Bisogna cominciare ad abituarsi. All’Italia senza Draghi. La conferenza stampa di ieri del premier è stata rivelatrice. Nella ruvidezza – forse poco i
Bisogna cominciare ad abituarsi. All’Italia senza Draghi. La conferenza stampa di ieri del premier è stata rivelatrice. Nella ruvidezza – forse poco istituzionale ma del tutto in linea col personaggio – sciorinata da SuperMario (“Escludo un mio ingresso in politica, se cerco un lavoro lo trovo da solo…”), molti hanno visto la voglia di togliersi sassi dalle scarpe, a cominciare dal macigno della mancata elezione al Quirinale. E’ verosimile. Però guai a pensare ad viscerale fallo di reazione. Infatti oltre che essere universalmente riconosciuto capace, il personaggio è anche conseguentemente ambizioso. Soprattutto poco incline ai minuetti del linguaggio di Palazzo, alle ipocrisie e alle giravolte lessicali nonché programmatiche di vari leader di partito.
Draghi fu chiamato ad allestire un governo d’emergenza senza riferimento “ad alcuna formula politica” come spiegò Mattarella perché i partiti, dopo giravolte di sapore trasformistico, avevano esaurito ogni prospettiva di governabilità. Oltre all’emergenza Covid, come punto di riferimento il premier pose il Recovery Plan. Attorno alla sua figura si realizzò quello che fino ad un attimo prima sembrava impossibile: una maggioranza di larghe intese a sostegno del percorso indicato dall’inquilino di palazzo Chigi.
Era evidente che il nuovo capo dello Stato sarebbe dovuto venir fuori da quella stessa maggioranza altrimenti l’esecutivo sarebbe crollato come un castello di carte sotto il soffio degli interessi di questa o quella parte. E così è stato. Ma ha prevalso un riflesso condizionato di ibernazione nell’incubo che toccare qualcosa avrebbe fatto precipitare la legislatura nel burrone delle elezioni anticipate. Così Mattarella, dopo aver spiegato che per ragioni costituzionali e personali non avrebbe accettato il bis, è rimato al suo posto. E SuperMario pure.
Tuttavia quel rinchiudersi delle forze politiche su sé stesse aveva anche un altro corollario, che tutti conoscevano e che è stato impugnato e fatto valere come rigetto del trapianto draghiano sul corpo vivo del sistema dei partiti. E cioè che se non fosse andato al Quirinale, Draghi sarebbe stato sfrattato anche dal governo: sarebbe stata solo una questione di tempi.
C’è chi afferma che non ci sono problemi perché il solco è già tracciato e chiunque diventerà presidente del Consiglio sostenuto da qualunque maggioranza non potrà che muoversi nel terreno già arato dall’attuale premier: la messa a terra del Pnrr. Tesi singolare e anche questa con venature di ipocrisia. Non era infatti proprio la permanenza di Draghi a palazzo Chigi l’unica garanzia che avrebbe indotto la Ue a continuare ad elargire le risorse stanziate? Non è stata questa la motivazione urlata ai quattro venti per giustificare il niet al trasloco sul Colle? Forse i tanti che hanno sbarrato la strada a Draghi successore di Mattarella coltivavano in cuor loro anche il desiderio di sfrattarlo: tra un anno avranno colto il frutto del successo.
Ma allora in questo anno che si fa? Il presidente del Consiglio l’ha spiegato bene anche e soprattutto ai partiti che fanno parte della sua maggioranza: si prosegue sul percorso già tracciato, senza guardare in faccia a nessuno. Sarà necessario trovare un equilibrio ovviamente molto complicato tra le spinte preelettorali delle forze politiche e gli impegni e il ruolino di marcia che il capo del governo intende rispettare. Nel frattempo i partiti, tutti, dovranno studiare una exit strategy per l’Italia senza Draghi. Sperando di non doversi pentire di aver sprecato una carta fondamentale per recuperare terreno e prestigio nei confronti degli italiani, che si fidano di SuperMario con indici assai alti. E di Bruxelles, che ha in mano il rubinetto da dove sgorgano 200, irrinunciabili, miliardi di euro.
Fonte: Formiche.net