Tornare ad Haiti è come prendere un ascensore per scendere dritti all’inferno. Il caldo è infernale, l’odore per le strade è infernale, così com
Tornare ad Haiti è come prendere un ascensore per scendere dritti all’inferno. Il caldo è infernale, l’odore per le strade è infernale, così come l’estrema povertà e la religione woodoo.
Per arrivare ad Haiti dalla Repubblica Dominicana ci sono varie frontiere, ma ora quella migliore è da Dajabon, dove il confine viene segnato dal fiume Massacre nel quale moltissimi haitiani hanno perso la vita cercando di passare dalla parte ovest a quella est dell’isola, una volta chiamata Hispaniola.
Non essendo periodo di cicloni tropicali il fiume è quasi secco, qualcuno lava i panni, altri si lavano, altri fanno semplicemente un bagno rinfrescante.
Da Santo Domingo si va verso Cap Haitien così chiamata perché il 24 dicembre 1492, la nave Santamaria di Cristoforo Colombo si incagliò davanti a La Hispaniola.
Con il resto della nave venne costruito il Forte Natale, il primo insediamento spagnolo nelle Americhe. Il nome cambierà prima in Cap-Francois, poi in Cap-Henri fino a Cap Haitien, appunto. Veniva chiamata la “Petit Paris” per la bellezza delle case e il lusso dei suoi abitanti, ma nel 1842 un terremoto e uno tsunami distrussero la città, che ancora oggi come importanza è seconda solo alla capitale Port au Prince.
Quello che è sicuro è che un commando di 26 ex militari colombiani è entrato di notte, con un assalto improvviso, al grido “siamo della Dea”, sapendo benissimo di essere ripresi dalle svariate telecamere di sorveglianza che circondano la residenza presidenziale.
Le guardie del corpo e gli uomini della sicurezza sono rimasti tutti misteriosamente illesi. Mille ipotesi sono state fatte nei giorni seguenti. Quasi immediatamente, 16 dei 26 colombiani che avevano condotto l’assalto sono stati arrestati dalla polizia nazionale. Due di loro sono americani di origine haitiana. Sono stati incarcerati a Santo Domingo, in quanto il commando, con un volo Avianca dalla Colombia, era atterrato a La Romana in Repubblica Dominicana il 4 di giugno per poi entrare ad Haiti dalla frontiera meno controllata quella di Elias Pina.
La prima notte si passa a Cap Haitien. Bisogna poi prendere un bus che attraversa il Paese per arrivare nella capitale, Port au Prince. Un viaggio di 12 ore su strade distrutte e dissestate, dove sono presenti diversi checkpoint militari, barriere di sassi e filo spinato, copertoni bruciati in mezzo alla strada.
La vita ad Haiti è davvero durissima e vale poco o niente, si viene ammazzati anche per pochi gourds (così si chiama il dollaro haitiano).
Ci sono zone del paese come Martissant-Citè Soleil-Bel-Air e Bas Dalmas dove ogni giorno ci sono scontri a fuoco, rapimenti e decine di morti. Una vera guerra. Il numero delle vittime, però, non fa nemmeno più notizia sui telegiornali.
Bastano poche ore a Port au Prince per vedere il primo cadavere. Un membro delle gang, che con una moto girava per le strade sparando come nel Far West con una pistola, è stato ucciso in uno scontro a fuoco dalla polizia nazionale.
Ormai l’intera popolazione vuole scappare da una situazione insostenibile e sempre più critica di ora in ora. Chi vorrebbe arrivare in Repubblica Dominicana, chi negli Stati Uniti, chi in Francia o in qualsiasi posto lontano da qui.
Dopo soli nove giorni di ricovero a Miami, dove inizialmente era stata data per deceduta, poi in condizioni gravissime ma viva, si presenta con solo un braccio ingessato, indossando un giubbotto anti proiettile a Port au Prince. Ad accoglierla è Joseph Lambert, designato dal Senato haitiano come presidente provvisorio.
Lambert nega ogni autorità al primo ministro Claude Joseph, che era al potere dal giorno successivo all’omicidio del presidente Moise. Scelta appoggiata anche da Onu e Stati Uniti. Il Paese si trova a vivere l’ennesima bufera politica e la first lady rilascia un comunicato stampa dicendo che, anche se i mercenari che hanno compiuto l’omicidio del marito sono in carcere, è preoccupata per la presenza di politici che pronti a spegnere i sogni di Moise per il suo Paese.
Sono giorni difficilissimi e pieni di tensione. Unica nota positiva: il 17 luglio è iniziata la vaccinazione anti Covid. Fino ad oggi infatti Haiti era uno dei pochissimi Paesi al mondo a non aver ancora iniziato la campagna vaccinale. Gli Stati Uniti hanno inviato come donazione attraverso il meccanismo Covax 500mila dosi di Moderna. Nel Paese, però, su 11 milioni di abitanti nemmeno l’1% indossa la mascherina e il potersi disinfettare le mani qui è una utopia irrealizzabile.
Nella chiesa di Saint Yves, dove in un vecchio magazzino crollato dopo il terremoto del 2010 hanno trovato rifugio quasi 1500 persone (di cui 240 sono bambini) è tornata un po’ di speranza. Da pochi giorni, infatti, è nata una bambina.
In stanze di pochi metri quadri vivono in condizioni disumane 21, 23 e anche 24 famiglie. I volontari della Protezione civile haitiana raccontano che tutte quelle persone hanno perso le loro case a causa dei conflitti territoriali e delle violenze che i gruppi del G9 hanno intrapreso da anni. Nelle grandi stanze buie, il caldo e l’odore sono infernali. Ci sono sagome nere che ti scrutano. Si vede solo il bianco dei loro bulbi oculari. Molti, e non solo bambini, girano completamente nudi. Sembra di essere in un girone dantesco.
Alcuni bimbi piccoli ti sorridono in un modo che ti spacca il cuore in un solo colpo. Gli occhi ti si riempiono di lacrime che non riesci a trattenere per quello a cui stai assistendo.