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Il funzionario pubblico e la “paura della firma”

L’art. 28 della Costituzione, la posizione della Corte dei Conti e le novità del Decreto Semplificazioni 2021

Il funzionario pubblico e la “paura della firma”

Il fenomeno del «timore della firma»: un fenomeno indubbiamente presente nel sistema italiano della Pubblica Amministrazione e contro il quale il legi

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Il fenomeno del «timore della firma»: un fenomeno indubbiamente presente nel sistema italiano della Pubblica Amministrazione e contro il quale il legislatore, in tempi diversi, ha cercato di porre un fremo.

Con tale espressione si suole individuare la serie di condotte omissive, tenute dai pubblici funzionari, che ostacolano il normale agire dell’Amministrazione e che sarebbero indotte, stando a quanto rilanciato dagli organi di informazione, dal timore del processo contabile e della Corte dei conti in caso di violazioni.

Ma quanto c’è di vero in queste affermazioni?

Nelle righe che seguono si cercherà di analizzare i principali orientamenti dottrinali legati, in special modo, all’interpretazione del precetto contenuto nell’articolo 28 della Costituzione nonché, successivamente, di valutare, con occhio critico, la linea di azione intrapresa dal legislatore con l’introduzione dell’art. 21 del Decreto Semplificazioni del 2021. Particolare attenzione sarà attribuita alle parole di due importanti esponenti della Corte dei conti che, quotidianamente, si trovano ad applicare i principi de quibus.

 

1. Il funzionario pubblico nella Pubblica Amministrazione

La figura del «funzionario», nella Pubblica Amministrazione, è una delle più rilevanti dell’intera organizzazione amministrativa poiché egli è la persona fisica di cui si serve l’organo amministrativo per «tradurre», in concreto, il potere amministrativo che è attribuito direttamente dalle disposizioni di legge.

Lo Stato, al fine di esercitare correttamente le competenze che gli sono attribuite dalla Costituzione (art. 117 Cost. e ss.), dalle leggi interne nonché da quelle comunitarie, si avvale di strutture amministrative (c.d Enti), dislocate sull’intero territorio nazionale. Da un punto di vista interno, l’Ente pubblico è suddiviso in «organi» i quali, a loro volta, sono ripartiti in «uffici».

La posizione del funzionario, all’interno della Pubblica Amministrazione, permette di introdurre un primo concetto fondamentale. Per «Immedesimazione organica», infatti, si intende quel meccanismo, di derivazione germanica, attraverso il quale è possibile imputare direttamente alla persona giuridica (cioè lo Stato) gli atti, i provvedimenti e, più in generale, l’attività amministrativa dei propri organi. Da ciò derivano, logicamente, rilevanti conseguenze anche sotto il profilo della responsabilità per eventuali danni cagionati a terzi, ossia ai cittadini che chiedono, sempre più frequentemente, prestazioni alla PA.

Il principio di immedesimazione organica, su cui si fonda la teoria dell’organo, porta con sé un senso di «spersonalizzazione» del funzionario: egli, dunque, non rileva più in quanto persona fisica in sé e per sé ma come soggetto che, in un qualche modo, «dà vita» alla struttura amministrativa.

Il rapporto che lega il funzionario all’organo è definito «rapporto d’ufficio», che va necessariamente distinto dal «rapporto di servizio»: nel primo caso, l’individuo adotta atti e provvedimenti «in nome e per conto» dell’ente, nel quale si identifica completamente; nel secondo, invece, il rapporto si innesca tra due soggetti, una persona giuridica ed una persona fisica che si impegna a mettere a disposizione, a servizio dell’ Ente pubblico, le proprie energie a fronte di un corrispettivo individuato in base ad un contratto di lavoro (e, in tale ipotesi, si parla di rapporto di servizio «professionale» e, quindi, di un dipendente pubblico) ovvero in base ad altro titolo come vale, ad esempio, per i consiglieri regionali, i sindaci, i ministri, ecc. (in tali casi, si parla di rapporto di servizio «onorario»).

La titolarità di uno o l’altro rapporto, come anticipato poc’anzi, ha rilevanti conseguenze sul piano della responsabilità: nel caso di rapporto d’ufficio, degli eventuali danni cagionati a terzi risponde solo ed esclusivamente l’Amministrazione alle cui dipendenze opera quel soggetto mentre, nel caso di rapporto di servizio, il soggetto agente risponde «direttamente e personalmente» verso l’Amministrazione per danni a terzi derivanti dalla propria condotta. Sorge, in questi casi, la c.d Responsabilità amministrativa (giurisdizione della Corte dei Conti).

2. La normativa vigente

Dal punto di vista della normativa, essa non trova univoca collocazione. Infatti, diversi sono i testi normativi a cui si deve fare riferimento ai fini della presente analisi.

Del ruolo del funzionario pubblico si parla, in primo luogo, nella L. 241/1990 (Legge sul procedimento amministrativo) che individua, dagli artt. 4 a 6, la figura del «Responsabile del procedimento» quale soggetto incaricato di svolgere le attività amministrative necessarie per l’adozione di un atto o provvedimento. In verità, all’art. 4 si parla principalmente di «unità operativa» intendendo, con tale espressione, un insieme di attribuzioni, poteri e responsabilità che definisce la posizione del soggetto agente.

Analogamente, anche la L. 190/2012 (Legge Anticorruzione o Legge Severino) interviene in tema di responsabilità del funzionario pubblico. Infatti, la ratio di tale intervento legislativo era ravvisabile nel tentativo di riformare il sistema della responsabilità amministrativa del dipendente pubblico, principalmente in due modalità: da un lato, riscrivendo alcune fattispecie di reato, inasprendo le sanzioni o, talvolta, creandone di nuove e, dall’altro, puntando alla formazione del funzionario e alla presa di coscienza circa dell’importanza del ruolo da esso svolto.

Anche il D.lgs. 150/2009 va annoverata tra le normative più rilevanti sul tema in quanto individua i criteri oggettivi da considerare ai fini della valutazione della performance del dirigente pubblico in ragione dell’obbligazione di risultato a cui egli è soggetto.

Infine, non meno importante, è il DPR 3/1957 ovvero il Testo Unico dello statuto degli impiegati civili dello Stato che individua, negli artt. 22 e 23 la tipologia di responsabilità gravante il funzionario e le relative conseguenze.

Di pubblica amministrazione e di impiegati dello Stato si parla, a più riprese, anche nella Costituzione. In particolare, sono tre le disposizioni dedicate e che qui rilevano: in primis, l’art. 97 co. 2 Cost. che individua i principi fondamentali a cui l’intero agire amministrativo si deve ispirare quali, ad esempio, l’economicità, l’efficienza, l’efficacia, la trasparenza, la legalità, l’imparzialità e, più in generale, il buon andamento; in secundis, l’art. 98 che detta, invece, il principio più generale secondo cui «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione». Infine, l’art. 28 Cost. È proprio questa la disposizione che ha destato maggiore scalpore e che, a detta di una parte importante seppur minoritaria della dottrina, scardina e mette in profonda crisi l’intero principio della immedesimazione organica.

3. Il problema generato dall’art. 28 Cost: la paura della firma

L’analisi del fenomeno della «paura della firma» deve partire, inevitabilmente, dalla lettura testuale dell’art. 28 della Costituzione: «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici».

L’interpretazione letterale del precetto costituzionale, ci porta alla individuazione di una doppia e diretta responsabilità: una in capo al singolo dipendente pubblico ed una in capo all’Amministrazione (e, quindi, allo Stato). Il meccanismo così introdotto è detto «di solidarietà passiva», la cui ratio è la palese esigenza di tutelare gli interessi legittimi del cittadino dalle condotte illecite, illegittime o lesive tenute dalla PA e dai suoi funzionari (garantiti, dalla stessa Costituzione, ex art. 113): pertanto, se a produrre un danno a terzi è un pubblico dipendente, nell’esercizio dei propri compiti istituzionali, allora di quel danno risponderà «economicamente» anche l’ente di appartenenza.

Tuttavia, è necessario ricordare come l’art. 28 Cost. abbia innescato, prima ancora della sua approvazione, innumerevoli dibattiti in seno, non solo, alla stessa Assemblea costituente ma anche in dottrina ed in giurisprudenza. La vexata quaestio riguardava la tipologia del rapporto tra la responsabilità imputabile alla PA e quella riconoscibile in capo ai singoli soggetti agenti.

Gli orientamenti che si sono sviluppati sono molteplici e, di seguito, se ne riportano quattro.

In primo luogo, taluni sostenevano che, in capo alla PA, fosse configurabile una responsabilità «indiretta», fondata sull’art. 2049 c.c. («Responsabilità dei padroni e dei committenti»), vale a dire sul rapporto di preposizione nonché supremazia gerarchica che esiste tra i soggetti considerati: l’ente ed il funzionario. Una relazione che, a ben vedere, necessita che la persona fisica abbia agito perseguendo delle finalità coerenti con quelle che le erano state affidate dall’Amministrazione alla quale egli appartiene. In tal caso, la responsabilità civile sarebbe stata estesa anche nei confronti dell’ente ed il terzo danneggiato, dunque, avrebbe potuto rivalersi direttamente sull’Amministrazione ai fini del risarcimento del danno.

In secondo luogo, altri individuavano, in capo all’Amministrazione, ben due forme di responsabilità: una diretta ex art. 28 Cost. ed una indiretta, incardinata sull’art. 113 Cost.

In terzo luogo, per altra parte della dottrina, benché in netto contrasto con il dettato dell’art. 28 Cost., era ravvisabile una responsabilità esclusivamente diretta per l’Amministrazione (come previsto, ad esempio, negli ordinamenti tedesco, austriaco e svizzero), lasciando completamente indenne il funzionario. Posizione che ad oggi è stata superata ma non del tutto.

Infine, un’ultima posizione riteneva individuabile, alla luce del disposto dell’art. 28 Cost., una doppia responsabilità diretta, sia nei confronti del funzionario, sia nei confronti dell’ente pubblico (a riguardo, si veda A. Liberati, La responsabilità civile della pubblica amministrazione, parte I, in «La responsabilità della pubblica amministrazione e dei suoi dipendenti» A c., di P. Garofoli, A. Liberati Tomo II.). La ragione del coinvolgimento «pecuniario» della PA è presto individuata: proprio per il principio di immedesimazione organica, lo Stato e gli altri enti pubblici non possono agire che a mezzo dei propri organi, il cui operato non è di soggetti distinti, ma degli enti stessi in cui essi si identificano. Proprio in ragione di questo rapporto organico che la responsabilità derivante dalla loro attività risale, appunto, alle persone giuridiche pubbliche delle quali sono espressione (Cass., sez. III, 10 maggio 2005, n. 9741).

Quest’ultima interpretazione è quella prevalente ma, nonostante ciò, non sono pochi coloro che, ad oggi, continuano a ritenere che l’art. 28 Cost., nella sua versione attuale, sia una delle cause del fenomeno in esame. I sostenitori di tale visione ritengono che l’ordinamento giuridico, in questo senso, sembri contraddirsi: da un lato, il principio di immedesimazione organica determina una sorta di «spersonalizzazione» del funzionario, il quale diventa un tutt’uno con l’Amministrazione di appartenenza ma, allo stesso tempo, egli comunque risponde personalmente e direttamente per i danni cagionati nell’esercizio delle proprie funzioni imputabili a quella stessa Amministrazione; in questo modo, sembra venir meno quella sorta di «protezione» che ci si aspetterebbe dall’applicazione integrale del principio della immedesimazione organica (per ulteriori approfondimenti, si vedano gli atti del 1° incontro del XIV ciclo di «Dialoghi di diritto amministrativo» tenutosi il 25 novembre 2021 presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Trento, in particolare l’intervento del dott. Guido Denicolò, Avvocatura di Stato, Trento).

La previsione di una diretta responsabilità in capo al singolo dipendente pubblico ex art. 28 c. 3 Cost. ha portato, successivamente, a diversi interventi legislativi. In particolare, il legislatore del DPR. n. 3/1957, ovvero il TU dello statuto degli impiegati civili dello Stato, ha dedicato alla responsabilità un intero capo (capo II, Titolo II). Per quanto qui interessa, si menzionano l’art. 22 in cui si dispone che «L’impiegato che, nell’esercizio delle attribuzioni ad esso conferite dalle leggi o dai regolamenti, cagioni ad altri un danno ingiusto ai sensi dell’art. 23 è personalmente obbligato a risarcirlo» ed il successivo art. 23 che definisce il concetto di «danno ingiusto», collegandolo ad una condotta commessa con dolo o colpa grave, consistente in una «sprezzante trascuratezza dei doveri d’ufficio», la cui prova deve essere fornita, ovviamente, dal terzo danneggiato.

La premessa storica sopra esposta, consente ora di riportare l’analisi a tempi più recenti. Secondo la teoria del diritto amministrativo, il funzionario pubblico, nello svolgimento delle proprie funzioni, va soggetto a responsabilità che si declina, astrattamente, in cinque forme (sul tema v. Tenore, Palamara, Marzocchi Buratti, Le cinque responsabilità del pubblico dipendente, Milano, 2013).

La prima. È la responsabilità per il risultato (o dirigenziale). Nello specifico, è riferita al dirigente pubblico e costituisce l’oggetto di una legislazione dedicata (contenuta nella L. 150/2009): nel contratto che instaura il rapporto tra il dirigente e l’Amministrazione sono dettagliatamente individuati, dal vertice politico, gli obiettivi che il dirigente stesso deve raggiungere nell’esercizio delle proprie funzioni che, notoriamente, sono caratterizzate da un’ampia autonomia organizzativa, finanziaria e di gestione. Questa, si può dire, sia la meno preoccupante in assoluto poiché, nella peggiore delle ipotesi, la sanzione consiste nel mancato riconoscimento della retribuzione di risultato.

La seconda. È la responsabilità amministrativo-contabile, ossia quella «interna» alla Pubblica Amministrazione e che si concretizza quando, con la propria condotta, abbia cagionato un danno patrimoniale all’Amministrazione.

La terza. La responsabilità c.d «disciplinare» a cui si da luogo nel caso di violazione del codice di comportamento, del CCNL o del venir meno ai propri doveri d’ufficio.

La quarta. Quella penale, consistente nella risposta più incisiva ed immediata dell’ordinamento a fronte di condotte particolarmente spregevoli nei confronti dello Stato e della collettività. Purtroppo, nel panorama della PA italiana, sempre più frequentemente le condotte sanzionate integrano anche fattispecie di reato (peculato, corruzione, concussione, abuso d’ufficio, ecc.).

Infine, la quinta e certamente la più temuta. È la responsabilità civile, vale a dire quella «esterna» del funzionario verso l’utenza, tutelata contro la PA dalla Costituzione stessa, che determina il «timore della firma».

Il bilanciamento degli interessi costituzionalmente tutelati impone di mettere in relazione, da un lato il diritto alla tutela degli interessi legittimi del cittadino (garantiti dall’art. 113 Cost.) e, dall’altro, la garanzia del buon andamento della PA come richiesto dall’art. 97 della Costituzione.

Secondo i sostenitori della tesi minoritaria (ovvero quelli secondo cui l’art. 28 Cost andrebbe modificato se non addirittura eliminato), l’uno e l’altro obiettivo sarebbero di difficile attuazione poiché, il timore costante di una diretta responsabilità per eventuali danni arrecati nell’esercizio delle proprie funzioni (e, si aggiunga anche, il caos normativo in cui il pubblico dipendente deve talvolta sapersi muovere) ha inevitabilmente il potere di influenzare, negativamente, il comportamento dello stesso: così facendo, si genera inefficienza, eccessivo rallentamento nei procedimenti che non permettono, alla PA, di erogare delle prestazioni adeguate verso la propria utenza.

A fronte del dilagare del fenomeno, il legislatore è intervenuto ma, ancora una volta, in modo piuttosto confuso. Infatti, solo con riferimento a tre categorie di lavoratori, è stata prevista la riduzione delle conseguenze dell’art. 28 Cost., limitando le ipotesi di responsabilità diretta del dipendente. Si tratta, nello specifico, degli insegnanti, dei magistrati e dei medici: categorie, queste, in cui vi è grande attesa da parte dell’utenza e, di conseguenza, notevoli rischi.

Con provvedimenti ad hoc, infatti, si è ammesso che in caso di danno a terzi, tali soggetti non rispondano direttamente e, oltretutto, non possano nemmeno essere citati in giudizio. Unico responsabile sarà sempre e solo lo Stato. I provvedimenti in oggetto sono stati oggetto di critiche che, tuttavia, la Corte costituzionale ha inteso sopire ribadendo che «(…) il legislatore può legittimamente emanare norme che limitano la responsabilità diretta dei pubblici dipendenti, anche escludendola in relazione a determinate situazioni oggettive o soggettive» (Corte cost., sent. 64/1992).

L’effetto dei provvedimenti de quibus è stato quello di reintrodurre il regime normativo esistente ante Costituzione: era, infatti, previsto che per tutti gli atti o provvedimenti adottati dal pubblico dipendente in violazione di diritti, era responsabile, verso i terzi lesi, solo ed esclusivamente la Pubblica Amministrazione (fatte salve le ipotesi di condotta dolosa), così ingenerando delle vere e proprie forme di deresponsabilizzazione. Era riconosciuto, in ogni caso, il diritto di rivalsa della PA verso il funzionario agente tramite giudizio davanti alla Corte dei conti (L. Delpino, Responsabilità della P.A. e responsabilità dei giudici alla luce dell’art. 28 Cost., in Scritti in onore di Guido Capozzi, 1992).

4. La posizione della Corte dei conti sul tema del «timore della firma»

La Corte dei conti, come noto, è l’organo di giustizia contabile giurisdizionalmente competente alla cognizione delle controversie relativamente a danni erariali commessi dai pubblici dipendenti nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali. E’ proprio nelle parole di alcuni esponenti di spicco che si trova la smentita di questo fenomeno.

Si riportano, di seguito, due recenti ed importanti interventi sul tema. Il primo del Procuratore regionale presso la Corte dei Conti del Veneto, Paolo Evangelista, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 e, il secondo del Procuratore generale della Corte dei conti Angelo Canale in un convegno tenutosi a luglio 2021 a Madonna di Campiglio (TN).

È doverosa una premessa. Il Decreto Semplificazioni 2021 ha novellato il tema della responsabilità del pubblico dipendente. Il legislatore, ex art. 21 del DL Semplificazioni, ha inteso limitare o escludere (solo temporaneamente, dal 17 luglio 2020 al 31 dicembre 2020, poi prorogato al 31 dicembre 2021) la responsabilità per colpa grave ovvero per danni cagionati da grave imprudenza, negligenza e imperizia di amministratori e/o dipendenti pubblici: di fatto, dunque, limitandola alle ipotesi di dolo.

L’introduzione dell’art. 21 del DL. Semplificazioni, che ha modificato l’art. 1 della L. 20/1994 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), sottende la voluntas legislatoris di prevedere, in capo ai funzionari pubblici, maggiore rischio di incorrere in responsabilità in caso di condotte omissive o inerti (c.d «burocrazia difensiva») rispetto alla tenuta di una condotta commissiva (per la quale, la responsabilità viene limitata al dolo) cercando, in questo modo, di alleggerire il peso della responsabilità.

Il primo intervento che si riporta è quello di Paolo Evangelista, secondo il quale la scelta operata del legislatore suscita delle perplessità.

In primo luogo, «comporterà, a lungo termine, il rischio concreto di un complessivo abbassamento della soglia di «attenzione amministrativa» per una gestione oculata delle risorse pubbliche» e ciò, anche a parere di chi scrive, risulta ancora più preoccupante in vista delle ingenti risorse rese disponibili dal PNRR.

In secondo luogo, continua Evangelista, «Suscita non pochi dubbi la considerazione che, alla base della scelta del legislatore, vi sia il convincimento che il timore di incorrere nella responsabilità amministrativa-contabile determinerebbe la c.d. «paralisi della firma» dei funzionari e dirigenti pubblici, inducendoli a condotte dilatorie ed ostative al valore del «fare» ovvero al perseguimento dell’efficacia, efficienza ed economicità dell’agire pubblico».

In terzo ed ultimo luogo, «(…) non si possono non sottolineare le forti preoccupazioni, esternate dalla Corte dei conti già nel corso dell’audizione sul Disegno di legge di conversione del DL Semplificazioni, che il venire meno del deterrente rappresentato dalla responsabilità erariale potrebbe dar luogo ad atti più disinvolti, con rischi per la stessa legittimità degli atti e delle procedure e, in definitiva, della stessa speditezza dell’azione amministrativa».

La smentita del fenomeno oggetto della presente discussione è sostenuta anche da dati puramente statistici. Infatti, afferma lo stesso Procuratore, «Se si esamina la giurisprudenza della Corte dei conti si può agevolmente constatare che la casistica assolutamente prevalente riguarda danni erariali cagionati da provvedimenti illegittimi sottoscritti e/o da scelte illegittime adottate da amministratori pubblici, quindi conseguenti a condotte commissive e non omissive».

La conclusione a cui giunge Evangelista, assolutamente apprezzabile e fondata, è che le cause che ostacolano l’efficienza e l’efficacia dell’agire della P.A. hanno ben altra origine: la complessa disciplina normativa e regolamentare tra cui divincolarsi (a titolo di esempio, in materia di appalti pubblici), la frammentazione e la sovrapposizione delle competenze ma anche la farraginosità dei processi decisionali sono concause innegabili.

Dello stesso parere è anche Angelo Canale, Procuratore generale della Corte dei conti. Nel convegno, tenutosi a Madonna di Campiglio dal titolo «Pubblica amministrazione e impiego pubblico: prospettive di riforma nel quadro delle iniziative di ripresa del Paese», Canale ha dichiarato che «(…) non si tratta di paura della firma ma, piuttosto, di paura di fare a causa della giungla normativa, della scarsa preparazione e della penuria dei mezzi con cui si devono confrontare le amministrazioni pubbliche e i loro dirigenti e amministratori».

In un’altra occasione, Canale ha sostenuto che «Tuttavia la premessa, ossia il dare oramai per scontato che l’azione amministrativa sia bloccata per la paura del processo contabile e della Corte dei conti, non è dimostrata, non è stata oggetto di alcun serio approfondimento, non è stata supportata da alcuna indagine, né da alcun dato, né sono stati forniti esempi, anche ricavabili ex post da un’analisi delle migliaia di sentenze pronunciate dalle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti, tutte accessibili nella banca dati della stessa Corte dei conti. In verità, illustri studiosi hanno evidenziato che la «paralisi del fare», che esiste e certamente va contrastata, è tuttavia ascrivibile in larga misura alla farraginosità delle regole, alla esondazione o ipertrofia normativa, alla tortuosità dei percorsi decisionali, alla impreparazione della dirigenza o almeno di parte di essa, ad una serie di concause che potremmo cumulativamente qualificare come «cattiva amministrazione» (Intervento al Convegno «La Corte dei conti ai tempi del “Recovery plan: quale ruolo tra responsabilità amministrativa-contabile, semplificazioni e investimenti», organizzato dal Centro di ricerche sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet” dell’Università Luiss “Guido Carli” e dalla Corte dei conti, svoltosi il 25 marzo 2021 in modalità webinar).

5. Conclusioni

Tirando le fila di quanto sopra esposto, pur consapevoli della incompletezza dell’analisi che meriterebbe maggiori approfondimenti, quali conclusioni si possono trarre da questi interventi?

I dati che ci vengono forniti dalla Corte dei conti parlano chiaro: se si analizzano le tipologie delle fattispecie dedotte nei giudizi di responsabilità, nel biennio 2019/2020, spiccano principalmente: fattispecie direttamente connesse alla commissione di reati, frodi comunitarie, casi di assenteismo, i casi dei furbetti del cartellino, mancate entrate tributarie, mancata riscossione di canoni, ecc.

A parere di chi scrive, risulta quanto mai attuale una pronuncia della Corte costituzionale del 1998. Nella sentenza n. 371, il giudice delle leggi ha chiarito che «(…). Nel processo di nuova conformazione della responsabilità amministrativa deve essere valutata positivamente la limitazione della responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, poiché essa risponde all’intento di predisporre, nei confronti dei dipendenti e degli amministratori pubblici, un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzia nello svolgimento dell’attività amministrativa (…) nonché alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato pubblico e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo e non di disincentivo».

Il concetto che emerge dalla sentenza è estremamente importante: in altri termini, ogni intervento legislativo che, in qualche modo, allontani la prospettiva della responsabilità va inevitabilmente ad alterare l’equa ripartizione del rischio, facendolo gravare quasi totalmente sul sistema pubblico e, in definitiva, sulla collettività in generale e, a parere dello scrivente, è ciò che si concretizzerà per effetto dell’art. 21 DL Semplificazioni: come ricordato dal giudice delle leggi, è vero che il legislatore è arbitro nello stabilire quali comportamenti possano costituire titolo di responsabilità, il grado di colpa richiesto ed i soggetti ai quali ascriverla ma, ciò nonostante, deve comunque osservare il limite della ragionevolezza e della non arbitrarietà (Corte cost., sent. n. 411 del 1988).

Fonte: Altalex.com

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