandemia ci rende consapevoli che abbiamo bisogno non solo di metterla a disposizione di tutti, ma di fare in modo che questa esperienza possa mettere tanti cittadini nella condizione di essere partecipi del mondo che è intorno a loro, di essere partecipi e attivi […]. Abbiamo bisogno che una riflessione sugli strumenti del web entri anche a far parte di quel bagaglio che tradizionalmente noi consideriamo diritti fondamentali delle persone (L’accesso a internet 2020).

Il digitale interagisce con il sapere e la cultura anche in modo strutturale e organizzativo. Il mondo industriale, ben rappresentato dall’immagine della catena di montaggio con la sua sequenza di fasi distinte per la produzione e l’assemblaggio, è fondato sulla divisione del lavoro, la compartimentazione delle discipline, l’organizzazione del tempo e dello spazio. Al contrario, l’era digitale appare come una rete che si posa sulle cose e le connette fra loro, in un flusso costante di informazioni che si muovono in tutte le direzioni: nodi anziché scatole chiuse, dati anziché oggetti, sapere collettivo e non più privato. In questo non solo le diverse forme di conoscenza si intrecciano, sono rese disponibili e accessibili, ma per gli studi umanistici si aprono nuove potenzialità. Le digital humanities – che esistono da una trentina d’anni, ma che solo nell’ultimo decennio si sono affermate e diffuse, rivoluzionando archivi e centri di ricerca, biblioteche e storiche istituzioni culturali – creano delle possibilità prima inimmaginabili per gli studi classici, per la storia dell’arte, la filosofia e la letteratura. Permettono infatti di disporre in rete, per esempio, non solo dei documenti, ma delle loro trascrizioni, nonché di contenuti ulteriori che facilitano e consentono di approfondire le ricerche, ampliando le conoscenze e il pensiero critico. Si pensi allo studio sui linguaggi che, condotto a partire dall’analisi della struttura di un testo, permette di mappare e confrontare forme linguistiche diverse, o all’archeologia, agevolata grazie ai database che raccolgono e comparano dati, immagini e reperti. La realizzazione di questi sistemi coinvolge esperti di settori molto diversi che, dialogando per mettere a punto stringhe, algoritmi, interfacce, condividono competenze e punti di vista. Non si tratta, tuttavia, solo di ampliare l’accesso alle fonti per gli umanisti: la grande importanza sta proprio nella possibilità di mettere in comunicazione settori diversi, attraverso l’uso di motori di ricerca che non trattano i dati con i criteri tradizionali, ma in modo randomico, creando entanglement non vincolati ai confini disciplinari.

Vittorio Cini, con il suo progetto volto a sostenere e incentivare gli studi umanistici, Adriano Olivetti, con la sua fabbrica costruita intorno alla persona e alla comunità, sono esempi della volontà di coniugare industria e umanità nella fase apicale dello sviluppo industriale italiano. Un’aspirazione cui non erano estranei altri imprenditori che attribuivano alle proprie aziende il compito di sostenere la cultura, attraverso pubblicazioni o produzioni cinematografiche. È il caso dell’Eni, con «Il Gatto Selvatico», la rivista diretta dal poeta Attilio Bertolucci, su cui scrivevano Goffredo Parise, Giuseppe Berto, Giovanni Comisso, Mario Soldati, Natalia Ginzburg, Leonardo Sciascia, Alfonso Gatto, e con i numerosi film diretti da registi affermati, come Joris Ivens, o all’epoca promettenti, come Bernardo Bertolucci. Oppure è il caso della Pirelli e della sua «Rivista», nata allo scopo di saldare la cultura tecnico-scientifica con quella umanistica; a tal fine si affidava alle parole di autori del calibro di Dino Buzzati, Eugenio Montale, Umberto Saba, Carlo Emilio Gadda. «Ogni contributo alla civiltà meccanizzata va inquadrato nei più alti valori culturali e sociali della vita» scriveva Alberto Pirelli nel presentare la rivista. Umanesimo industriale è proprio il titolo scelto dalla Fondazione Pirelli per l’antologia pubblicata nel 2019 (Fondazione Pirelli 2019).

Un umanesimo digitale è forse ancora più necessario – di fronte a supercomputer, Big Data, Data Analytics, Machine Learning da un lato e la trasformazione delle nostre azioni e del nostro patrimonio cognitivo in dati da estrarre dall’altro – per restituire all’uomo il ruolo di «misura di tutte le cose» e riconoscere così che la cultura è strumento del vivere civile, quell’operosità piena di pensiero che animava gli umanisti del Quattrocento.

Fonte: l’ Inkiesta.it

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