Nel mezzo dello Studio Ovale a Washington vi è una statua in bronzo, attorno il silenzio. Il corso degli eventi si è arrestato. È Il Pensatore di Rodi
Nel mezzo dello Studio Ovale a Washington vi è una statua in bronzo, attorno il silenzio. Il corso degli eventi si è arrestato. È Il Pensatore di Rodin, sospeso nella vertigine della penombra. Dall’ossido azzurro del bronzo si solleva un piccolo grumo di nebbia e da esso germoglia una piccola nuvola. Subitaneo un fascio di luce la illumina con una diapositiva. È un affresco dell’Eurasia. Proviene da un’epoca sconosciuta, antica. È il presente. Il cuore del Continente lampeggia in una bandiera bionda come il grano e azzurra come il cielo. È l’Ucraina. Le acque torbide del Mar Nero lambiscono le sue coste, infestate di fregate della Flotta Russa che si muovono come alligatori. È tesa una fune tra Kiev e Costantinopoli e su di essa cammina temerario e senza imbracatura il Ludopatico, il Giocatore con i suoi baffetti, in giacca e cravatta, il Mediatore Ottomano. La corda è trattenuta dalla presa di Zelenskij che scivola sulle sabbie limacciose delle spiagge di Odessa. È una corsa contro il tempo. Il cielo è plumbeo e dal Donbass la nebbia avanza sempre più fitta come un sipario pronto ad aprirsi da un momento all’altro. Dietro i lembi delle nubi si muovono silenziose sagome di carrarmati, ombre di guerra. Mаскировка.
Filmati girano impazziti sulla rete. È il volto di Vladimir Putin grande come una Luna che emerge dai vapori ai bordi orientali della Pianura Sarmatica e poi sparisce ancora una volta. Anche lo Zarha gli occhi azzurri come il cielo e i capelli biondi come il grano, dicono i separatisti del Donbass alle telecamere di Sputnik mostrando i loro passaporti russi. Le immagini trasmesse dai satelliti GPS americani dipingono le trincee del fronte di Kiev che si allargano, si complicano, diventano un labirinto senza fine, un frattale. Si è aperta una ferita e nessuno se n’è accorto. Era chiaro da tempo, precisamente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. L’Intermarium sanguina, è un’emorragia grave, la pozza di sangue si sta espandendo dalla Polonia che non dimentica ai Baltici che a schiena dritta si stagliano orgogliosi nel proprio compito di sentinelle a stelle e strisce, di petto alle “Sentinelle all’Oriente”. Si è aperto uno squarcio in mezzo all’Europa che divide russofobi e moderati.
La Francia che odia l’Inghilterra che odia la Russia nel frattempo viene scalzata dal Mali. “Morte alla Francia! Morte alla Francia!” gridano le folle dell’Africa Settentrionale, gridano e ribollono le banlieue tappezzate di graffiti filo-turchi. Al di là delle Alpi siede il Gattopardo al Quirinale, mentre Draghi, con le gambe accavallate a Palazzo Chigi è al telefono con lo Zar. “La situazione è seria ma non è grave”. Croci ortodosse e mezze lune turche si fronteggiano in Libia. Il Mediterraneo ribolle, ma non esplode, squadrato da leggi internazionali di diritto marittimo internazionale pitagorico. La dorata Pechino nel frattempo si adorna sotto il cielo dell’anno bisestile 2022 per le Olimpiadi. Ordine e disciplina! La neve è finta, ma è finta per davvero. Gli atleti dei futuri clientes cinesi salutano la folla ricolma di ospiti scelti dal Partito, sorridono alle telecamere del Mondo, sorridono all’Occidente, sorridono al Pensatore di Rodin. Le diapositive sono finite, il proiettore si spegne.
È di nuovo buio nello Studio Ovale. Una lacrima scivola sulla guancia di Joe Biden, nudo come il Pensatore di Rodin, seduto in una posa plastica al centro dello Studio Ovale, come il Pensatore di Rodin. Il Muro non sarebbe dovuto crollare. L’Eurasia era spezzata, l’incubo Mackinderiano non si sarebbe mai potuto verificare. Con il Muro in piedi la GeRussia non poteva che restare fantasia. I cavalli dei Cosacchi non si sarebbero mai abbeverati alle fontane di San Pietro e a Oriente della Cortina di Ferro oggi vi sarebbero ancora “[…]i tartari dell’Armata Rossa”. Erano “i migliori operai meccanici dell’Urss, i migliori arditi del lavoro, i migliori urdaniki e stakhanowzi, gli elementi di punta delle squadre d’assalto dell’industria pesante sovietica.“ Così scriveva Malaparte in Kaputt. “[…] I tartari dell’Armata Rossa” erano “i migliori piloti dei carri armati, i migliori meccanici delle divisioni corazzate e dell’aviazione.”
E in fin dei conti…
“[…]I giovani tartari che i tre Piani Quinquiennali” trasformarono “ da cavalieri in operai meccanici, da pastori di cavalli in urdaniki delle officine metallurgiche di Stalingrado, di Charkow, di Magnitogorsk.”
“Erano il Nostro Miglior Nemico”
pensa il Biden di Rodin mentre osserva le proprie mani. “Son le stesse mani di Mozart, di Stradivarius, di Picasso, di Sauerbruch”.
Nel frattempo a Pechino…
“Le mani di un meccanico, di un pilota di carro armato, di un urdenik del terzo Piatiletka, non sono meno belle delle vostre. Son le stesse mani di Mozart, di Stradivarius, di Picasso, di Sauerbruch”.
Xi Jinping a Putin
Ed egli a lui: “Non c’è bisogno di farmi la lezioncina sull’Urss; io, noi russi, la rivoluzione la conosciamo meglio di voi” questa la risposta secca e diretta dello Zar. “Ai tempi del muro per Mosca lavoravo in Germania, adesso per risolvere i problemi di Mosca in Europa c’è bisogno di venire fin qui”. La calma delle parole di Xi Jinping sembra non avere sortito alcun effetto, la tempestività russa non conosce alcuna saggezza orientale, continua quindi Putin: “ci voleva l’Ucraina perché filosofeggiassimo di socialismo e ci coalizzassimo contro il nostro nemico comune”.
Le grandi civiltà si conoscono reciprocamente molto bene. La calma e la costanza di Xi Jinping, la tempestività e la schiettezza di Putin: il pensatore di Rodin avrebbe qualcosa da imparare. Con quella implicita complicità che segue alle esternazioni più sfacciate e sincere, i due imperatori si lasciano. Improvvisamente la mattina seguente a Putin tornano in mente le sagge parole di Xi Jinping:
“Le mani di un meccanico, di un pilota di carro armato, di un urdenik del terzo Piatiletka…L’URSS non esiste più già da 31 anni. Che ridere a ripensare alle uscite di Reagan. Chi non rimpiange la disgregazione dell’URSS, non ha cuore, chi vuole ricrearla così com’era, non ha testa. L’Urss è parte della nostra storia, allo stesso modo della Russia zarista. Noi abbiamo socializzato l’impero e spiritualizzato il socialismo! Gli occidentali come al solito non hanno capito nulla. Rus’, impero russo, URSS: ovunque russi che amano la propria patria…”
Verso il tardo pomeriggio, prima di una cena ufficiale con Xi Jinping, in un momento di inaspettata tranquillità e solitudine Putin si accorge di aver buttato in valigia un libro, si tratta del romanzo storico L’isola di Crimea di Vasilij Аksёnov scritto nel 1979 e pubblicato nel 1981 (oggi entrato a far parte dei programmi scolastici russi).
Putin lo sfoglia, lo ha letto già più volte. All’improvviso viene folgorato da un pensiero:
“Russi prima zaristi e poi completamente occidentalizzati che rinunciano a tutto pur di tornare a occupare il proprio posto nelle infinite braccia della loro madrepatria e nella sua storia: questo è il significato di questo libro! Nemmeno se quel tipo di Crimea avesse realmente chiesto di essere annessa all’URSS, nessuno in Occidente avrebbe battuto un colpo. Gli occidentali sono ormai destinati a stagnare nel loro sonno liberale! Il consumismo li ha davvero sfiancati”.
Putin si riferisce alla Crimea descritta nel romanzo sopracitato. In esso la Crimea non è una penisola, bensì un’isola, dove durante la guerra civile si rifugiano, salvandosi, i sopravvissuti dell’Armata bianca. Questa isola è circondata dalla Russia e dall’Ucraina sovietiche. Grazie alla neutralità nel secondo conflitto mondiale e ad un forte sviluppo economico interno l’isola di Crimea persegue nella sua unicità allontanandosi sempre di più dalla madrepatria. La Crimea diventa quindi uno Stato completamente occidentale dove oltre al russo si parlano regolarmente le altre lingue europee, in primis l’inglese. L’economia va a gonfie vele. La povertà è ridotta al minimo e tutti sono felici. Ed ecco che a questo punto i discendenti dell’élite militare dell’armata bianca si mettono un po’ a riflettere sul paese che gli sta di fronte, la Russia sovietica…
Continuano i pensieri potenti dello Zar:
“Dopo il crollo dell’URSS i russi hanno capito che ideologie opposte non hanno alcun significato rispetto all’unità della nostra storia e del nostro popolo. Dio ci ha assegnato un compito, noi abbiamo una missione, un destino…”.
Infatti, il protagonista del romanzo, Andrej Lučnikov, ricorda improvvisamente non solo di essere russo, ma anche che sull’altra sponda abitano dei russi proprio come lui. A onore del vero, non proprio come lui. Andrej Lučnikov è un regista di successo che è nato e cresciuto in una società occidentale, dall’altra parte ci sono i russi sovietici che mangiano, vestono e vivono in maniera diversa. Anche la lingua non è più identica, l’era sovietica incide profondamente sulla lingua russa non solo con le sue politiche attive indirizzate a questo scopo. Ma ciò non significa niente. Quando i russi pronunciano le parole “Rossija” (Russia) e “russkij narod” (popolo russo) innalzano ineludibilmente il discorso a un livello metafisico e metastorico tendente al mistico. Per i russi essere russi non significa solo appartenere a un comune spazio storico, linguistico-culturale e socioeconomico, ma prima di tutto significa avere a un destino comune, definito sulla base di un senso, uno scopo, una missione appunto storico-destinale.
Non a caso il movimento politico con il quale Lučnikov inizia a promuovere l’idea che l’isola di Crimea e l’Unione Sovietica costituiscano in realtà un unico paese e che per questo la prima debba essere annessa alla seconda si chiama “L’Unione del Destino comune” (“Sojuz obščej sud’by”). Per capire cosa sta succedendo in Ucraina bisogna tenere conto anche del fatto che i russi sono inquietamente metafisici e che quando fanno o decidono qualcosa non è detto che ciò sia per loro conveniente.
Putin è di nuovo a Mosca. Dopo aver ricevuto la notizia dell’ennesima provocazione americana legge alcune righe che descrivono il movimento Lučnikov:
“Il loro movimento si basa su motivazioni ideali: il cosiddetto complesso di colpa nei confronti della patria storica, cioè della Russia. Sono consapevoli (gli appartenenti a “L’Unione del Destino comune”) del fatto che il successo dell’impresa della loro vita comporterà la perdita completa di tutti i privilegi e la totale distruzione dell’aristocrazia a cui appartengono (…). Il politico pragmatico sorriderà di fronte alle loro vedute, ma nondimeno esse esistono e hanno un grande peso”.
Ps: Lučnikov riesce infatti nel suo intento, confermando quanto era stato detto sul suo movimento e sulle conseguenze nel Paese.
Fonte: Dissipatio.it