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LA FINE DI UN MONDO – IN MORTE DELLA GLOBALIZZAZIONE

A cura della Dott.ssa Paola Bergamo

LA FINE DI UN MONDO – IN MORTE DELLA GLOBALIZZAZIONE

Per gentile concessione del Nuovogiornalenazionale.it Ho scritto un articolo sul ritorno alla Storia della Germania. In verità è il mondo che sta t

Cina e Stati Uniti: lo scontro economico
Algeria: antisemitismo mascherato da interesse nazionale
Frenemies nel Golfo. Riad e Abu Dhabi in fase complicata

Per gentile concessione del Nuovogiornalenazionale.it

Ho scritto un articolo sul ritorno alla Storia della Germania. In verità è il mondo che sta tornando alla Storia. Il genere umano ha sempre avuto dei momenti spartiacque, ma tra un periodo e l’altro sono passati lunghi lassi di tempo. La nostra generazione ha vissuto un  “periodo storico” che è stato velocissimo e che ha le sue origini nel crollo del muro di Berlino e si è chiuso con la Presidenza Trump. Questo periodo ha un nome e quel nome è “globalizzazione” nella sua accezione economica. Parlo di accezione economica perché in geopolitica la globalizzazione è il controllo dei mari sui quali viaggiano oltre il 70 per cento delle merci. Quest’ultima è prerogativa degli USA che controllano tutti gli stretti o passaggi obbligati per la navigazione. Almeno allo stato dei fatti.

La globalizzazione economica nasce dagli attori principali finanziari che realizzano la possibilità di nuovi mercati e economie in crescita che di fatto erano costituiti dai Paesi appartenenti all’ex blocco sovietico o comunque legati all’ideologia comunista. In un altro articolo spiegavo come quella stessa ideologia costituisse un freno ad una forma di capitalismo esasperato e ultraliberista.

Il mondo si è trovato privo di nemici, in Russia vi era la rivoluzione liberale di Eltsin e la Cina apriva alle riforme sulla proprietà privata. Il disegno alla base non era complottista, ma semplicemente la possibilità di fare del mondo un mercato globale per espandere le economie e i profitti. Generalizzando la visione che ha sedotto anche la politica era quella di un mondo in pace, prospero e felice. Ovviamente il processo ha coinvolto banchieri centrali, le grandi multinazionali e quindi i grandi fondi di investimento che per loro natura erano più interessati al profitto che non al progresso sociale.

L’elemento fondamentale di questo processo dal punto di vista economico fu la predisposizione di meccanismi di marca liberista, avvenuta negli anni 90 e di cui Clinton fu il Campione. Un indirizzo che si tradusse nelle grandi privatizzazioni e nel processo di delocalizzazione delle imprese, libere di insediarsi nel mondo secondo criteri di economicità e convenienza. Si realizzò così lo spostamento dell’industria verso l’Asia. Un fatto che avrà grandi ripercussioni in tema di ambiente e soprattutto inciderà sui redditi della classe lavoratrice e più in generale della classe media. Una visione globale, in cui la ricchezza usciva dai confini nazionali. Il Mercato veniva elevato ad entità sovranazionale in grado autoregolamentare i processi e i valori materiali. In sostanza una Repubblica Globale del Mercato. Almeno questo è stato il concetto generale che è stato propagandato.

Mentre il governo degli Stati dismetteva assets pubblici anche rilevanti , nel nome di questa Repubblica Globale e quindi privandosi anche di fonti di gettito per le economie locali (pensate solo al comparto SME), subendo l’ulteriore depotenziamento con una serie di legislazioni atte ad impedire il suo intervento come  ad esempio la disciplina sul divieto agli aiuti di stato (considerate alterazioni del mercato e punite con sanzioni nel contesto europeo) , si procedeva parallelamente ad una sistemica deregulation anche di quelle regole che erano proprie del mercato e persino del mercato quotato. Per fare un esempio concreto, in Italia le Offerte Pubbliche di Acquisto nei mercati azionari avevano come condizione quella di possedere la liquidità necessaria all’acquisto. Nella vicenda Telecom Italia quel principio fu violato, con il risultato che la quinta compagnia di telefonia al mondo oggi è una pallida promanazione di ciò che era un tempo. Per precisione va detto che non tutte queste scelte furono obbligate. Ad esempio mentre In Iatlia fu smantellato il sistema delle casse di risparmio (con partecipazioni pubbliche) che con tutte le loro criticità rappresentavano uno strumento per lo sviluppo del territorio garantendo l’accesso al credito, in Germania quel sistema tutt’ora esiste (le sparkasse) .

Una finanza sintetica imperversò sui mercati inondandoli di prodotti ai limiti della legalità come alcuni tipi di derivati.  Qui si innescarono dei processi naturali nella dimensione economica , ma che non tengono conto della dimensione sociale. Le imprese, le strutture finanziarie hanno uno scopo che è sancito persino nel loro atto costitutivo ed è lo scopo di lucro, ossia la massimizzazione dei profitti. Questo ha portato a preferire i grandi investimenti ad alto rendimento, se vogliamo speculativi. La conseguenza è stata una concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi uomini. Quasi un terzo della ricchezza mondiale è detenuta da tre fondi di investimento dei quali il più noto è BlackRock e ognuno di loro partecipa nel capitale degli altri due. Queste strutture non sono ideologizzate, semplicemente fanno il loro lavoro che è generare il massimo profitto.

Il grande mediatore degli interessi tra le parti sociali, ossia lo Stato attraverso la politica, risultava svuotato per i motivi sopra elencati e la conseguente debolezza lo ha reso incapace di svolgere la sua funzione. I partiti del lavoro nel mondo, non potendo (o non volendo) svolgere più alcuna funzione di garanzia sociale si sono riciclati nei partiti dei diritti arrivando ad adottare anche pseudo culture assai discutibili, come la Cancel Culture o il gender fluid, per carità anche legittimi, ma con risvolti sociali non indifferenti. Dismettere la difesa della famiglia significa rinunciare all’INPS o alla sanità.

Questi processi hanno generato una serie di frizioni interne alle società che si impoverivano progressivamente. La crisi più famosa di questi processi fu quella dei subprime, che di per sé sono prodotti finanziari, ma, come dichiarò il Presidente della Banca d’America, divennero lo strumento per generare reddito finanziario per la working class in virtù del livellamento salariale sul modello asiatico, con un costo della vita rimasto occidentale.

Va fatta una precisazione, la progressiva marginalità dello Stato fu un fenomeno particolarmente incisivo (anche se con diverse gradazioni) nell’Europa continentale per il modello di sviluppo liberal-social democratico che le era proprio, fatto a cui si aggiunse il progressivo trasferimento di alcune sue prerogative all’Unione Europea. Questo non è avvenuto in America, dove il modello liberista anglosassone comportò un minore impatto sociale che pure , come abbiamo visto vi fu (ma che ebbe anche una risposta importante a livello federale con Obama, ovviamente calibrata su un’economia molto più dinamica di quella italiana), e con uno Stato attento a non privarsi del potere di indirizzo e controllo. Non è un caso che, ad esempio in Italia, si è passati da un concetto di governo (ossia le grandi politiche industriali influenzate e supportate dallo Stato), al concetto di governance (ossia a scelte determinate solo in base al profitto). Ora lo scrivente deve rilevare che anche nell’America più liberista, l’intervento del governo a supporto dell’industria c’è sempre stato, idem in Francia o Germania, solo nella nostra follia collettiva si poteva arrivare a concettualizzare una asineria di rare proporzioni come questa in contrapposizione al concetto di “governo”. Eppure nelle ultime decadi, la “governance” è stato il mantra professato dai grandi analisti e persino da qualche politico che passava repentinamente e spudoratamente dalla teoria dell’economia di piano a scrivevere libri sulla via liberista, scopiazzando tra l’altro dalle pubblicazioni della Lodon businnes school (ovviamente incurante della specificità del modello di sviluppo italiano composto da piccole medie imprese).

A livello internazionale dobbiamo tenere presente che la Cina era vista come un Paese in forte sviluppo economico e in cammino per una progressiva democratizzazione; non a caso fu fatta entrare subito nel WTO. Non fu così per la Russia che nel frattempo aveva visto l’ascesa di Putin il quale annullava le privatizzazioni nei settori chiave come quello energetico e non faceva mistero di aspirare ad un ritorno alla potenza.

Tuttavia la Cina era e rimane una Nazione dominata dal partito unico, una Nazione in cui la democratizzazione non è mai avvenuta. La potenza economica della Cina odierna è stata creata da una classe dirigente occidentale (politici, banchieri, finanzieri) che evidentemente non aveva mai letto un libro di storia. Quando Obama fu eletto, nel suo discorso di insediamento disse “dobbiamo creare l’uomo nuovo… un uomo privo di passato” , questo mentre in Cina il partito comunista rivendicava la tradizione dell’Impero Celeste dichiarandosi erede. Parimenti è avvenuto in Russia e anche nei Paesi ex Patto di Varsavia. Putin si ritiene il successore di Pietro il Grande, ma anche in quelle Nazioni oggi appartenenti alla UE e alla NATO la storia è più che presente negli uomini. Un esempio per tutti. Alla fine del secondo conflitto mondiale i confini della Polonia furono spostati verso occidente, a scapito della Germania, per annettere alcuni territori a quella che era la vecchia URSS. Durante un convegno di Limes in cui vi era una cartina del mondo ante seconda guerra mondiale, l’Ambasciatore polacco si soffermò a guardarla e disse “Questa è la vera Polonia!”

Quando fu eletto Trump , Obama (a cui va il merito di una legislazione più stringente a livello bancario e di una riconversione di larga parte del tessuto industriale dai settori tradizionali, all’alta tecnolgia) capì che questo periodo storico era alla fine e lo disse chiaramente “siamo alla fine di un mondo”. Così non per la Cina che nel 2016 durante il vertice a Davos si propose con il suo segretario Xi Jinping, il quale pronunciò un discorso a favore della globalizzazione anche in funzione delle vie della seta che l’avrebbero dovuta proiettare fuori dai suoi confini. Ben presto si renderà conto che lo scivolo industriale e finanziario sarebbe stato interrotto e muterà anche l’atteggiamento cinese. Una nuova politica protezionistica iniziata con Trump e che continua con Biden, ci dà il segno di una trasversalità che non attiene ai partiti, ma ad una svolta strutturale.

La ratio di questo mutamento è geopolitica e politica, fattori che in America prevalgono persino sui grandi interessi economici (una lezione che noi europei dovremmo capire). L’America non ragiona secondo schemi provinciali o ideologici (al contrario è molto pragmatica nelle scelte) e la globalizzazione la stava portando in una crisi economica e sociale che è l’unica vera minaccia al suo ruolo di superpotenza, ossia una possibile crisi interna. Per essere più chiari il fenomeno “Trump” che culminò con l’assalto al campidoglio – fatto in sé gravissimo – è stato il segnale di un profondo disagio sociale. Parimenti comprendeva che la teoria della Repubblica Globale non solo era debole, ma era sfruttata dalle potenze emergenti o di ritorno. Si troverà perciò a contenere l’aggressività Russa e Cinese che “dell’uomo nuovo senza passato” non ne hanno e non vogliono sentirne parlare, al contrario pensano a se stesse in termini di imperi storici. La competizione che ne scaturirà la vediamo anche oggi: invadono finanziariamente e militarmente il continente africano e altre zone del mondo nel tentativo di competere con gli Stati Uniti.

La pandemia decreta ufficialmente la fine della globalizzazione. Il tessile americano che faceva produrre le camicie in India e i bottoni in Pakistan, subisce in quel periodo un calo del 90%. Ho descritto la globalizzazione anche come uno dei fattori dei problemi ambientali. Immaginate secondo lo schema sopra descritto il numero di containers che per nave viaggiavano lungo i mari. Oggi la tendenza globale è di localizzare le filiere produttive, per evitare guerre, pandemie e sanzioni.

Dal mondo globalizzato siamo tornati al concetto di internazionalizzazione che ha in re ipsa il concetto di Nazione. Non è detto che sia un male. Comunque sarà un processo non uniforme, lento e doloroso e come vediamo tutti i giorni, non privo di conseguenze proprio perché i grandi cambiamenti sono naturalmente destabilizzanti dello status quo.

Ulteriormente è un mondo fuori assetto perché molti dei processi avviati dalla globalizzazione non si possono fermare spingendo un bottone e spesso la politica, soprattutto in Europa, fa fatica a capire i cambiamenti. Persino l’UE, che ritengo indispensabile come struttura sovranazionale per confrontarsi con il mondo, forse per un eccesso di burocrazia e/o di regole, è in ritardo nella comprensione e soprattutto nella risposta ai mutamenti che si susseguono velocissimi.

Tanto è cambiato in questi trent’anni, a partire dalla tecnologia. Oggi abbiamo un mondo virtuale che si sovrappone alle strutture persino statuali. Abbiamo strade virtuali che corrono per tutto il globo, alle monete delle banche centrali si affiancano i bitcoin, alle piazze i forum. Anche qui l’Europa è in ritardo, non sapendo bene come intervenire per evitare cortocircuiti. Il mondo virtuale è gestito da poche aziende private ( e fatto grave, nessuna delle quali in Europa) che ci rappresentano attraverso l’acquisizione dei dati, e le nostre vite sono tradotte da algoritmi che producono nuovi algoritmi in grado di influenzare e persino predire. Questa civiltà dell’algoritmo può essere un rischio per la democrazia e gli Stati. Non è un caso che in America si stia studiando e promulgando una legislazione per regolamentare l’uso dei social o che il Vaticano promuova eventi sull’etica dell’algoritmo.  L’Italia, rappresento, è stata già oggetto di tentativi esterni di alterazione del consenso interno attraverso questi meccanismi. E’ seccante che, nella cartina alle spalle dell’amministratore della società che si era resa protagonista, la nostra Nazione era l’unica europea insieme al terzo mondo e ad alcuni Paesi in via di sviluppo nel Sud America.

Il fallimento della globalizzazione e la conseguente inversione del processo da globale ad internazionale unitamente ad una rivoluzione virtuale priva di regole e che procede in senso contrario programmando un metaverso dai risvolti inquietanti, sono i maggiori fattori del disequilibrio interno e negli assetti mondiali.

Questo articolo non pretende di spiegare in maniera esauriente la globalizzazione e tanto meno il mondo con le sue contraddizioni. Tuttavia penso che non si possa essere contro la globalizzazione e contemporaneamente contro i vari Davos, WTO, World Economic Forum. Ma la svolta green è stata decisa a Davos? No per certo e poi non si può essere contro tutto. Il vero problema è l’assenza della politica o la sua intrinseca debolezza soprattutto a livello Europeo e specificatamente in Italia. Una classe dirigente degna di questo nome avrebbe potuto contenere i danni sociali ed economici della globalizzazione, basta guardare ai nostri vicini. Nazioni solide al loro interno (ricordate il discorso sui social e compagnia?) e unite, in quelle sedi possono contare. Non bisogna dimenticare che il ritorno alla Nazione comporta risvolti anche pericolosi in termini di conflittualità e personalmente ritengo sia importante il recupero degli organismi sovranazionali quali l’ONU che sono propri di questa dimensione. In ogni caso il ritorno ad un mondo internazionale è un ritorno alla Storia e al nostro essere entità incarnate appartenenti a una comunità fisica.

La pandemia o il terremoto in Turchia ci hanno ricordato che molte delle nostre sovrastrutture sono fragili di fronte alla natura e alla storia. Quest’ultima si riappropria della contemporaneità (da quell’uomo immaginato senza passato) anche con la guerra in Europa, in luoghi dove la storia è conosciuta e ricordata con faide infinite. Una guerra che di colpo ci rende consapevoli dell’artificialità nella quale siamo vissuti e vorremmo continuare a vivere, salvo che la storia stessa, intesa come infinita catena di eventi e accidenti, ma pur sempre catena nel segno della continuità, alla fine ci presenterà il conto.

Paolo Falconio

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