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Turcofoni ma non turchi. I limiti del turchismo in Maghreb e oltre

Turcofoni ma non turchi. I limiti del turchismo in Maghreb e oltre

Ogni impero lascia una presenza di sé dopo il proprio dissolvimento. Nelle sue province molto spesso sono tracce materiali più che spirituali, mentre

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Ogni impero lascia una presenza di sé dopo il proprio dissolvimento. Nelle sue province molto spesso sono tracce materiali più che spirituali, mentre per l’ex ceppo dominante si tratta soprattutto di percezione di sé, di modo di immaginarsi e proiettarsi nel mondo ancora con l’idea di un diritto al dominio. Qualunque soggetto se ne proclami l’erede potrebbe scegliere di soffiare su quelle presenze per risvegliarne antiche radici.

L’impero ottomano si estese, per una fase della sua storia, anche al Maghreb. L’esistenza di minoranze turcofone in questa regione impone una riflessione, considerata la sempre maggiore postura imperiale turca nella scena geopolitica. La loro presenza è un fattore di potenza della Turchia? Eventualmente in che modo? Un’analisi di questo tipo coinvolge più livelli, cioè cosa voglia dire essere turco e quali siano il progetto e la traiettoria attuali della Turchia.

Va detto subito che tali minoranze, denominate Kouloughlis (circa due milioni sia in Algeria che in Tunisia), sono assimilate in questi Paesi e non si prestano ad essere leva geopolitica degli interessi turchi in Maghreb. Lo sono innanzitutto per motivi storici, di formazione dell’impero ottomano e dei suoi limiti strategici, ma anche per il loro comportamento tenuto nei secoli.

Gli ottomani non conquistano il Maghreb a seguito di un progetto ponderato e implementato. Il Maghreb gli “piove” addosso, sottoforma di adesione dei potentati locali e l’impero interviene più per aiutare qualche fazione ed emarginarne un’altra, piuttosto che per trasformare in vere provincie quei luoghi.

Dall’impero ottomano il Maghreb viene diviso nelle reggenze di Tripoli, Tunisi e Algeri, più, di fatto indipendente, un sultanato del Marocco. L’adesione è soprattutto funzionale al doversi difendersi dalla Spagna, ben più vicina e pericolosa.

Nel momento di maggior adesione di questa regione all’impero, le élites turche trasferiscono parte dei propri membri ai vertici di queste reggenze. Dall’unione di questi turchi con elementi locali nasceranno i kouloughlis, termine che, proprio a dimostrazione della poca fiducia ottomana circa la loro fedeltà sostanziale, vuol dire, dal punto di vista turco figlio di servi, mentre dal punto di vista delle elites locali è un nome di prestigio, tradotto con figlio di soldati (soprattutto di giannizzeri).

Prima di dimostrare la loro parziale non adesione al progetto ottomano i kouloughly hanno accesso a tutte le cariche. Soprattutto all’odjak, l’esercito, che in realtà vuol dire, in turco, casa e famiglia, e le stesse tre reggenze del Maghreb vengono identificate in turco come garp adjokari (odjack dell’ovest). Questo prova che sono inizialmente integrate nelle principali articolazioni del turchismo, che si proietta sempre tramite statualità e apparato militare. Tuttavia più si radicano ai vertici più si sentono lontani dall’impero, fino a che non scatenano una rivolta nel 1629. Tale rivolta viene soffocata e i kououghlis sono emarginati, soprattutto dall’esercito, e costretti a svolgere solo il ruolo di corsari.

Con il tempo riescono di fatto a raggiungere di nuovo alcuni posti chiave, ma subito riprendono a fare gli interessi della loro “casa e famiglia” locale, tanto da aiutare a reprimere il corpo turco dei giannizzeri, che si rivolta nel 1817. Al tempo stesso però si alleano con essi per fronteggiare l’invasione francese, dimostrando non tanto un anti-turchismo quanto un nazionalismo locale. Certamente elementi di distinzione di questa minoranza, a riprova della loro antica discendenza, rimangono. Ad esempio la coltivazione dell’islam sunnita della scuola hanafi, a differenza della scuola maliki, più strettamente nord africana, ma in generale sono una minoranza che si è dimostrata, prima ancora della nascita delle nazioni algerina o tunisina o marocchina, una progenitrice degli coscienze nazionali nordafricane e non certo l’avanguardia della proiezione turca nel Maghreb. Ciò è dipeso anche dalla stessa natura dell’impero ottomano, un impero terrestre, che sottovaluta enormemente, non tanto la forza in mare, ma la trasformazione della forza in dominio dei mari e il loro utilizzo come forma più compiuta di difesa. A tale scopo l’assimilazione della costa nordafricana, se veramente performato, sarebbe stato fondamentale.

Tornando all’oggi neppure la Turchia sta tentando di far leva su queste comunità. Il perché risiede nella stessa problematicità del concetto di essere turco. Solo i turchi possono essere turchi, e neppure i turchi in sé, perché turco si diventa. Non è dunque la classica etnia, intesa come terra e sangue (posseduto), ma marcia, migrazione e sangue (versato).

Il turco è tale perché si muove, perché migra fin dalle origine, dai monti Altay, e ovunque va, conquista e versa il sangue, così si fa guerriero, diventa sempre più forte. Non punta a far diventare turco l’altro, quanto ad armonizzare la sua differenza con la propria forza. Rafforzare le differenze (così fingendo di lasciare liberi) rafforza il turco, che si forgia nella lotta, in un circolo continuo di marcia, lotta e sottomissione, fino all’armonia finale, al mistero del dominio, che è la Kizilelma, la mela rossa. In questo senso l’essere turco, o meglio il diventare l’essere turco, è uno stato d’animo, un sentimento non emotivo, ma spirituale, che raccoglie il mito della marcia originaria e della conquista finale.

Sentimento, non confine; il diventare turco non si ferma all’Anatolia, che non è Turchia in senso stretto, ma è la Turchia attuale. Il mito infatti è nell’anima, i turchi lo portano intero in ogni conquista. I turchi dell’oggi abitano in Anatolia, ma non sono anatolici, sono turchi. Laddove sono i turchi è la Turchia, ma non sono turchi perché sono in Turchia. La Turchia è nell’anima.

Le minoranze post-ottomane non possono essere turche, perché come vedremo non si sentivano turchi, ma romani/ottomani quando sono giunti in Maghreb. Per questo non interessano alla Turchia.

La strategia turca attuale, di cifra kemalista e molto più consapevole strategicamente, rispetto all’impero ottomano (perché la Turchia di oggi è neo-ottomana di propaganda, ma kemalista di progettualità e traiettoria), consiste nell’insinuarsi laddove c’è già destrutturazione, per riportare fioritura, ovvero il benessere turco, ma è la fioritura ad essere turca, non l’elemento umano autoctono. Da Kemal in poi, che difende la Libia dall’invasione italiana, la Turchia libera o difende dagli occupanti, così insinuandosi nei sentimenti antioccidentali nordafricani. I locali possono diventare turchici, ma non turchi. Autonomi che si credono liberi.

L’errore di considerare neo-ottomano l’atteggiamento turco è stato in qualche modo promosso dallo stesso Erdogan, che ha più volte, a fini interni, parlato della sua parte come di quella neo-ottomana, ma non parlava di geopolitica, quanto per delegittimare i suoi avversari, intestando a se stesso l’eredità della più compiuta, finora, forma imperiale mai raggiunta da uno stato turco. Mirava a denigrare i suoi avversari, quasi fossero traditori, perché non parte di quella storia così gloriosa. Lo stesso Erdogan però immaginava di poter implementare la nuova traiettoria kemalista approfittando della carta più facile, ma meno geopolitica, a sua disposizione, la religione musulmana, appoggiando la Fratellanza musulmana nei paesi arabo-islamici, sperando di poter insegnare loro la laicità e tramite loro convincere, fra tutti, soprattutto l’Arabia saudita, che esistesse un islam politico, capace di farsi apparato e di diventare argine all’Iran, grande rivale di Riad.

Il piano di veicolare la potenza tramite la religione non è riuscito e ha spinto ancor di più il blocco del Golfo in senso anti-turco. Presentarsi poi come erede degli ottomani in un mondo arabo, che ha un pessimo ricordo di quel dominio, è stato un errore ulteriore. Per questo Erdogan ritorna alla vera cifra della proiezione di potenza turca, il culto dello Stato, perché dove arrivano i turchi arriva sempre una statualità, che si declina sottoforma di ricostruzione o influenza degli apparati, in primis nelle forze armate. Perché appunto il turco diventa turco lottando. Sono allora gli apparati, più ancora delle forze politiche, tra cui la fratellanza musulmana, a doversi fare turciche e accogliere i turchi.

L’attuale reazione del presidente della Tunisia, che ha estromesso i fratelli musulmani, finora appoggiati dalla Turchia, dalla vita parlamentare e governativa del Paese, non contraddice la nuova impostazione turca, perché la fratellanza tunisina era un’ultima rimanenza dell’errore suddetto e già pagato con Morsi in Egitto. La Turchia ora dimostra di non volerlo più fare. L’espansionismo turco è ricostruzione o influenza di apparati. Portare la statualità è il contraltare di un popolo che ha la migrazione nel dna, essa è l’unica stabilità, l’unico radicamento che riesce a concepire, mentre non concepisce il fermarsi in una terra determinata in quanto terra, ma in quella terra se diventa uno stato determinato. Perché lo stato appartiene al popolo più della terra. Lo stato è diretta emanazione e creazione del popolo, è l’antico cavallo dei cavalieri/arcieri, cavallo su cui si riposa e su cui si viaggia, ed è quello che i turchi possono portare appresso con sé e ricostruire ovunque vanno.

Rimane in piedi una contraddizione nella postura turca, che è sì consapevole che la Turchia è ovunque siano i turchi, ma per ora l’unica Turchia reale, che esiste, è in Anatolia, e il progetto geopolitico che va implementato è realistico se parte da lì. Per questo Erdogan e le generazioni di strateghi kemalisti cercano di far tesoro dell’errore dell’impero ottomano, che fu quello di immaginarsi romano e quindi di immaginare un centro, Costantinopoli, da cui non poteva irradiarsi la propria potenza, come invece un centro geopolitico sempre fa, perché non era centro ottomano.

L’impero ottomano, centrandosi su Costantinopoli, e da romano quale se lo immaginano, porta a ragionare in termini di Oriente e Occidente, e illude un popolo migratore di aver finalmente trovato un punto di approdo, un centro già fatto, e delle coordinate, appunto un est e un ovest a questo centro, l’Anatolia a est i Balcani a ovest. Il centro non era in Anatolia, ma un centro, se turco, doveva esserlo. I turchi invece si immaginano ottomani/romani, e per loro anzi il centro esiste solo se esistono e si sommano Oriente e Occidente. Per questo conquistano i Balcani prima ancora di aver preso Costantinopoli e poi tornano indietro a prenderla. Perché il centro ha senso solo in base alle coordinate. Conquistate quelle il centro cade e il centro è Costantinopoli.

Dopo questo primo errore, commettono l’errore di non comprendere il valore del mare, essendo loro un popolo migratore e terrestre, tanto più che immaginano Roma un impero di terra, non compiutosi nel Mediterraneo. Lo stato kemalista dimostra invece, spostando da subito la capitale ad Ankara, di immaginare una centralità e una solidità dell’Anatolia come Turchia effettiva, e non sono più Oriente e Occidente romani a dare senso al centro, ma è il centro che dà senso alle coordinate e le coordinate ora sono soprattutto nord e sud. Del resto est e ovest attuali sono di fatto muri per ora invalicabili. A ovest la Grecia fa scudo all’Egeo tramite il possesso del Dodecaneso (con l’aiuto di Emirati Arabi Uniti, Israele, Francia, Egitto), mentre a ovest pur avendo fatto passi nel Caucaso, si scontra comunque con potenze attualmente non possibili da sconfiggere, come la Russia e l’Iran, perciò l’Anatolia va tutelata a nord e a sud. A nord dalla Russia attraverso il Mar Nero e a sud tramite il dominio nel Mediterraneo.

Qui entra in gioco l’importanza del Nord Africa nella nuova strategia kemalista, perché il Nord Africa è la possibilità di dominare il mare tramite la costa. La Turchia infatti è consapevole che il mare è la prima linea di difesa, ma non lo sente ancora dentro in sé, sente di dover replicare il modello con cui ha sempre conquistato la sua gloria, che è la via di terra. Per questo dominare le coste per ora è l’unico modo che hanno di arrivare al mare, invece che approdare alle coste dal dominio del mare. La Libia allora non è soltanto la prima trincea con cui consolidare la frontiera della patria blu (e bypassare Cipro), è anche primo punto da cui irradiare il dominio in Nord Africa, per fare un intero arco di difesa da Gibilterra a Suez, solo dopo è anche il punto terrestre da cui proiettare potenza, arrivando da una parte in Somalia e dall’altra in Senegal, cioè agli oceani, superando gli Stretti, da una parte Gibilterra e dall’altra di Suez e Bab el Mandeb, ancora una volta arrivandoci via terra. Questo è un limite fondamentale della strategia turca.

Altro limite è che attualmente il Nord Africa non è sotto il controllo totale della Turchia. Essa possiede infatti la metà della Libia, ma verso il Maghreb la Tunisia si è ribellata all’infiltrazione della potenza turca e la stessa Algeria ancora non è scivolata nelle sue braccia. Non parliamo dell’Egitto. Ulteriore grande problema nel soft power turco in Nord Africa e anche altrove oggi è sapere di non poter più affidarsi totalmente alla cifra dell’islam della fratellanza nell’inserirsi nelle dinamiche locali, ma al tempo stesso non è riuscita a trovare una nuova missione. Per ora sta cercando di proporsi come potenza islamico-laica, al di fuori dei canali della fratellanza musulmana, ma è possibile plasmare gli apparati e le statualità, con tutte le strutture connesse, senza declinazione islamico-politica? Un risultato non scontato.

Ultimo e più grande limite è il fatto che la Turchia finora è riuscita a perseguire le proprie ambizioni all’ombra della benevolenza statunitense, egemone al di là del quale e contro il quale la Turchia non può permettersi di agire. Egemone che ha assegnato alla potenza turca limiti precisi, controbilanciare la Russia, soprattutto in Libia e in Nord Africa in generale, dargli fastidio nel Caucaso, forse allungandosi ad infastidire i cinesi, ma il compimento reale dei progetti turchi non può non prevedere uno scontro con la potenza statunitense e al tempo stesso non può permettersi tale scontro. La traiettoria geopolitica dei turchi è infatti improntata ancora troppo poco sulle risorse e troppo sul mito, che come tale è una categoria che ha a che fare più con il sogno.

Dagli errori ottomani i turchi hanno imparato la necessità di centrarsi in un luogo e farne un centro di irradiazione della propria potenza, invece di spostarsi indefinitamente; in questo senso l’Anatolia è diventata a tutti gli effetti Turchia, e hanno anche capito l’importanza del mare, perché l’Anatolia si difende dal mare/patria blu, ma non sono ancora riusciti a ragionare come popolo che sta in mare e a basarsi sulle risorse limitate che hanno a disposizione.

I turchi per ora sono ancora un grande popolo, ma con un’ambizione troppo grande.

Fonte: Difesaonline.it

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