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Il mondo unipolare a guida americana è già un ricordo

Il mondo unipolare a guida americana è già un ricordo

L’idea di fondo della globalizzazione era quella di allargare, approfondire e accelerare l’interconnessione, a livello mondiale, tra tutti gli aspetti

A Roma si terrà un evento nato dalla Fondazione di Studi Internazionale e Geopolitica: “Brics e il nuovo ordine mondiale”
BRICS a vital role for global governance
Lo status e il ruolo dei paesi BRICS nella governance globale

L’idea di fondo della globalizzazione era quella di allargare, approfondire e accelerare l’interconnessione, a livello mondiale, tra tutti gli aspetti della vita sociale contemporanea. Un fine all’apparenza nobile, ma che nasconde negli stessi principi ispiratori la propria deriva. Si tratta di linee guida comuni a tre istituzioni chiave della politica economica mondiale con sede a Washington: Fondo Monetario Internazionale (FMI), Banca mondiale e Tesoro degli Stati Uniti. Tali principi sono conosciuti con la formula Washington Consensus e consistono in disciplina fiscale, priorità della spesa pubblica, investimenti diretti esteri, liberalizzazione degli scambi, privatizzazione e deregolamentazione. Aspetti naufragati con facilità nei loro mali, tra cui la riduzione della spesa sociale e una concorrenza tutt’altro che perfetta, basata su una corsa al ribasso che apparentemente agevola il consumatore,
arricchisce l’imprenditore ma aliena chi produce in prima linea, traducendosi in ritmi estenuanti e paghe irrisorie. L’ossimoro a cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni, quello di una globalizzazione a senso unico lungo la direttrice Occidente-Oriente, mostra diversi segni di cedimento. La globalizzazione è morta, direbbe Nietzsche. Ma non siamo avventati e partiamo dalla fine.

Lo spartiacque delle sanzioni alla Russia

Il termine globalizzazione appare per la prima volta nel 1962, in un articolo della rivista Spectator. Da quel momento sono stati in centinaia gli esperti pronti ad analizzare il fenomeno; tra questi, Fernand Braudel – esponente della scuola storica francese della rivista Les annales – che studiando gli albori del capitalismo nella società del Cinquecento e del Seicento ha messo in luce il carattere strutturale delle interdipendenze che il commercio internazionale (uno dei capisaldi della globalizzazione) portava con sé e dei legami che così si venivano a creare tra differenti nazioni e aree geografiche. Da questi presupposti, introdusse il concetto di “economia mondo”, ovvero un’economia non necessariamente caratterizzata da un’estensione egalitaria su scala planetaria, ma relativa a uno spazio geografico interdipendente, al cui interno emergono un centro dominante, delle zone intermedie e delle aree periferiche. Immanuel Wallerstain, allievo di Braudel, sostenne l’idea di una centralità europea a partire dal XVI secolo, intorno alla quale gli altri paesi del mondo si posizionavano. Con la Prima guerra mondiale e soprattutto con la Seconda, la centralità è sbarcata oltreoceano, negli Stati Uniti. Dopo il 1945, il dollaro ha definitivamente staccato la sterlina, posizionandosi come valuta principale e dando vita al sistema-dollaro. La ricostruzione dei paesi europei attraverso i fondi del Piano Marshall ha rappresentato l’entrata definitiva degli Stati Uniti nell’economia continentale, dopo decenni di politica isolazionista e piccoli interventi successivi alla Prima guerra mondiale. Oggi Washington è la prima economia mondiale, con un PIL nominale di 19,42 mila miliardi di dollari (circa il 25% della produzione totale), seguita dalla crescita esponenziale della Cina che in circa tre decenni è arrivata a registrare un PIL nominale di 11,8 mila miliardi di dollari.

 

Tuttavia, il sistema globale così strutturato – con un centro e delle periferie – sta vacillando. Crisi finanziaria, pandemia da Covid-19 e, in ultimo, la guerra in Ucraina hanno evidenziato e mostrato le sue fragilità al mondo, che sembra aver recepito il messaggio e cambiato direzione. Non a caso, il fronte delle sanzioni avanzate dall’Occidente nei confronti della Russia è risultato essere diviso, sia per quanto riguarda una parte dei paesi europei, sia per quelle regioni considerate “amiche”, o comunque influenzabili, dagli Stati Uniti: America Latina e parte del Medio Oriente nonché dell’Asia. Ciò vuol dire che gli “alleati” non sono più disposti a seguire ciecamente chi detta le direzioni politiche ed economiche, piuttosto desiderano sedersi al tavolo élitario e rivedere le condizioni degli accordi che li riguardano personalmente. La scelta di non unirsi alle sanzioni non dovrebbe stupire, vista la volontà di diversi stati di mantenere rapporti sia con gli Stati Uniti sia con la Cina, che di recente ha definito inefficaci le contromisure economiche avanzate dall’Occidente nei confronti della Russia e ha implementato le importazioni di greggio da Mosca del 55% rispetto all’anno scorso. È dunque il momento della riflessione sul proprio futuro, soprattutto alla luce dei diversi studi che prevedono il soprasso di Pechino ai danni di Washington come maggiore economia mondiale entro la fine del decennio.

Il ruolo dei “paesi non allineati”

La riflessione non nasce esclusivamente dal conflitto in Ucraina o dalle previsioni riguardanti la Cina, dunque da fattori esterni. Si tratta anche e soprattutto di un processo interno a decine di Paesi – definiti “non allineati” durante la Guerra Fredda perché contrari all’idea di schierarsi con una potenza e tagliare i rapporti con l’altra – dove le promesse occidentali riguardo i benefici della globalizzazione sono maturate non trasformandosi in realtà. Da anni, diversi Paesi in via di sviluppo stanno cercando di rivedere gli accordi relativi all’esportazione dei propri beni, spinti da una maggiore consapevolezza circa le proprie risorse – per natura limitate – la cui lavorazione comporta spesso gravi conseguenze per l’ambiente. A questo fine nobile, si affiancano la speculazione e la decisione di non svendere più i propri beni in cambio di relazioni amichevoli con le potenze, maturate dalla consapevolezza che un taglio alle esportazioni verso i mercati centrali rappresenti sì un contraccolpo all’economia locale ma anche un problema per i Paesi importatori, sempre più lontani dall’autosufficienza e subordinati alle forniture esterne. Lo dimostra l’effetto domino nelle vendite di alcuni dispositivi tecnologici causato dal rallentamento della produzione di chip a Taiwan durante la pandemia. Un esempio ludico ma paradigmatico: la Playstation 5, ultimo prodotto di casa Sony, è stata rilasciata nel 2020 ma a distanza di due anni la sua distribuzione risulta essere ancora limitata in diverse aree del mondo (tra cui l’Italia), fenomeno che ha favorito un aumento dei prezzi e la rivendita tra privati.

Partendo da sinistra: Shri Narendra Modi, Vladimir Putin e Xi Jinping

Alla luce di queste considerazioni va poi analizzata la scelta del principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman di visitare Turchia, Egitto e Giordania un mese prima del viaggio del presidente degli Stati Uniti Joe Biden in Medio Oriente. Il messaggio rivolto a Washington era chiaro e l’incontro conclusosi ad Ankara con la definitiva distensione tra i due Paesi dopo anni di gelo lo ha ribadito: gli accordi bilaterali e multilaterali, ma esclusivi alla regione, intendono minare il ruolo di egemonia esercitato dagli Stati Uniti in Medio Oriente. «Durante i colloqui, è stata sottolineata la determinazione a inaugurare un nuovo periodo di cooperazione nei rapporti bilaterali a livello politico, economico, militare e riguardo alla sicurezza», si legge nel comunicato congiunto tra Arabia Saudita e Turchia, che se da un lato punta a restare nella NATO – così da avere voce in capitolo sull’adesione di Finlandia e Svezia e sull’eventuale estradizione dei curdi – dall’altro, guarda oltre l’amministrazione statunitense, puntando a migliori accordi nella regione mediorientale, sia per far fronte alle difficoltà economiche sia per sfruttare i rapporti tutt’altro che idilliaci tra le monarchie del Golfo e la Casa Bianca. Le relazioni fredde tra Biden e bin Salman – riguardanti soprattutto il caso Khashoggi e la guerra in Yemen – hanno contribuito a spingere i sauditi tra le braccia di Russia e Cina nonché verso il ruolo di leader nel Medio Oriente, come sottolineato dal re di Giordania Abdullah II. Nelle scorse settimane si è tenuto un incontro tra il ministro dell’Energia saudita, il principe Abdulaziz bin Salman, e il vice primo ministro russo, Alexander Novak, al termine del quale le relazioni tra i due Paesi sono state definite «calde come il clima di Riad». Nella capitale saudita, a inizio giugno il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha poi incontrato i rappresentanti dei Paesi del Golfo: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar, Kuwait e Bahrein. Nel corso della riunione il Consiglio dei Ministri di cooperazione del Golfo ha deciso all’unanimità di non imporre sanzioni alla Russia, facendo intendere che la preoccupazione non sia Mosca ma Teheran, con cui gli Stati Uniti potrebbero rilanciare l’ambiguo accordo sul nucleare. Allo stesso tempo, l’Arabia Saudita ha avviato delle trattative con Pechino per vendere parte del proprio petrolio in yuan.

La centralità statunitense sta vacillando anche in quello che Washington ha da sempre considerato il proprio cortile di casa e il IX Summit delle Americhe ne è stata la dimostrazione. Diversi Paesi dell’America Latina hanno mostrato, infatti, la propria vicinanza a Cuba, Nicaragua e Venezuela – non invitati da Biden perché bollati come regimi non democratici – non inviando il proprio Capo di stato o Capo di governo ma delle delegazioni diplomatiche al vertice. A legare i Paesi è stata la contestazione delle aspirazioni egemoniche di Washington sul continente, connesse alla Dottrina Monroe prima e alla Dottrina Truman poi. «Secondo Biden, la democrazia è minacciata nel mondo. Ma l’unica minaccia contro i popoli democratici è l’interventismo statunitense che promuove colpi di stato, massacri e saccheggi di risorse naturali. Il Summit è naufragato e annuncia la fine dell’egemonia degli Stati Uniti», ha dichiarato l’ex presidente boliviano Evo Morales.

Il Brasile ha di recente incontrato Sudafrica, Cina, Russia e India nel vertice BRICS, ribadendo l’unità di questa regione non geografica ma ideologica. Al centro dell’incontro, infatti, la volontà di garantire il flusso regolare delle catene industriali e di approvvigionamento, a dispetto delle sanzioni nei confronti della Russia. Rilanciata poi l’idea della creazione di una moneta in aperta funzione anti-dollaro, che creerebbe di fatto un circuito economico alternativo tra i Paesi emergenti. A margine dell’incontro, i cinque Paesi hanno adottato la Dichiarazione di Pechino del XIV Summit BRICS che tra i punti più importanti comprende quello intitolato Rafforzare e riformare la governance globale: ciò implica ripensare gli assetti di potere e richiede necessariamente un ridimensionamento del ruolo del dollaro, con l’obiettivo di abbandonare il sistema unipolare “americanocentrico” per orientarsi maggiormente verso un modello geopolitico multipolare. Il leader cinese Xi Jinping ha dichiarato che le cinque principali economie emergenti «devono agire con senso di responsabilità per portare una forza positiva, stabilizzante e costruttiva nel mondo». Nei giorni scorsi, Argentina e Iran hanno avanzato la richiesta di ingresso nel blocco formato da Sudafrica, Cina, Russia, India e Brasile, che in termini economici rappresenta il 25% del PIL mondiale e in termini demografici il 43% della popolazione totale.

Il nazionalismo alimentare

 

La globalizzazione viene vista come il risultato di due grandi “spacchettamenti” (unbundlings). Il rapido declino dei costi di trasporto alla fine del XIX secolo ha prodotto il primo spacchettamento, cioè il venir meno della necessità di produrre i beni nei pressi dei luoghi di consumo. In seguito, la caduta dei costi di comunicazione e di coordinamento ha avviato il secondo spacchettamento, che ha avuto come conseguenza la fine della necessità di realizzare molti stadi dell’attività produttiva nella stessa area. Dunque, se la prima fase ha permesso la separazione geografica di fabbriche e consumatori, la seconda ha frammentato nello spazio le aziende e gli uffici stessi, che si sono “aperti” e avviati verso la competizione globale. I due spacchettamenti hanno portato l’Occidente ad abbracciare, con particolare interesse verso la materia agricola, l’idea di produrre e importare a basso costo dall’altra parte del mondo. «Con l’aumento dei prezzi i Paesi cambiano la loro posizione per dare priorità alla protezione e all’offerta interna», che va a coprire l’aumento dei consumi, «così da esportare soltanto se c’è capacità in eccesso», ha dichiarato Akio Shibata, presidente del Natural Resource Research Institute. «In passato, l’idea era: più ci impegniamo per i mercati internazionali, più possiamo contribuire alla sicurezza alimentare. Ma la situazione sta cambiando». Le dichiarazioni di Akio Shibata descrivono bene la virata protezionistica di diversi Paesi emergenti, all’interno del fenomeno del nazionalismo alimentare. Nelle scorse settimane, l’India – uno dei Paesi che non si è schierato con l’Occidente per le sanzioni alla Russia – ha deciso di bloccare le esportazioni di grano e di zucchero, ufficialmente per tutelare la domanda interna in risposta al caldo anomalo che ha colpito il territorio e ha creato incertezza sui raccolti. A questa motivazione, si affianca la probabile volontà di sfruttare l’ondata inflazionistica per rivedere al rialzo i contratti futures con i partner commerciali. Il nazionalismo alimentare esploso negli ultimi due anni dimostra e in un certo senso denuncia l’insostenibilità del modello della globalizzazione basato su produzione e spedizione a basso costo, che sfrutta in modo intensivo i territori e le risorse. La maggiore consapevolezza degli stati circa le proprie potenzialità è un fenomeno che coinvolge più variabili, per cui è difficile se non impossibile trovarne l’origine. Tuttavia, è innegabile che le scelte egoistiche dei Paesi occidentali in materia di vaccini durante la pandemia da Covid-19 abbia alimentato il fenomeno e il sentimento protezionistico di diversi Paesi emergenti, che adesso riflettono sulle possibili strade future: ricucire le vecchie relazioni con contratti più vantaggiosi o rivolgersi a mercati diversi e più vicini (sia in senso geografico sia in senso ideologico). Alla luce di queste considerazioni, non è un azzardo affermare che la regionalizzazione potrebbe essere l’erede di una globalizzazione non più in grado di nascondere gli evidenti segni di crisi. Verso questa direzione, si inseriscono i rafforzamenti degli accordi bilaterali o multilaterali all’interno di una stessa regione, come nel caso dei Paesi BRICS, non per una divisione del mondo in due blocchi in pieno stile Guerra Fredda, ma per un ricalcolo delle distanze e delle priorità. Questo processo di certo non chiuderà i Paesi, piuttosto li avvierà verso l’ipotesi – e non certezza – di relazioni eque e rispettose dei principi fondamentali della Comunità internazionale.

Fonte: Indipendente.online

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