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Come Nestlé è diventata la multinazionale più odiata del pianeta

Come Nestlé è diventata la multinazionale più odiata del pianeta

Alimenti per l’infanzia, cereali da colazione, dolciumi vari, acqua in bottiglia, caffè e tè, gelati, cibi surgelati, gelati, snack e cibi per animali

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Alimenti per l’infanzia, cereali da colazione, dolciumi vari, acqua in bottiglia, caffè e tè, gelati, cibi surgelati, gelati, snack e cibi per animali domestici. Potremmo continuare ancora con l’elenco, ma in realtà basta aprire le credenze di casa per capire che Nestlé è davvero una multinazionale che ha a che fare con una lista quasi infinità di alimenti. Controllando le etichette vi sorprenderete di quanti prodotti diffusi con i marchi più diversi riportino in piccolo, da qualche parte della confezione, la Nestlé come casa madre. Fondata in una piccola località della Svizzera francese di nome Velvey, nel lontano 1866, la ditta costruita dal farmacista Henry Nestlé è diventata un colosso di enormi proporzioni nonché – probabilmente – la multinazionale più odiata e boicottata del pianeta. Un primato che, come vedremo, non è nato affatto per caso.

Dovreste averne sentito parlare tutti almeno una volta nella vita: voi o qualcuno che conoscete avrà sicuramente comprato il Nesquik in polvere, che dà al latte un gusto cioccolatoso. È solo uno degli innumerevoli esempi che potremmo farvi per dimostrarvi che in realtà questa azienda vi ha accompagnato inconsapevolmente sin dai primi passi della vostra vita. Il suo successo è stato praticamente immediato e ha continuato a crescere nel tempo: almeno 30 dei suoi marchi (su più di 8mila) hanno un fatturato di oltre 1 miliardo di dollari all’anno. Dal momento della sua nascita, avvenuta circa a metà ‘800 in Svizzera, sono sorti quasi 500 stabilimenti in 194 paesi diversi, che ad oggi danno lavoro a circa 330mila persone.

Numero totale di dipendenti Nestlé nel mondo dal 2008 al 2021 (in migliaia)/Fonte Statista

Tra le altre cose l’azienda è spesso stata elogiata per il trattamento riservato ai propri dipendenti (alcuni fra quelli italiani, ad esempio, quest’anno hanno ricevuto più di 2.500 euro come bonus riconoscimento per il lavoro svolto) e per le attività e i progetti messi in campo per raggiungere obiettivi di sostenibilità più alti. Tuttavia questa panoramica generale su Nestlé sarebbe incompleta se non vi raccontassimo dell’altro lato della medaglia, quello che si fa più fatica a scovare. È vero che tendiamo spesso a giudicare negativamente delle aziende solo perché rivestono il ruolo di multinazionali: diamo per scontato che inquinino, che non rispettino certi standard e che si basino sullo sfruttamento. Ma in questo caso non possiamo che dar ragione ai nostri giudizi, soprattutto perché si basano su ragioni concrete. Cominciamo dalla prima, in questo periodo di siccità più attuale che mai.

L’acqua non è per tutti

Non è così risaputo, ma Nestlé ha un primato: è il più grande produttore mondiale di acqua in bottiglia con 95 stabilimenti produttivi in 34 Paesi, che raccolgono circa una cinquantina di marchi (in Italia è presente tramite Gruppo Sanpellegrino). In merito a questo Peter Brabeck-Letmathe, Presidente emerito, ex presidente e CEO del gruppo Nestlé aveva ribadito agli inizi della sua carriera in azienda di non considerare l’acqua come bene pubblico, bensì una risorsa che pochi devono accaparrarsi e trasformare in merce vendibile («come essere umano dovresti avere il diritto all’acqua? È una soluzione estrema»). Anche se lo stesso Brabeck ha ritirato le sue dichiarazioni dopo l’aggressione mediatica ricevuta, sembra invece che il pensiero di Nestlé sia rimasto lo stesso.

Neppure la siccità è riuscita a mettere un freno all’imbottigliamento compulsivo. Uno dei casi più recenti e più eclatanti riguarda la California, che in particolare nelle settimane in corso sta vivendo la peggiore siccità degli ultimi 1200 anni. Tant’è che anche la multinazionale del caffè Starbucks ha annunciato il trasferimento del suo impianto di imbottigliamento di acqua “Ethos” dalla regione alla Pennsylvania. Nestlé invece ha deciso di rimanere, continuando a danneggiare uno Stato che in passato aveva già prosciugato. Nel 2019, ad esempio, il letto del torrente californiano Strawberry Creek era completamente asciutto e le sorgenti da cui sgorgava acqua si erano ridotte a piccoli rivoli. Nel 2018 Nestlé gli aveva sottratto 45 milioni di litri di acqua per riempire le bottiglie di Arrowhead Water, ricavando profitti per più di 7 miliardi di dollari. Come gliel’hanno permesso?

Indagini successive hanno rivelato che la multinazionale ha di fatto corrotto per anni il servizio forestale statunitense per non dover dichiarare tutte le proprie attività (ma che di fatto hanno gravemente danneggiato il torrente). Ovviamente Nestlé ha sempre affermato il contrario, ribadendo che le autorizzazioni per usufruire dell’acqua del fiume erano regolari (per cui l’azienda paga meno di 600 dollari l’anno). Non si sa bene quanta acqua attualmente sia stata sottratta – Nestlé non divulga mai queste informazioni – ma la cifra potrebbe aggirarsi attorno al miliardo di galloni all’anno (un gallone equivale a quasi 4mila litri).

Alcuni dei marchi di acqua minerale proprietà di Nestlé

Tali abusi non si verificano solo in America. C’è ancora un altro esempio che possiamo riportare, più grave se considerato che coinvolge una parte del mondo che vive in grosse difficoltà economiche. Si tratta del Pakistan, dove il livello dell’acqua è drasticamente sceso da quando l’azienda utilizza le acque del territorio per riempire le sue bottiglie a marchio Pure Life. Le risorse idriche vengono prelevate e rivendute (oltre che al resto del mondo) alle stesse popolazioni, che per bere acqua potabile sono costrette a pagarla. Quello che rimane nelle falde, infatti, è spesso contaminato e pericoloso. A Bhati Dilwan, una piccola comunità pakistana, un politico ha detto che molti bambini si stanno ammalando proprio per questo motivo: «L’acqua non è solo molto sporca, ma il livello dell’acqua è sceso da 100 a 300 a 400 piedi». Questo succede perché l’acqua sotterranea non è inesauribile, e la sua cattiva gestione può alterarne la quantità.

Lo scandalo del latte in polvere

Collegata all’acqua c’è la questione del latte in polvere. A partire dagli anni ’70 Nestlé ha portato avanti una massiccia pubblicità – soprattutto nei paesi più poveri – per convincere la gente che il suo latte in polvere avesse quasi le stesse proprietà nutritive di quello materno. La strategia della multinazionale è andata oltre, tant’è che l’azienda in quegli anni ha inviato negli ospedali dei paesi in questione dei suoi rappresentanti vestiti da infermieri, con lo scopo (a detta di Nestlé) di “assistere” le neomamme impossibilitate o in difficoltà ad allattare al seno, offrendo loro anche dei campioni gratuiti di latte in polvere da provare (con le istruzioni in inglese e non nella lingua locale dei paesi).

A parte l’inganno di far credere che i due latti fossero equivalenti, in apparenza non c’era nulla di estremamente pericoloso nella strategia di Nestlé. In realtà ci si è presto accorti del problema: per la preparazione del latte stesso era necessario utilizzare l’acqua, che in quelle zone non è sempre sicura e potabile. Sarebbe bastato farla bollire per arginarne la pericolosità, ma molti dei genitori a cui Nestlé si rivolgeva non ne erano a conoscenza o non avevano nemmeno una pentola o un bollitore. Secondo le stime di UNICEF un bambino che viene nutrito con latte artificiale e che vive in condizioni igieniche non adeguate, ha tra le 6 e le 25 volte più probabilità di morire di diarrea e quattro volte più probabilità di morire di polmonite rispetto a un bambino allattato al seno. Le percentuali aumentano se si pensa che, per far durare di più il prodotto (perché costoso), le madri lo diluivano con molta più acqua del previsto, nutrendo allo stesso tempo il bambino con una quantità di latte inadeguata. Qualcuna, una volta scoperto l’inganno, ha provato ad allattare il piccolo al seno: tuttavia una riconversione dal latte artificiale è risultata praticamente impossibile.

La vicenda non è passata inosservata. In tutto il mondo, intorno agli anni ’80, sono partiti massicci boicottaggi, che hanno costretto la multinazionale a sospendere la campagna marketing con i finti infermieri, pur continuando a sostenere l’eticità del proprio modo di farsi pubblicità. Un’opposizione che continua ancora oggi in diversi paesi e per mano di diverse organizzazioni, ma Nestlé ha ribadito di essersi adeguata alle normative dell’OMS. Anche in questo caso, come abbiamo detto prima per l’acqua, non è facile sapere quanti bambini abbiano perso la vita o si siano ammalati. E forse non si saprà mai.

Parola d’ordine? Sfruttamento

Ritorniamo ancora (purtroppo) a parlare dei più piccoli. Come abbiamo detto all’inizio di questo pezzo, Nestlé deve la sua fama anche a snack e dolciumi, notoriamente ricchi di cioccolato. Quella del cacao è una fava che arriva da lontano e, a meno che non si tratti di marchi di un certo tipo ed espressamente etici, è molto probabile che la sua produzione e raccolta sia frutto del lavoro di persone schiavizzate e sottopagate. E minorenni.

È vero che Nestlé non è l’unica azienda coinvolta in questo “giro”, ma in qualità di grossa multinazionale conosciuta in tutto il mondo, avrebbe il dovere di assicurarsi che dietro alla sua produzione non ci siano bambini sfruttati (e neppure adulti) che trascorrono le giornate ad armeggiare un machete, a spruzzare pesticidi o trasportare pesanti carichi per qualche centesimo. È un impegno che l’azienda (insieme ad altre come Mars) si promette di raggiungere da almeno vent’anni. Ma puntualmente allo scadere del tempo, la data finale si sposta un po’ più in là e le verifiche che ci si aspetta non arrivano mai.

 

Emblematico è il caso di otto bambini del Mali che nel 2005 hanno accusato alcune multinazionali del cioccolato– tra cui Nestlé – di essere perfettamente a conoscenza di quanto avviene nelle piantagioni di cacao in Costa d’Avorio. Gli stessi hanno dichiarato inoltre di essere stati “adescati” in età pre adolescenziale con la promessa di un lavoro dignitoso in quei campi e con uno stipendio da 34 sterline al mese. Così non è stato.

“È impossibile sapere da dove arrivano esattamente i nostri prodotti” è una delle giustificazioni più utilizzate dalle aziende per sopperire alla mancanza di controlli. Tuttavia non dovrebbe essere così complesso, dal momento che nessuno impedisce a giornalisti, investigatori o qualsiasi altra figura di accedere a questi luoghi dell’Africa occidentale e porre un paio di quesiti a chi di dovere.

Alla fine del processo intentato dagli 8 bambini, la Corte Suprema ha respinto il loro caso, stabilendo che le pratiche internazionali non possono essere giudicate dalle leggi americane. Ma qui le leggi c’entrano fino ad un certo punto.

Non dimentichiamoci dell’impatto ambientale

Il danno non è solo quello subito dalle persone. Come capita fin troppo spesso alle grandi aziende, Nestlé è stata protagonista di diversi disastri ambientali. Nel 1997 il Regno Unito ha segnalato sul suo territorio che i livelli di inquinamento avevano superato il tetto massimo per più di 2mila volte in 830 località, a causa dell’operato di industrie come Nestlé. E la situazione era peggiore in posti come la Cina e peggiora tutt’ora più in generale in Asia.

 

Qui la multinazionale ha spostato molti dei suoi affari in seguito all’interessamento di sempre più europei e americani nella protezione dell’ambiente e che passa, ad esempio, dalla ricerca di fonti idriche più sostenibili. Al contrario, a Shanghai la Nestlé Sources Shanghai Ltd ha avviato le pratiche per l’inizio della sua attività prima ancora che i suoi impianti di trattamento delle acque reflue avessero avuto l’ok dalla valutazione di impatto ambientale. Per non parlare dell’inquinamento da plastica.

Secondo il rapporto del 2020 di “Break free from plastic”, Nestlé occupa la quarta posizione nella classifica delle multinazionali meno virtuose (dopo Coca-Cola, Pepsi e Unilever). 11mila volontari appartenenti a Greenpeace, GAIA e Zero Waste, hanno avviato operazioni di pulizia in 45 paesi dei sei continenti, recuperando grandi quantità di spazzatura, fra cui 330mila pezzi di plastica – soprattutto imballaggi monouso.

Fonte: Indipendente.online

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