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Il Quirinale e la politica estera

Il Quirinale e la politica estera

Quando si parla della politica estera italiana, vengono in primo luogo in mente due palazzi romani nevralgici in tal senso: Palazzo Chigi e la Farnesi

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Quando si parla della politica estera italiana, vengono in primo luogo in mente due palazzi romani nevralgici in tal senso: Palazzo Chigi e la Farnesina. Nel primo ha sede la presidenza del consiglio, nel secondo invece il ministero degli Esteri. É lungo questo asse che si prendono le scelte più importanti. Del resto la costituzione assegna unicamente in capo al governo le competenze sulle linee politiche da intraprendere. La presidenza del consiglio, secondo l’articolo 95 del testo costituzionale, mantiene “l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Il ministro degli Esteri è poi titolare di tutte le attività concernenti i rapporti internazionali e la cooperazione. In tutto questo, il Quirinale che ruolo ha? Il Colle ha solo in apparenza una funzione di mera “rappresentanza”, come indicato dall’articolo 87. Anzi, proprio la sua funzione rappresentativa spesso ha reso l’istituto della presidenza della Repubblica attivo nella fase decisionale. In politica estera non sono mancati nella storia recente presidenti “interventisti”.

Il caso della partecipazione dell’Italia ai raid in Libia

Quando si parla di interventismo del Quirinale, il primo pensiero spesso va a quanto accaduto la sera del 17 marzo 2011. Quel giorno l’Italia festeggiava i 150 anni di unità nazionale e al teatro dell’Opera di Roma andava in scena il Nabucco diretto da Riccardo Muti. Erano quindi presenti tutte le più alte cariche dello Stato, a partire ovviamente dal presidente che in quel momento era Giorgio Napolitano. Anche su quel clima di festa però incombeva la drammaticità degli eventi in corso in Libia. Qui da circa un mese erano nate manifestazioni contro il rais Muammar Gheddafi Francia e Gran Bretagna premevano per l’intervento. Anche se non si trattava di un’operazione a guida Usa, da Washington il presidente Obama aveva già dato il benestare per le azioni militari. L’Italia con la Libia era legata da un trattato di amicizia stipulato appena due anni prima. Tra il presidente del consiglio in carica, Silvio Berlusconi, e Muammar Gheddafi c’era anche un buon rapporto personale. Dalla presidenza del consiglio arrivava quindi un input per un non intervento. In quella sera del 17 marzo in una sala del teatro dell’Opera Napolitano si è riunito con Berlusconi, Ignazio La Russa, allora ministro della Difesa, e Bruno Archi, consigliere diplomatico di Palazzo Chigi. A premere per far partecipare l’Italia agli imminenti raid in Libia è stato proprio Napolitano. E alla fine la linea passata è stata quella del Quirinale.

A ricostruire gli eventi di quella serata è stato nel maggio 2011 il settimanale Panorama. Giorgio Napolitano ha dato quel preciso input in qualità di comandante in capo delle Forze Armate e presidente del supremo consiglio della Difesa. Funzioni attribuite dalla costituzione al presidente della Repubblica, senza però dare a quest’ultimo ruoli esecutivi. Questi spettano sempre alla presidenza del consiglio. In un’intervista rilasciata dallo stesso NapolitanoRepubblica l’ex presidente ha ricordato proprio questo aspetto, dichiarando come la decisione finale di bombardare Tripoli è stata presa unicamente da Berlusconi. Sotto il profilo politico però, la linea avanzata dal Colle si è rivelata decisiva. Tanto che, come ricostruito sempre da Panorama, Barack Obama nel chiedere una partecipazione italiana ai raid ha chiamato il Quirinale e non Palazzo Chigi. Soltanto dopo quando dalla Casa Bianca si è alzata la cornetta in direzione della sede della presidenza del consiglio, allora dall’esecutivo è arrivato il definitivo via libera. Ad oggi è forse questo l’esempio più calzante su come il Quirinale può incidere sulla linea estera dell’Italia.

Le linee di indirizzo di Mattarella al momento della nascita del Conte I

In anni ancora più recenti, un altro intervento di chiaro indirizzo politico in politica estera è arrivato anche da Sergio Mattarella. Nel 2018, a seguito di un risultato elettorale da cui non è uscita una chiara maggioranza, M5S e Lega hanno avviato le trattative per formare un esecutivo. A fine maggio i giochi sembravano fatti. In particolare, l’inedita coalizione ha indicato Giuseppe Conte quale nuovo presidente del consiglio e quest’ultimo ha ricevuto da Mattarella l’incarico. La nuova maggioranza all’estero ha suscitato sia clamore che perplessità. In Europa soprattutto i timori erano indirizzati sulle linee antieuropeiste professate in precedenza dai due partiti. Come stabilito dall’articolo 92, i ministri, su proposta del presidente del consiglio, sono nominati dal Presidente della Repubblica. Mattarella non ha accettato la nomina come ministro dell’economia di Paolo Savona, professore che negli anni precedenti si era mostrato scettico sull’esperienza dell’Euro. La scelta di Mattarella, che ha provocato la fine del primo tentativo di Conte di formare un governo (mentre andrà a buon fine, pochi giorni dopo, il secondo tentativo sempre con Lega e M5S), ha dato un chiaro orientamento sulla linea dell’Italia in politica estera. E, in particolare, sulla necessità di rimanere nell’orbita europea senza manifestare scetticismi in tal senso: “L’incertezza sulla nostra posizione nell’Euro – ha spiegato Mattarella alle telecamere motivando la sua scelta – ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende. L’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali”. L’europeismo di Mattarella non ha però frenato il Quirinale dal tuonare contro Christine Lagarde e la Bce quando, nei primi tempi dell’emergenza Covid, l’Eurotower rischiava di consegnare il debito italiano agli assalti speculativi.

Un altro punto della politica estera di Mattarella ha poi riguardato l’atlantismo. Il capo dello Stato uscente ha dimostrato, dapprima velatamente (ad esempio muovendosi per spingere il Conte I a riconoscere Juan Guaidò come legittimo presidente del Venezuela) e poi con scelte organiche (dallo scrutinio dei ministri nei governi successivi al Conte-bis alla chiamata di Mario Draghi) di considerare l’atlantismo altrettanto importante dell’europeismo come cardine irrinunciabile dello schieramento del Paese nel mondo. La linea euroatlantica è stata custodita con forza dal Quirinale e ha avuto in Mattarella un continuatore di Giorgio Napolitano e Carlo Azeglio Ciampi.

Perché all’estero guardano al Quirinale

La funzione rappresentativa dunque non ha mai coinciso con una “ingessatura” del presidente della Repubblica in semplici ruoli istituzionali. In politica estera il Colle ha più volte detto la sua, incidendo e non poco sulle decisioni di Palazzo Chigi e Farnesina. Ecco perché anche all’estero si sta guardando con attenzione in queste ore alle vicende relative all’elezione del nuovo capo di Stato. Sapere chi andrà al Quirinale è più che mai importante per le cancellerie internazionali. Anche perché l’istituto della presidenza della Repubblica ha un vantaggio rispetto al governo: è di gran lunga l’istituzione più stabile. Mentre nelle sedi della presidenza del consiglio o del ministero degli Esteri i titolari cambiano nel giro di pochi anni a causa di una durata media dei governi italiani molto bassa, al Colle ci si resta comunque vada almeno sette anni. Agganciare il Quirinale vuol dire poter pianificare rapporti nel medio e lungo termine con Roma.

Il caso dei rapporti con la Cina

Ne sanno qualcosa a Pechino. I rapporti italo-cinesi hanno avuto il Quirinale come prima sponda. Agli sgoccioli dell’esperienza maoista, e pochi anni prima delle riforme di Deng Xiaoping, il 6 novembre 1970 hanno formalmente inizio le relazioni bilaterali tra l’Italia e la Repubblica Popolare Cinese. Per capire come è sbocciato il seme diplomatico sino-italiano bisogna tuttavia fare qualche passo indietro.

Ottobre 1955: Pietro Nenni, all’epoca Segretario Generale del Partito Socialista italiano, è stato ricevuto da Mao Zedong nella capitale cinese. Nenni ha così posizionato la prima pietra visibile di un rapporto presto destinato a decollare. Anche perché, nel 1971, il due volte ministro italiano degli Affari Esteri ha visitato la Cina per la seconda volta, ricevendo dall’allora primo ministro Zhou Enlai niente meno che “l’eterna gratitudine del popolo cinese” per l’impegno messo in campo ai fini del riconoscimento italiano della Repubblica Popolare.

Che cosa era accaduto in mezzo ai due viaggi? La Cina non faceva parte dell’Onu complice l’opposizione degli Stati Uniti; l’Italia riconosceva, di fatto, soltanto la Repubblica di Cina, ovvero Taiwan. Già allora, tuttavia, Pechino considerava quell’isola, autoproclamatasi indipendente, una provincia ribelle sotto la propria bandiera. Allo stesso tempo, Taiwan rivendicava la propria sovranità sul territorio della Repubblica Popolare, spingendo quest’ultima a considerarlo Paese ostile. In uno scenario del genere era impossibile avere, allo stesso tempo, relazioni formali con la Cina e con Taiwan. Nel 1969, una volta diventato ministro del governo Rumor, Nenni ha presentato la proposta per riconoscere la Repubblica Popolare Cinese. Per l’Italia, era arrivato il momento di aprire definitivamente le porte al gigante asiatico. Fu così che i due Paesi nominarono i rispettivi ambasciatori e che Taiwan cessò i rapporti bilaterali con l’Italia. Il 25 ottobre 1971, con Giuseppe Saragat presidente della Repubblica Italiana, l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto i rappresentanti della Cina come “l’unico rappresentante legittimo della Cina alle Nazioni Unite”.

Nenni è stato il principale demiurgo delle relazioni italo-cinesi e ha trovato in Saragat un fautore della distensione. Le memorie dell’epoca ricordano che la Repubblica Popolare ha inviato a Roma tale Xu Ming, funzionario del ministero degli Esteri già vicedirettore del reparto Europa orientale; anche la Farnesina sperava di spedire oltre la Muraglia un profilo diplomatico, ma ciò non accadde per scongiurare una possibile reazione avversa di Washington, gli americani, infatti, avrebbero potuto pensare che l’ufficio commerciale italiano fosse una sorta di ambasciata. Il terreno era tuttavia preparato. Di lì a poco, Italia e Cina sarebbero diventate ancora più vicine, fino ad arrivare al marzo 2019, con la firma tra i due Paesi del MoU (Memorandum of Understanding) sulla Nuova Via della Seta e l’incontro tra il presidente italiano Sergio Mattarella e quello cinese Xi Jinping.

Il Quirinale essenziale per la politica estera

In politica estera il Quirinale, dunque, prevale sulle altre strutture dello Stato perché, nel mandato settennale, custodisce la lunga durata in un paese dove la politica resta fragile nella capacità di domare il tempo. E in quest’ottica si rivela garante dell’unità nazionale anche nel senso delle questioni geopolitiche e strategiche: il Presidente della Repubblica ha il potere non codificato di definire la cornice, il terreno di gioco entro cui lo Stato può muoversi e la diplomazia agire. La sua moral suasion vale anche all’estero, come moltiplicatore di potenza per il sistema-Paese nell’ottica di quelle relazioni internazionali che non vanno confuse con la semplice politica estera ma rappresentano la capacità di incidere di una figura o personalità in virtù dello standing individuale o dell’istituzione ricoperta. Logico dunque pensare che un Quirinale sempre più “geopolitico” troverà il suo inquilino ideale, negli anni a venire, in figure dal pedigree ben strutturato nel campo delle relazioni in questione.

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