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Zarina della Repubblica

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Nell’ultimo decennio non è certo la prima volta che il nome di Elisabetta Belloni appare come papabile per una casella di peso (tra il Conte II e il D

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Nell’ultimo decennio non è certo la prima volta che il nome di Elisabetta Belloni appare come papabile per una casella di peso (tra il Conte II e il Draghi I, si parlava di lei come possibile ministro degli Esteri, poi è stata nominata a capo del Dis). Questa volta, però, circola la sua figurina nei corridoi dei Palazzi romani per andare al Colle. Dunque, non ci resta che provare ad anticipare i tempi e capire chi è appunto Elisabetta Belloni. Per delineare questa non-biografia abbiamo spulciato gli archivi dei giornali degli ultimi vent’anni che, sotto il suo nome, ci hanno restituito ben 582 articoli. Abbiamo dovuto quindi procedere a una selezione, seppur sempre assai generosa, che ci ha permesso di arrivare a “soli” 123 articoli. Prima però partiamo dall’inizio. Classe 1958, romana di padre padovano, è vedova dell’ambasciatore Giorgio Giacomelli. Nel 1972 Belloni è la prima donna iscritta alle scuole dei gesuiti dell’Istituto Massimo (lo stesso frequentato da Mario Draghi) di cui nel 2007 dirà:

“Mi hanno insegnato sostanzialmente due cose: la prima cosa che conta è la preparazione, la professionalità, la seconda è l’apertura mentale”.

Elisabetta Belloni

Nel 1982 si laurea in scienze politiche alla LUISS e nel 1985 inizia la sua carriera diplomatica. Una carriera che, fino ai primi anni duemila, è tutta nel solco dell’Europa (soprattutto orientale), delle organizzazioni internazionali e della Russia. Nel 2002 viene nominata capo segreteria del sottosegretario triestino Roberto Antonione, con delega ai Paesi dell’Europa, forzista della prima ora, già presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia tra il 1998 e il 2001. Il 3 novembre 2004 il salto di qualità. Viene incaricata a svolgere le delicate funzioni di Capo dell’Unità di Crisi al posto di Alessandro Cevese. Fu lo stesso ministro Frattini a optare per la sostituzione di Cavese in seguito all’inerzia dei suoi uffici di fronte al rapimento e all’uccisione dell’italo-iracheno Ayyad AnwarWali. La guerra in Iraq aveva prodotto ripercussioni anche a Roma e la sostituzione di Cavese rientrava nella più generale riorganizzazione “comunicativa” operata da Frattini, che decise anche di integrare un consulente psicologico nell’Unità di crisi, il professor Michele Piccione. Tre giorni dopo Elisabetta Belloni si trova subito a dover gestire e decidere l’evacuazione dei connazionali in Costa d’Avorio. Dopo nemmeno due mesi il devastante tsunami che, il 26 dicembre quell’anno, colpì il Sud-Est asiatico, dove migliaia di turisti italiani stavano trascorrendo le vacanze natalizie. Un episodio che mise a dura prova l’intera struttura operativa: una ventina di persone in grado di garantire una turnazione h-24 nelle tre stanze al terzo piano della Farnesina. Era Belloni stessa a comunicare la brutta notizia ai parenti delle vittime: “Sono solo io a darla ai parenti con cui si è instaurato un dialogo. Hanno il mio cellulare e possono chiamarmi quando vogliono”.

Nel luglio 2008 lo stesso Frattini, che l’aveva messa a capo dell’Unità di Crisi, una volta ridiventato ministro, decide di nominare Belloni in un ruolo ancora più decisivo: direttore generale della cooperazione allo sviluppo, di cui lo stesso Frattini decise di tenere per sé la delega, considerandola una priorità in vista dell’imminente presidenza italiana del G8. Quello della cooperazione era un settore destinato a prendere sempre più peso, sia come strumento di proiezione internazionale del Paese sia come volume di risorse economiche da gestire. L’obiettivo di Belloni è creare un “sistema Italia della Cooperazione” favorendo la complementarietà tra gli aiuti di Stato, regioni ed enti locali, il coinvolgimento della società civile e una più stretta collaborazione con le imprese private. Ironia della sorte, però, la legge di stabilità 2009 avrebbe tagliato del 56% i fondi destinati proprio alla cooperazione. E così, la scarsità di risorse diventò un problema urgente, tanto da convincere Belloni, dopo soli dieci mesi nella sua nuova posizione, a spendersi pubblicamente, e nemmeno troppo diplomaticamente, per richiedere maggiori risorse finanziarie e umane, “tutte giunte al minimo storico”. Auspica una riforma della legge sulla cooperazione che stia al passo col concetto in evoluzione di sviluppo e chiede anche un cambio di paradigma affinché non si guardi più alla cooperazione come mero strumento di proiezione della politica estera ma, più ampiamente, come “uno strumento fondamentale per la stabilità e la sicurezza degli Stati”. Ma la politica non la ascolta, anzi. Tremonti, ministro dell’Economia, dirà a Frattini: “Non sono disposto a dare fondi alla Farnesina, anzi gliene tolgo ancora un po’ perché siete inefficienti. Tanto la cooperazione allo sviluppo la faccio io attraverso i rapporti con i vari organismi internazionali”.

A marzo 2011 Elisabetta Belloni si troverà a dover gestire la crisi umanitaria scatenata dalla guerra contro la Libia. Guerra contro cui l’Italia non si oppose come e quanto avrebbe dovuto. Ma tant’è. Belloni ormai “ha fama di donna energica. Pugno di ferro e giro di perle”, così la descrive un articolo de La Stampa dedicato a colei che gestirà la doppia missione umanitaria: sede operativa in Tunisia, sui cui confini premono ondate di profughi provenienti dalla Libia, e aiuti alimentari e sanitari a Bengasi, via mare. Missione assegnatale direttamente dallo stesso Frattini che in lei crede e a lei si affida. Anche perché Belloni, già dall’epoca in cui dirigeva l’Unità di crisi, aveva instaurato ottimi rapporti con i vertici della Difesa e del Sismi, tradizionalmente gelosi delle proprie prerogative nei confronti dei diplomatici (e viceversa). A inizio 2012 alcune grane. La prima riguarda l’istituzione, nel nuovo governo Monti, del ministero alla Cooperazione Internazionale, guidato da Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio. È un ministero senza portafoglio, quindi Riccardi prova almeno a strappare una “cogestione”, ma trova la porta sbarrata dallo stesso ministro degli esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, con la sponda decisiva di altre due ministre, Elsa Fornero e Anna Maria Cancellieri.

Partita chiusa. Il dipartimento guidato da Belloni resterà saldamente in Farnesina e il ministero di Riccardi avrebbe così portato il nome di un qualcosa su cui non aveva nemmeno la competenza. Fantastico. A marzo, Elisabetta Belloni allontana 29 consulenti esterni accusati di aver mentito sulla propria residenza. Autocertificavano di essere residenti in Italia ma in realtà vivevano regolarmente nel Paese in cui si svolgeva la missione, col risultato di lucrare su indennità più che doppie. Truffe avvenute tra il 2006 e il 2010 e per cui la stessa Farnesina aveva individuato alcune anomalie. Belloni sporse denuncia alla Guardia di finanza. “Con questi controlli si è dato un segnale di serietà”, commentò lapidaria. La stima conquistata e le sempre più stabili reti di relazioni permettono a Belloni di accelerare l’ascesa. Nel gennaio 2013 diventa direttore generale della potente direzione Risorse e innovazione. A maggio, in piena formazione del governo Letta, il nome di Belloni inizia a circolare per il capo di gabinetto del ministro Bonino. Non se ne farà nulla: quel posto andrà a Pietro Benassi, detto Piero. Ma a gennaio del 2014 Belloni conquisterà la sua propria vetta: diventa ambasciatore, il grado più alto della carriera diplomatica. Grado raggiunto da pochissime donne in Italia. Belloni è ormai ufficialmente nel Pantheon dei grand commis. E pure tra i più elevati.

Ma anche questa volta la concorrenza è spietata e, soprattutto, avranno la meglio personaggi di continuità o comunque non propriamente avversi alla prospettiva renziana (rispettivamente, Alberto Manenti, Emma Marcegaglia e Maria Patrizia Grieco). Belloni resta al suo posto, troppo “istituzionale” per la politica delle slide e degli interessi particolari di cui Renzi è alfiere.  Sempre nell’ottica del pour parler delle quote rosa, il nome di Belloni a segretario generale della Farnesina ricomincia a girare già nel luglio del 2014. Ma per quel ruolo bisognerà aspettare meno di due anni. Nel frattempo, però, Mogherini viene inviata a guidare la PESC, la politica estera europea, o meglio, l’ombra del suo ologramma. Al suo posto circolano alcuni nomi. Montezemolo, Lapo Pistelli e Angelino Alfano, il quale vorrebbe lasciare il Viminale per un posto altrettanto prestigioso, ma per fortuna o purtroppo il danno sarà rimandato di due anni. Ma anche Lia Quartapelle (la “giovane” preferita da Renzi), Marina Sereni e la stessa Belloni. Le quote rosa, le donne, le donne giovani e tutta la solita retorica della maschera, come se l’oggettiva esperienza e competenza della terza potesse essere livellata dalla mera condivisione di genere con le prime due. Retorica della maschera smentita sistematicamente dal volto dei fatti che, di grancassa, aprirono infine le porta al duca conte Paolo Gentiloni Silveri, il fu-rutelliano e l’oggi-fu-renziano, nominato alla vigilia dei morti, anno del Signore 2014. Un doppio cognome, di preteso sangue blu, alla guida del più aristocratico dei ministeri. Gentiloni, però, nel giugno 2015 avrà buon cuore e lungimiranza di scegliere Belloni come suo capo di gabinetto. Un ruolo decisivo, talvolta più di quello da ministro.

“Io sono orgogliosa di non avere nessuna matrice politica. Qui ci sono colleghi di destra, colleghi di sinistra e alcuni definiti istituzionali. Io sono molto orgogliosa di definirmi istituzionale”.

Elisabetta Belloni

Istituzionale, appunto. Parola magica per un governo istituzionale. Quel che è certo, però, è che Elisabetta Belloni, prima donna iscritta all’Istituto Massimo dei gesuiti (lo stesso di Draghi), prima donna a capo dell’Unità di crisi, prima donna a guidare la Cooperazione internazionale, prima donna a ricoprire il vertice amministrativo della Farnesina, infine prima donna a dirigere il Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza. A capo del Dis, si è ritrovata a dover gestire tutta una serie di dossier importanti, lontano dai riflettori: crisi in Libia, difesa degli asset industriali strategici, questioni energetiche, futuro della cybersecurity dopo la nascita dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, e adesso nemmeno il tempo di averli portati a termine che il suo nome potrebbe diventare la terza via del “Partito del Quirinale” qualora lo schema Mattarella-Draghi non dovesse replicarsi.

Fonte: Dissipatio.it

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