Silenzio assordante di chi ha un vocabolario mentale povero
È vero che il rumore oggi è così onnipervasivo nella nostra società che una sua totale assenza può apparirci indescrivibile, ma non è un buon motivo per usare espressioni a sproposito. Il linguaggio dell’informazione fa scorpacciate di automatismi, iperboli, frasi fatte (e a effetto)
Che cosa sia un “silenzio irreale” qualcuno ce lo dovrebbe spiegare. O non ci sono suoni, e allora c’è il silenzio, un silenzio effettivo, reale; oppure qualche suono c’è, magari anche fragoroso, e allora non c’è il silenzio. Un silenzio irreale è un silenzio che non c’è, e quindi non è silenzio ma rumore. È vero, esiste anche un suono del silenzio, come cantavano tanti anni fa Simon & Garfunkel, ma quello è un’altra cosa, qualcosa che si sente con la mente e non con le orecchie.
Ed è vero altresì che il rumore è oggi così onnipervasivo che una sua totale assenza può apparirci irreale; sebbene per qualche estatico istante se ne possa ancora godere, in alta montagna, in un deserto non battuto dal vento, in una notte fuori dei centri urbani (ma si è dato anche in città, nelle fasi iniziali e più rigide del primo lockdown): sono i momenti a cui ha fatto una volta allusione Khalil Gibran, quelli in cui il silenzio inizia a raccontare (ma, di nuovo, a farlo silenziosamente). E certo esiste anche l’uso enfatico, per cui un silenzio irreale è un silenzio inatteso, sorprendente, impressionante, teso, sospeso, magari anche vibrante di inesprimibili emozioni, come quello di una folla improvvisamente azzittita (ma allora perché non utilizzare uno di questi o anche altri aggettivi acconci? Domanda retorica, bisognerebbe essere in possesso di un vocabolario mentale appena un po’ più abbiente).
Altro discorso merita il “silenzio assordante”: pregnante ossimoro partorito un giorno da qualche mente ispirata – per significare l’insensibilità e l’indifferenza di fronte a una situazione che dovrebbe invece smuovere le coscienze, indurre a fare qualcosa, almeno a gridare la propria fremente indignazione – ma da quel dì stucchevolmente ripetuto in ogni occasione, senza neppure la sottolineatura tonale che si conferisce alle immagini ricercatamente inconsuete. E un ossimoro ripetuto si logora, cessando di essere pregnante per diventare ridicolo.
Ma lo sprezzo del ridicolo non sembra allignare, in questi tempi (anche) linguisticamente calamitosi. E si verifica un fatto curioso: che l’abitudine a associarvi uno dei due aggettivi anzidetti ha reso quasi impossibile pronunciare la parola silenzio senza farla seguire o precedere da un aggettivo quale che sia, ove si tenti di sfuggire all’automatismo binario di irreale/assordante. Tanto che – giuro – a me è capito di sentire “un tacito silenzio”, e anche “un silenzio ammutolito”, ridondanze tautologiche che hanno se non altro il pregio di contraddire il silenzio assordante.
Di automatismi, frasi fatte, frasi a effetto, iperboli, metafore miserevoli il linguaggio dell’informazione fa scorpacciate: un edificio o un artefatto uscito dalle cure dei restauratori “torna all’antico splendore”, i resti di una persona scomparsa rinvenuti in capo a lunghe ricerche sono “poveri resti”, la fuga in auto di criminali inseguiti dalla polizia è una “folle corsa”, dopo un incidente stradale le vittime vengono estratte dalle “lamiere contorte”, un’aggressione è sempre “brutale”, un delitto “efferato”, la violenza “inaudita”, i processi alla criminalità organizzata sono “megaprocessi” con “supertestimoni” e le sentenze che per eccesso o per difetto disattendono le attese sono invariabilmente “sentenze shock”. Ah, e durante le pause di una manifestazione sportiva, in televisione, vanno in onda i “superspot”.
Ma il luogo comune – se possibile – più cretino di tutti è la “perdita dell’innocenza”. L’America ha perso la sua innocenza con la guerra in Vietnam, ma poi l’ha ripersa con l’11 Settembre – e chissà che non l’avesse già persa nel ’41 a Pearl Harbor (personalmente tendo a credere che abbia cominciato a perderla fin dalla Guerra di Secessione, se non prima ancora con l’espansione occidentale dei coloni ai danni dei nativi). L’Italia ha perso sua innocenza negli Anni di piombo, e chissà quante altre volte prima e dopo di allora – ammesso che sia mai stata innocente. Ma quale innocenza, poi? Dalla Bibbia sappiamo che l’umanità ha perso l’innocenza nel momento in cui Eva ha assaporato il frutto proibito, ma questa è un’altra storia. Eppure, periodicamente, la perdita dell’innocenza ritorna sui giornali e nelle gravi riflessioni di infestanti commentatori da talk show.
Non c’è scampo. Come un pavesiano vizio assurdo, la tentazione delle frasi logore, che non dicono (più) niente, ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, assordante. Sono anche questi i guasti di un cattivo modo di fare informazione: non quello – ovviamente il più nefasto – che diffonde notizie false, incomplete, non verificate, e a volte non si fa scrupolo di alimentare campagne denigratorie; ma quello che procede col pilota automatico, non si interroga sul significato delle parole, e nondimeno pretende di sfoggiare strumenti retorici che non padroneggia. Si chiama sindrome dello scrittore mancato, in cui si riverbera la frustrazione di quanti, anziché raccontare, semplicemente e chiaramente, i fatti, e segnatamente i fattacci, li sfruttano come occasioni per dare la stura alle proprie velleità letterarie incomprese. Ma se è vero che tanti grandi scrittori sono stati (spesso grandi) giornalisti, bisogna pure riconoscere che non tutti i (magari grandi) giornalisti diventano anche grandi scrittori. A ognuno il suo mestiere.
Mettiamoci il cuore in pace: scenderemo nel gorgo assordati.
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