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La guerra del millennio si fa con le monete digitali. In gioco la democrazia

Bitcoin, euro digitale, Diem, eYuan, dollaro digitale. La sovranità dell'Occidente passa da qui

La guerra del millennio si fa con le monete digitali. In gioco la democrazia

Bitcoin, euro digitale, Tether, yuan digitale, Diem, dollaro digitale. E più in generale: criptovalute, Cbdc, stablecoins. Il 2021 è l’anno che sarà r

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Bitcoin, euro digitale, Tether, yuan digitale, Diem, dollaro digitale. E più in generale: criptovalute, Cbdc, stablecoins. Il 2021 è l’anno che sarà ricordato come l’inizio di una vera e propria guerra fra monete digitali che sarà destinata a durare a lungo. Una lotta dura, che da un lato vede le nuove valute private, attuali e future, assaltare quelle tradizionali pubbliche (dollaro, euro, yuan) e quelle tradizionali pubbliche darsi battaglia per colonizzare il nuovo mondo digitale e rubare spazio l’una alle altre. Occupare spazio, sottrarlo agli altri, come fosse un enorme cripto-risiko. La metafora bellica qui è tutt’altro che abusata. Le grandi piattaforme big tech, come Facebook o Amazon, che possono contare su miliardi di clienti, smaniano per cercare la strada migliore per lanciare una propria valuta, capace di andare oltre i confini, per sua intrinseca natura globale, in grado di sottrarre terreno e potere al dollaro o all’euro e di conseguenza agli stati e alle economie del Vecchio e Nuovo continente. Allo stesso tempo la Cina sta correndo in maniera sfrenata per coniare, prima al mondo fra le economie di peso, il suo eYuan, banconota digitale che dovrebbe sia tagliare l’erba sotto i piedi delle multinazionali che vogliono battere moneta sia fare competizione alle currency tradizionali più utilizzate per gli scambi commerciali e che per ora hanno progetti digitali ancora in fase di studio, come euro e dollaro. In entrambi i casi, che sia Zuckerberg, Bezos o Xi il protagonista, il fine ultimo è lo stesso: imporre agli altri la propria moneta come mezzo di pagamento internazionale e quindi condizionare gli scambi commerciali e quindi prendere potere a discapito degli altri stati e quindi condizionarne in qualche modo la sovranità e quindi, alla fine della fiera, diventare un bel problema per le democrazie liberali. La vicedirettrice generale di Bankitalia, Alessandra Perrazzelli, è stata quanto mai chiara al Fintech Talks organizzato da HuffPost: “Parliamo di un fatto importante su cui si gioca la politica monetaria europea, la stabilità del nostro sistema e in definitiva la stessa democrazia del nostro continente”.

Per capire come siamo arrivati a questo punto e soprattutto perché, bisogna fare un passo indietro e partire dalla comprensione del motore che è alla base di ogni comportamento dell’homo oeconomicus: il bisogno. La rivoluzione digitale, l’affermarsi del web su scala mondiale e la globalizzazione sempre più spinta sono i tre fattori che negli ultimi vent’anni hanno fatto nascere una domanda che nel Novecento non esisteva: uno strumento di pagamento semplice, veloce, virtuale, globale che possa essere usato da chiunque, anche chi è sprovvisto di un conto corrente bancario, per vendere e acquistare su internet senza dover sottostare alle mille complicazioni di un mondo analogico. Basta con le lungaggini di un bonifico, basta con le commissioni sui tassi di cambio, basta con i costi delle classiche carte di credito o di debito. Le persone vogliono poter mandare denaro da un lato all’altro del globo terracqueo alla velocità di un click senza essere spennati dagli intermediari o sottostare a mille regole e imposizioni. Da questo bisogno sono nate le criptovalute, monete digitali private che si basano sulla blockchain, fra le quali i Bitcoin sono quelli per ora più diffusi. Bene, si direbbe, problema risolto. E invece no, perché di fatto i Bitcoin non li possiamo considerare dei mezzi di pagamento ma bensì al momento essenzialmente degli strumenti finanziari ossia asset che si comprano e si vendono su diversi mercati con il fine di fare soldi. Speculazione insomma. Questo perché delle tre caratteristiche di base di una qualsiasi moneta (unità di conto, strumento di pagamento e riserva di valore) le cripto sono deficitarie nelle ultime due. Tranne che in El Salvador, i Bitcoin non hanno corso legale in nessun paese: non possiamo pagare le tasse allo Stato né tanto meno andare a prendere un caffè pagando in criptovalute. In più non sono adatte a

settimana all’altra in maniera paurosa, guadagnando o perdendo gran parte del proprio valore. Insomma, io proprietario di cripto un giorno sono ricco, l’altro non riesco manco a pagare una pizza.

Proprio per superare questa estrema volatilità, sono nate le stablecoin ovvero delle criptovalute che sono ancorate a valute reali come il dollaro l’euro o persino a panieri di valute differenti. A esempio Tether, una di quelle più diffuse, ha un valore che  equivale a un dollaro, al netto di piccole oscillazioni. Ed ecco qui che si drizzano le orecchie delle banche centrali: in questo modo le aziende private si avvicinano sempre più a fornire un servizio che per secoli è stato pertinenza esclusiva delle istituzioni pubbliche: dare ai cittadini un mezzo di pagamento stabile basato sulla fiducia che esso non perda valore. Se poi questo servizio finisce per essere offerto da piattaforme big tech che possono contare su un imponente numero di utenti dell’ordine di qualche miliardo come a esempio Facebook, Amazon o Twitter, ecco che l’incubo peggiore per un banchiere centrale prende forma. Non è un caso che la Bce segua molto da vicino il progetto di Mark Zuckerberg di battere moneta, la Diem, nonché è molto attenta su tutti i rumors che parlano di cripto fatte in casa sia dal numero uno dell’e-commerce Jeff Bezos che dal dimissionario fondatore dell’uccellino twittarolo Jack Dorsey. Pensate solo all’enorme potere che potrebbe acquisire Amazon se riuscisse a imporre acquisti e vendite in tutto il mondo tramite una sua valuta: movimenterebbe una massa monetaria enorme che la metterebbe sullo stesso piano di una banca centrale, potrebbe addirittura inficiare le azioni di politica monetaria di una Bce o di una Fed. Il whatever it takes  potrebbe essere meno assertivo fra qualche anno rispetto a quando è stato pronunciato da Draghi nel 2012.

Proprio per questo l’europea Bce, al pari della Fed americana, sta accelerando nello studio di un euro digitale che possa affiancare le vecchie banconote tradizionali ed essere uno strumento adeguato all’infosfera in cui tutti noi viviamo. Una valuta virtuale che possa essere utilizzata anche da chi non ha un conto corrente bancario. “La crescita delle tecnologie private, con l’aumento dell’utilizzo delle valute digitali in mano a imprese e multinazionali private, mette a rischio il valore delle monete nazionali.

. Di fronte a queste trasformazioni la Banca centrale deve fornire ai cittadini un sistema di pagamento nel mondo digitale che rappresenti quello che nel mondo fisico è il contante. Mantenere la sovranità monetaria, anche per tutelare il risparmio dei cittadini, passa da un’evoluzione digitale da parte della Banca centrale”, ha ammesso candidamente Piero Cipollone, vice direttore generale della Banca d’Italia. Peccato però che le tempistiche dell’euro digitale siano ancora da mondo analogico: Fabio Panetta, membro del board Bce, ha fatto sapere che entro il 2023 si prenderà una decisione finale su come renderlo operativo e solo dopo arriverà il primo prototipo, il che vuol dire che prima di 3-4 anni non si arriverà a traguardo. Date che coincidono più o meno con quelle programmate dalla Fed. Peccato però che invece c’è chi è più avanti: la Cina ha annunciato la nascita dello e-Yuan per l’anno prossimo.

E qui si arriva al secondo campo di battaglia della guerra valutaria del nuovo millennio: quello in cui non competono multinazionali e stati ma sono i singoli stati a voler primeggiare. Imporre la propria moneta come standard di pagamento internazionale negli scambi commerciali non è di poco conto. E’ uno dei modi più antichi per ribadire il proprio potere e per condizionare le economie dei paesi costretti ad adeguarsi. Non a caso l’età dell’imperialismo britannico nel diciannovesimo secolo coincise con il dominio della sterlina e quella dell’egemonia americana nel ventesimo con lo strapotere del dollaro. Pechino lo sa bene e infatti vuole cercare di colmare parte del gap portandosi avanti con lo Yuan digitale: se la valuta digitale cinese diventerà il mezzo di pagamento più diffuso nei prossimi anni a livello mondiale, saranno dolori per europei e americani. L’Occidente potenzialmente rischia di perdere un bel pezzo di sovranità monetaria, che poi alla prova dei fatti significa sovranità tout court. E perdere sovranità a favore di uno stato totalitario si traduce in un pericolo immediato per la democrazia. Corrado Passera, banchiere di lungo corso ed ex ministro, a Fintech Talks è stato lapidario, invitando ad agire, adesso: “La Cina è pronta, noi europei non possiamo restare indietro”. Il rischio dietro l’angolo è di far la fine di quelle economie in cui la vera moneta buona, quella solida e più cercata dai cittadini, non è quella nazionale ma quella straniera: in altri termini è quello che succede a Cuba, dove la popolazione è alla ricerca di dollari ed euro mentre usa il peso solo per i piccoli acquisti interni; oppure senza andare troppo lontano è quello che accade in Montenegro o in Albania, dove i commercianti sono contenti di fare grandi sconti a chi acquista in euro invece che in valuta locale. Insomma, essere succubi da un punto di vista monetario è l’equivalente economico di avere un esercito e una tecnologia militare più obsoleta del proprio avversario. All’Europa, e all’Occidente in generale, non resta quindi che investire in tecnologia finanziaria, mantenere la propria supremazia valutaria e impedire che qualcuno (leggi Cina) rimpiazzi dollaro ed euro sui mercati internazionali. Del resto i romani lo sapevano da quel dì: si vis pacem para bellum.

Fonte: Huffpost

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