Nata nel 1963, l’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) sancisce l’unione di 31 Paesi di recente indipendenza in nome di una storia e di un passato
Nata nel 1963, l’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) sancisce l’unione di 31 Paesi di recente indipendenza in nome di una storia e di un passato condivisi che potesse ergersi come voce unitaria contro il colonialismo e che si incaricasse di portare il Continente verso lo sviluppo socio-economico. Sviluppatosi nel pieno della decolonizzazione, il consesso dei leader africani fu concepito principalmente per salvaguardare l’indipendenza appena conquistata e proteggere l’integrità e la sovranità nazionale. In tal senso l’atto costitutivo dell’OUA rimarca, nei suoi articoli, il principio di non-ingerenza e di inviolabilità territoriale, di fatto impedendo all’Organizzazione di poter agire a livello regionale nella risoluzione di conflitti nel Continente.
Negli anni ’90, dal Trattato di Abuja (1991) che istituisce la Comunità Economica Africana ponendo le basi per un’integrazione economica continentale allo smantellamento dell’apartheid in Sudafrica nel 1994, il progetto di unità panafricana, iniziato timidamente nel 1963, riacquista una nuova vitalità che culmina nella creazione dell’Unione Africana (UA) nel 2002. La neo-nata istituzione si sviluppa a partire da una rivitalizzazione del Panafricanismo, puntando alla creazione di un’Africa sempre più stabile, integrata e sicura. In tal senso, sulla scia di un progetto di integrazione regionale sempre più forte, il nuovo atto costitutivo sancisce nell’art. 4(h) il diritto dell’Unione di intervento in uno Stato membro rispetto a gravi circostanze come crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità. Al principio di non-interferenza si sostituisce quello di non-indifferenza portando alla creazione del Consiglio di Pace e Sicurezza (2002), che nel 2003 autorizza la “Missione di peacekeeping dell’Unione Africana in Burundi” (AMIB), per la prima volta interamente a guida africana.
Le sfide al peacekeeping panafricano: i fondi.
Il principale ostacolo ad una totale indipendenza dell’Unione Africana nella gestione e risoluzione dei conflitti sul suo territorio è sicuramente la mancanza di risorse economiche. Difatti, il “Fondo per la Pace”, il principale strumento di finanziamento al peacekeeping africano, è in grado di finanziare solo il 25% delle operazioni di pace dell’UA, legando il restante 75% a partner esterni. L’inaffidabilità economica degli Stati membri, dei quali solo il 40% paga annualmente i suoi contributi all’UA, non solo paralizza qualsiasi tipo di iniziativa da parte dell’Organizzazione panafricana, ma ne limita fortemente l’agency nel Continente, rendendola di fatto dipendente dai due principali finanziatori, l’Unione Europea e l’ONU.
Specificatamente, con la recente istituzione nel 2021 dello European Peace Fund (EPF), il vincolo economico che lega l’Unione Europea all’Unione Africana potrebbe minarne fortemente la legittimità sul territorio. Nello specifico, l’EPF permetterebbe all’Unione Europea di bypassare completamente l’Organizzazione panafricana per finanziare direttamente gli Stati africani coinvolti nei conflitti, portando con sé diverse conseguenze rilevanti.
In primo luogo, a livello economico ridurrebbe al minimo i fondi europei destinati all’Unione Africana, limitandone il margine di azione e l’efficienza delle operazioni militari già attive, come l’AMISOM in Somalia. In secondo luogo, l’Unione Europea rafforzerebbe la sua presenza strategica nel Continente travalicando completamente l’autorità dell’Unione Africana, delegittimandone il ruolo e minando il processo di integrazione regionale portato avanti in Africa.
Le sfide al peacekeeping panafricano: l’integrazione regionale ed il ruolo delle RECs.
Il ruolo dell’Unione Africana come sola ed unica responsabile delle attività di peacekeeping in Africa è fortemente conteso con le Comunità Economiche Regionali (RECs), organizzazioni politico-economiche che dal 1991 raggruppano i Paesi del Continente africano in otto subregioni.
Nonostante il Protocollo che istituisce il Consiglio di Pace e Sicurezza indichi chiaramente la responsabilità primaria dell’Unione Africana nella gestione dei conflitti stabilendo di fatto un ordine gerarchico che pone l’Unione in cima alla catena di potere, il richiamo al principio di sussidiarietà, che assicura alle organizzazioni regionali un certo livello di autonomia, rende estremamente complicato stabilire con certezza l’esatta suddivisione del lavoro e delle competenze fra queste e l’autorità centrale, specialmente in termini di pace e sicurezza.
Tuttavia, l’applicazione di un criterio di sussidiarietà nella gestione di un conflitto riserva dei vantaggi considerevoli: l’intervento di un’organizzazione regionale implica una maggiore vicinanza alla realtà locale in questione, permettendo non solo una buona comprensione delle dinamiche del conflitto ma anche una maggior fiducia e legittimità agli occhi dell’autorità nazionale.
Ciononostante, l’efficacia che può risultare da un intervento di tipo regionale potrebbe essere messa in discussione dalla mancanza di risorse economiche che spesso caratterizza tali organizzazioni, composte da meno membri e con minor capacità di autofinanziamento. Inoltre, il concetto di sussidiarietà diventa presto un mezzo tramite il quale l’organizzazione regionale può travalicare l’autorità continentale per difendere i propri interessi strategici sul territorio di uno dei suoi Stati membri, minando ulteriormente la riuscita dell’operazione di pace.
In questo caso, favorito da un contesto legislativo estremamente nebuloso, il principio di sussidiarietà si trasforma in una competizione fra organizzazioni diverse, senza una marcata suddivisione delle competenze e ognuna con la propria legittimità per intervenire militarmente e politicamente.
Nello specifico, il caso del Mozambico ed il recente dispiegamento di una missione di peacekeeping (SAMIM, 2021) coordinata dalla Southern Africa Development Community (SADC) illustra precisamente il tipo di competizione di forze ed interessi sopramenzionato. Infatti, in risposta agli attacchi terroristici da parte di Al-Shabaab nella regione di Cabo Delgado, nel Luglio 2021 il Governo mozambicano approva il dispiegamento di circa duemila truppe di circa otto Paesi SADC.
La missione viene autorizzata dall’Organizzazione regionale senza l’approvazione del Consiglio di Pace e Sicurezza dell’UA, sfruttando quel principio di sussidiarietà sopramenzionato per assumere un ruolo centrale nel ripristino della pace nella regione. La prima discussione interna al PSC riguardo la SAMIM avviene circa sei mesi dopo il suo dispiegamento, quando la SADC si rivolge all’Unione Africana per ottenere le risorse economiche necessarie al prolungamento della missione. In questo caso si rende ancora più evidente la necessità impellente di un maggior coordinamento fra RECs e UA: un’armonizzazione delle politiche regionali e continentali permetterebbe una risposta più efficace ai conflitti. In primo luogo, sfrutterebbe la presenza sul territorio tipica di un’autorità locale e la fiducia reciproca fra questa e le autorità nazionali. In ultima analisi, agire attraverso l’Unione Africana rafforzerebbe il processo di integrazione regionale per affrontare le sfide alla sicurezza continentale in chiave totalmente panafricana.
“A peaceful and secure Africa”: nuove opportunità e piccoli successi.
Consolidare il ruolo dell’Unione Africana nella gestione delle crisi nel Continente, amplificandone il raggio di azione e il potere di iniziativa, permetterebbe di raggiungere quella che la quarta aspirazione dell’Agenda 2063 chiama “Un’Africa più stabile e sicura”.
In primo luogo, si rende evidente la necessità di affrancarsi dai finanziamenti di partner esterni per raggiungere una vera indipendenza economica e politica. A tal fine, nel 2018 viene rafforzato il meccanismo sanzionatorio previsto dalla Carta costituente dell’Unione per i mancati pagamenti: nello specifico, sanzioni precauzionali vengono applicate a Stati membri che non pagano almeno il 50% dei loro contributi annuali entro i primi sei mesi. Inoltre, nel 2017 l’Assemblea dell’Unione Africana introduce una tassa dello 0.2% da applicare al valore di specifiche merci importate da uno Stato membro provenienti da Paesi terzi. La suddetta tassa, attualmente introdotta da soli 17 Paesi su 54, si inserisce nel filone delle riforme economiche introdotte dall’Unione al fine di stabilizzare l’autofinanziamento dell’Istituzione, migliorandone l’efficacia anche in termini di pace e sicurezza.
In aggiunta, il lancio della piattaforma per lo scambio di informazioni interregionale (I-RECKE, 2022) rappresenta un passo decisivo sulla via di una maggior collaborazione con le Comunità Economiche Regionali, superando il principio di sussidiarietà a favore di una dinamica di mutuo supporto in cui la condivisione di informazioni si rivela essenziale per la prevenzione del conflitto.
Infine, iniziative come l’African Amnesty Month grazie al quale poter rendere liberamente armi leggere detenute illegalmente, rendono promettente l’impegno assunto dall’Unione Africana con il suo progetto “Silencing the Guns in Africa”, un tassello imprescindibile sul percorso verso la pace e la sicurezza a guida interamente africana.
Fonte: Geopolitica.info