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Dovremmo fare entrare Google, Apple e Paypal nella Nato?

I giganti tecnologici sono potenze con la capacità di intervenire nelle guerre e c’è chi pensa di farli entrare nell’alleanza. Ecco perché potrebbe non essere una buona idea

Dovremmo fare entrare Google, Apple e Paypal nella Nato?

Saranno stati i troppi libri letti sulle malefatte di Big Tech e i «capitalisti della sorveglianza», ma il titolo su Fast Company mi ha fatto sobbalza

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Saranno stati i troppi libri letti sulle malefatte di Big Tech e i «capitalisti della sorveglianza», ma il titolo su Fast Company mi ha fatto sobbalzare: «Perché la Nato dovrebbe ammettere non soltanto la Finlandia, ma anche Google». Il punto di vista di Shlomo Kramer, l’autore dell’articolo, è dichiaratamente peculiare, ma anche per questo interessante: è un esperto di sicurezza informatica, co-fondatore e ceo di Cato Network, società israeliana di cybersecurity. E il suo punto di vista lo riassume così: «Se la Nato non è più un efficace baluardo per tenere a bada i cattivi del mondo, cosa potrebbe sostituirla? Avendo fatto carriera nella sicurezza informatica, valutando e arginando un tipo di rischio nuovo e in ascesa, permettetemi una modesta proposta: se volete la pace nel mondo, pensate meno a Inghilterra, Francia e Germania, e più a Google, Apple e PayPal ».

Kramer sottolinea un punto difficile da contestare. Non soltanto alcuni dei colossi di Silicon Valley hanno ormai capitalizzazioni da Pil dei Paesi del G8 (Apple a gennaio aveva toccato i 3 mila miliardi di dollari, il Prodotto interno lordo italiano non arriva a 2 mila). «Le multinazionali che generano tanta parte della nostra crescita economica hanno le capacità tecnologiche — per non parlare dei budget — per progettare e attuare il tipo di deterrenza rapida ed efficace che nessun governo potrebbe facilmente fornire ». L’esempio che fa è quello di PayPal. Quando la piattaforma di pagamenti digitali ha deciso di sospendere ogni attività con la Russia, il contraccolpo per molti operatori di ecommerce russi è stato peggiore delle peggiori sanzioni. «Il tipo di impatto sulla vita quotidiana per il quale di solito serve lo sforzo prolungato e concertato di Stati nazionali; oggi le grandi aziende possono realizzarlo molto meglio e molto più in fretta».

I conflitti tecnologici

Del resto, che i contorni dei conflitti siano cambiati lo dimostra anche la valanga di attacchi informatici con richiesta di riscatto (ransomware) lanciati da hacker russi ai danni di aziende e istituzioni occidentali per finanziare la guerra di Putin. Per questo, Kramer ribadisce: «Abbiamo bisogno di una nuova Nato che ruoti attorno alle collaborazioni tra le nazioni e queste grandi aziende, e con altre parti in causa (stakeholders) che rendono l’Era dell’informazione così pericolosa in questo momento storico». E a chi avverte un comprensibile disagio pensando ai quasi onnipotenti amministratori delegati dei colossi di Big Tech che siedono anche nelle stanze dei bottoni accanto a generali, ministri della Difesa e consiglieri per la sicurezza nazionale, Kramer fa un’obiezione che inquieta più che convincere: «Queste interazioni stanno già avvenendo. Amazon, ad esempio, ha di recente rinnovato il suo accordo da 10 miliardi di dollari con la Nsa, aiutando l’agenzia di intelligence Usa a archiviare tutti i suoi dati altamente sensibili sui suoi server Aws. E mentre la Nato e altre organizzazioni di difesa nazionali e internazionali dispongono tutte di armi informatiche, nessuna è attrezzata per affrontare la foresta di questioni complicate — legali, etiche e tattiche — che sorgono da una nuova realtà in cui nazioni e aziende si trovano spalla a spalla nel campo di battaglia virtuale».

Vecchie istituzioni e nuove guerre

Alla fine del suo intervento, però, la proposta di Kramer prende contorni forse un po’ meno controversi: «Ciò di cui abbiamo bisogno ora, in altre parole, non sono solo maggiori investimenti nella sicurezza informatica, cosa che, per fortuna, sta già accadendo, ma una nuova istituzione che possa aiutarci a mantenere la pace anche se le sfide diventano più intricate e diversificate. Suggeriamo una nuova convenzione di Ginevra che fissi limiti agli obiettivi della guerra informatica, come ospedali, case di riposo e scuole. E potrebbe portare a un investimento collettivo in ricerca e sviluppo che ci fornisca i più avanzati sistemi di difesa informatica disponibili. È un compito arduo, ma sono in gioco troppe vite perché possiamo rimanere inerti a guardare. Big Tech è orgogliosa di aver sconvolto ogni industria umana esistente, dall’assistenza sanitaria, alla finanza, alla logistica. È giunto il momento di imparare come rivoluzionare la guerra».

Il ruolo della Cina

Che dire? È vero che, come ha ricordato Federico Fubini nella sua newsletter Whatever it takes (per iscriversi o provarla gratis per un mese cliccate qui: ne vale la pena), al recente summit di Davos il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg «ha posto a Davos il problema della penetrazione delle imprese cinesi (Huawei e Zte soprattutto) nei Paesi della Nato per le reti del 5G: un tema che conosciamo molto bene anche in Italia», a conferma di quanto competizione fra colossi informatici e sicurezza nazionale siano intrecciate. Ed è anche vero che la rete di satelliti Starlink, di Elon Musk, ha avuto un ruolo non trascurabile nella battaglia sul campo in Ucraina. Ma non riusciamo a toglierci di dosso il sospetto che, alla fine, Big Tech potrebbe chiedere una contropartita, non soltanto in termini di immagine, dall’essere arruolata fra le Forze del Bene. Per restare a Elon Musk: non è che le «medaglie» conquistate sul campo con Starlink finiranno per essere messe sul piatto della bilancia per il via libera a progetti come Neuralink, l’impianto di chip nel cervello.

Fonte: Corriere della Sera

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