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L’era dei robot e la fine del mondo?

Un bene o un male per l'umanità?

L’era dei robot e la fine del mondo?

Secondo gli esperti, sbalorditi, alcune mosse hanno esibito un comportamento non solo “creativo”, ma in un caso, secondo Wir

Metà dei lavoratori italiani utilizza già l’ intelligenza artificiale per scrivere email e post sui social
Interfaccia neurale: una persona completamente paralizzata è tornata a camminare
Com’è stata la prima conferenza stampa di un gruppo di robot?

Secondo gli esperti, sbalorditi, alcune mosse hanno esibito un comportamento non solo “creativo”, ma in un caso, secondo Wired, addirittura geniale in un modo del tutto incomprensibile a giocatori in carne e ossa. Peggio: il campione battuto dalla versione precedente di quella intelligenza sintetica ora scala le classifiche proprio grazie a ciò che sta imparando dalla macchina. E questo, dicono a Google, è solo l’inizio. Quando si parla di automazione, robot e lavoro, dunque, la questione ci riguarda tutti – senza distinzione tra operai, impiegati, intellettuali o manager d’azienda. Nessuno è più immune dal rischio di vedersi sostituito da una macchina.

Dice un sondaggio appena pubblicato dal Pew Research Center che gli interpellati statunitensi ne sono consci: due terzi immaginano che, entro i prossimi 50 anni, gran parte delle occupazioni attualmente svolte da esseri umani finiranno per essere assegnate a computer e intelligenze artificiali. Il rischio è tuttavia che pecchino di ottimismo quando aggiungono di ritenere – e in massa, l’80% – che «il loro lavoro rimarrà in buona parte immutato e continuerà a esistere nella forma attuale» tra mezzo secolo.

Sempre più analisi, infatti, sottolineano che lo scenario potrebbe essere presto ben diverso. Secondo i ricercatori di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, il 47% dei lavori negli Stati Uniti è già a rischio computerizzazione – e un ulteriore 13% vi si potrebbe aggiungere, nota McKinsey, quando le macchine diverranno capaci di “comprendere” e processare davvero il linguaggio naturale. Per l’Europa, poi, le percentuali ottenute rielaborando quei dati sono perfino più elevate.

Da qui le profezie di sventura. Per il docente della Rice University, Moshe Vardi, per esempio, entro i prossimi 30 anni i robot potrebbero portare a tassi di disoccupazione superiori al 50%. «Se le macchine sanno fare tutto», chiede Vardi, «che resta agli umani?»

Qualche istituzione se l’è chiesto. La Commissione britannica per ‘Impiego e Competenze’, per dirne una, ne ha ricavato un rapporto intitolato ‘The Future of Work: Jobs and Skills in 2030’. Uno studio che, fin dall’inizio, sottolinea come sul tema si sia passati dalla promessa di orari di lavoro ridotti e di più tempo libero, alla realtà in cui lavoro e tempo libero finiscono per confondersi, troppo spesso senza che sia più possibile distinguerli. Altri soggetti istituzionali, invece, devono ancora cominciare a problematizzare la questione. E sarebbe ora lo facessero, governo e sindacati in testa. A partire dall’Italia, dove manca qualunque elaborazione. E, di conseguenza, è inutile chiedersi se siano stati previsti e valutati i diversi scenari possibili; figurarsi le relative proposte di soluzione in termini di policy-making.

Alle origini del cyber-lavoro

E dire che il problema si pone in questi esatti termini, anche a livello mediatico e di massa, fin dagli anni ’60. «L’automazione è davvero qui, i posti di lavoro diminuiscono», scriveva – echeggiando le cronache odierne – la prima pagina di Life del 13 luglio 1963. Attenti, ammoniva il settimanale: “siamo al punto di non ritorno per tutti”.

L’attualità della provocazione sconcerta. Significa che, mezzo secolo più tardi, il problema rimane lo stesso: non abbiamo imparato a capire se, passato il bivio, si è imboccata davvero la strada che conduce a un mondo di lavoratori umani sostituiti in massa dalle macchine, se la stiamo per prendere, o se piuttosto sono solamente le preoccupazioni infondate di nuovi “luddisti” intenti a spaccare gli algoritmi e le intelligenze artificiali della “quarta rivoluzione industriale” – invece dei telai meccanici delle precedenti.

Non stupisce dunque che, mentre si moltiplicano studi accademici, ricerche, volumi divulgativi e scientifici, resoconti giornalistici, interventi di analisti e leader di vecchi e nuovi colossi economici sul tema, sia un’analisi del 1964 a delimitare i contorni della domanda che ci poniamo oggi, su quale sia il reale impatto dell’automazione sul lavoro. È quella che un apposito gruppo di studio, l’Ad Hoc Committee, pubblicò nel rapporto intitolato ‘The Triple Revolution’. Pagine attuali, troppo attuali.

Oggi come allora, infatti, si può dire di essere in presenza di una “rivoluzione” – chiamata all’epoca della “cybernazione” – la cui esistenza è dovuta interamente alla “combinazione dei computer con macchine che si autoregolano automaticamente”. Il risultato? “Un sistema dalla capacità produttiva pressoché illimitata”, che richiede tuttavia “sempre meno lavoro umano”. A meno che non ci sia “una reale comprensione” del fenomeno, concludevano gli autori di quel visionario rapporto, “potremmo stare consentendo l’emergenza di una comunità efficiente e disumanizzata senza alternative”.

Il padre della cibernetica, Norbert Wiener, ne aveva già scritto in forma di profezia nel 1949, sul New York Times. Come ricorda Martin Ford in ‘Rise of the Robots’, secondo Wiener il dominio delle macchine avrebbe potuto condurre a una «rivoluzione industriale di assoluta crudeltà», capace di ridurre il valore del lavoro al punto di rendere impossibile trovare un prezzo a cui fosse conveniente, per il datore di lavoro, assumere un essere umano in carne e ossa. Dalla piena occupazione, si potrebbe dire, siamo passati alla prospettiva di una “piena automazione”. Con un mercato per la robotica destinato a passare dai circa 27 miliardi di dollari attuali ai 67 previsti tra un decennio, potrebbe presto diventare ben più di una provocazione.

Se anche il lavoro finisse, non sarebbe utopia

Davvero un mondo – come quello immaginato già da Oscar Wilde – in cui all’uomo non resta che tempo libero è un’utopia? Per Vardi è piuttosto il suo contrario, una distopia. La lezione dell’opera di Carel Kapek che diede i natali, a inizio Novecento, alla parola “robot” non fa che confermarlo. Ciò che si presenta con le fattezze di un paradiso edonistico, nel suo seminale ‘R.U.R.’ (1920) si rivela infatti presto essere un inferno disumano. La promessa è di uno dei protagonisti, Domin: i robot “produrranno talmente tanto grano, stoffe e molto altro, da poter dire che le cose non avranno più alcun valore”.
È l’antenato dell’odierna “era dell’abbondanza”, in cui “ognuno potrà prendere ciò di cui ha bisogno. Non ci sarà più miseria”. Insomma, il problema di Life è risolto alla radice. Perché sì, gli uomini “resteranno senza lavoro. Ma poi non ci sarà più bisogno di lavorare per nessuno. Tutto verrà fatto dalle macchine vive. L’uomo farà solo ciò che più gli piace. Vivrà solo per perfezionarsi”.

Il sogno è però in realtà un incubo. A spiegarlo, nell’opera, è l’architetto Alquist, dopo avere appreso che in un tale mondo le donne finiscono per non mettere più figli al mondo:

Perché non è più necessario il dolore, perché l’uomo non deve fare più nulla, tranne godere… Oh, che paradiso maledetto è questo! (…) non c’è niente di più terribile che dare alla gente il paradiso in terra.

Se anche gli ottimisti avessero ragione, insomma, e si lavorasse sempre meno (come vorrebbe Larry Page di Google) fino a non lavorare più, avremmo dei grossi problemi con il senso delle nostre esistenze. E sì, anche senza coinvolgere l’idea di un “governo dei robot”, come nella finzione di Capek o nei foschi presagi di Stephen Hawking («lo sviluppo di una completa intelligenza artificiale potrebbe segnare la fine della razza umana»).

La tecnologia crea o distrugge lavoro?

Qui i pericoli sollevati dagli scettici sono ben più concreti. Il rischio è di trovarci molto presto ad abitare un mondo in cui i “robot” causeranno tassi di disoccupazione insostenibili e senza precedenti nella storia umana, distruggendo i lavori ripetitivi e manuali così come le professioni intellettuali, e lasciando l’umanità schiava della tecnologia e dei suoi creatori. Come insegna la storia delle forme di repressione, non sempre è necessaria la violenza – in questo caso, di un Terminator – per governare il mondo. Bastano l’astuzia di un HAL 9000 o, più banalmente, di qualche buona rete neurale: ovvero, proprio del tipo di intelligenza artificiale che sconfigge i campioni di Go, riconosce oggetti e azioni nelle nostre foto e video “taggandoli” da sé, e un domani vicino o lontano guiderà le vetture di Uber.

Non tutti però concordano con gli allarmi. Una seconda via, al contrario, continua a indicare come destinazione un paradiso in cui le macchine e l’uomo collaborano e si integrano, aumentando le opportunità lavorative, moltiplicando efficienza e profitti, e garantendo un futuro in cui ozio, creatività e tenore di vita si coniugano al meglio. «Gli ultimi 200 anni», scrive per esempio l’analista di Deloitte, Ian Stewart, in ‘Technology and People: the Great Job-Creating Machine’, «dimostrano che quando una macchina rimpiazza un umano il risultato, paradossalmente, sono una crescita più rapida e, col tempo, occupazione in aumento».

Ma gli argomenti per sperare che il problema si risolva magicamente da sé, con una robotica mano invisibile, si assottigliano col passare del tempo. E se si considera poi che nemmeno delle soluzioni c’è traccia, si capisce perché sembri proprio di stare vivendo la «congiuntura storica che richiede un ripensamento radicale dei nostri valori e delle nostre istituzioni» di cui scriveva l’Ad Hoc Committee.

E allora come è possibile quella “reale comprensione” manchi non solo nell’opinione pubblica, ma anche e soprattutto nei progetti della politica e delle forze sindacali – soggetti che non sembrano adeguatamente preparati a una sfida sistemica e dai contorni potenzialmente devastanti per milioni e milioni di cittadini come quella che ci troviamo invece ad affrontare?

E dire che le domande che la compongono sono fondamentali. Quanto è reale lo spettro della “disoccupazione tecnologica” coniata negli anni ’30 da John Maynard Keynes, e quali conseguenze avrà sulle vite di ogni singolo individuo, e per la società tutta? Quali forme di impiego sopravviveranno, quali ne sbocceranno e quali invece diverranno un retaggio del passato? E come cambia il significato della stessa parola “lavoro” quando si possono automatizzare perfino mansioni e compiti un tempo considerati dominio unico dell’umano?

Quello che gli esperti non dicono

Rispondere è difficile, perché il progresso tecnologico avanza anche se non ne anticipiamo gli effetti. E perfino gli esperti sono divisi, esattamente in due. Si pensi al sondaggio che il Pew ha pubblicato ad agosto 2014, dopo averne interpellati quasi duemila: impossibile ricavarne un’indicazione che chiarisca il tragitto e, soprattutto, la meta. “Metà (48%)”, si legge tra i risultati, immagina per il 2025 “un futuro in cui robot e agenti digitali avranno rimpiazzato un numero significativo sia di colletti blu che di colletti bianchi”, con “un forte aumento nelle disuguaglianze di reddito, masse di persone di fatto non impiegabili, e rotture nell’ordine sociale”. L’altra metà (52%), invece, vede l’esatto opposto: “la tecnologia non distruggerà più posti di lavoro di quanti ne crea”.
Al netto delle percentuali, sono le argomentazioni degli esperti riportate dal Pew a destare perplessità. Perché i punti di contatto e consenso sono pochi, deboli e generici: sì, entro il prossimo decennio il concetto stesso di “lavoro” subirà una mutazione genetica, fino a significare qualcosa d’altro rispetto a oggi.

«Non avevamo mai visto niente di simile prima», ammette candidamente Eric Brynjolfsson del MIT

E sì, il sistema educativo non sta facendo abbastanza per preparare la forza lavoro a uno shock che non è più del futuro (come in Toffler) né del semplice presente (come in Rushkoff), ma di un presente sempre automatizzato e condiviso. Ma è dell’impatto sull’occupazione che vogliamo sapere, del peso specifico concreto della robotizzazione delle fabbriche come delle mansioni cognitive, della trasformazione di trasporti e alloggi nei beni precari dei “volontari” della sharing economy, in valore da scambiare nel mercato del nuovo “capitalismo delle piattaforme”.

E su questo i pareri divergono al punto di diventare una (pur utile) guida all’argomentare pro e contro ogni scenario immaginabile, più che un modo per informare i policy-maker e il pubblico su che cosa sta realmente accadendo.

Nulla è come prima

Uno degli argomenti degli ottimisti è che non stiamo vivendo un’epoca senza precedenti, un “punto di non ritorno” mai raggiunto prima. Prendendo a esempio la storia delle rivoluzioni produttive, gli entusiasti dell’automazione sostengono che il problema si è già posto, e il capitalismo l’ha sempre risolto con la tecnologia nel ruolo di ciò che crea – piuttosto che distruggere – posti di lavoro. Gli analisti di Deloitte affermano per esempio di averlo dimostrato valutando l’evoluzione di 144 anni del mercato del lavoro in Inghilterra e Galles. E il risultato è che, lungi dall’essere in opposizione, tecnologia e lavoro sono potenti alleati – come dimostrato dagli aumenti occupazionali registrati nella medicina, nei servizi professionali e nell’area business. Anzi: negli ultimi 35 anni, scrivono, i settori maggiormente in crescita sono stati proprio quelli tecnologici.

Certo, “la storia dimostra che il processo è dinamico”. E sì, alcune occupazioni vanno in fumo. Ma il punto è che nuove tecnologie aprono nuovi mercati, e dunque nuove mansioni o anche solo nuovi compiti per quelle già esistenti – quando non nuovi interi settori dell’economia. Per questo il saldo sarebbe, dicono, positivo. Dall’altro, e in tutta risposta, è facile ribattere che quello induttivo potrebbe non essere un buon metodo per predire il comportamento umano in questo contesto: se una tecnologia ha creato posti di lavoro in passato, non è detto che la prossima debba fare altrettanto. C’è del determinismo senza giustificazione, nell’assumerlo; e nessuno degli ottimisti ne sembra immune.

Sempre più dati e considerazioni analitiche, del resto, mostrano la fallacia di quell’assunto. Secondo gli economisti del MIT, Eric Brynjolfsson e Andrew McAfee, siamo infatti al contrario in una ‘Seconda era delle macchine’ – come recita il titolo del loro più recente volume – caratterizzata proprio dal fatto che “ciò che è già stato” non è più una guida “particolarmente affidabile a ciò che sarà”. Se, come mi ha detto lo stesso Brynjolfsson in una intervista per l’Espresso “l’aumento aggregato di produttività e ricchezza è significativo”, a partire dagli anni ’80 quell’abbondanza non si traduce più in aumenti proporzionali nei tassi di occupazione e di salario.

Anzi, per i lavoratori statunitensi il reddito medio è addirittura sceso del 10% tra il 1999 e il 2011 – il tutto mentre quello dell’1% più ricco è raddoppiato. Più bounty, nel gergo dei due studiosi, non significa più spread; a dire: l’era dell’abbondanza non è l’era dell’uguaglianza. Questo disallineamento tra Pil e produttività in crescita, da un lato, e redditi e prospettive lavorative in calo, dall’altro, ha determinato negli ultimi decenni quello che gli autori chiamano ‘The Great Decoupling’, il “grande disaccoppiamento”.

«Non avevamo mai visto niente di simile prima», ammette candidamente Brynjolfsson all’Harvard Business Review. Il messaggio è chiaro: non basta mettere più macchine nell’economia per garantire che la tecnologia arrechi benefici all’intero corpo sociale. Il successo dell’automazione non è automatico, non per tutti.

Fonte: Valigiablu.it

 

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