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Come cambia l’UE dal 2023

L’UE si trova in una fase delicata, in cui deciderà il suo futuro. C’è chi vorrebbe modificare le regole e chi mantenerle così: Draghi si esprime a favore di un nuovo assetto, ancora non chiaro.

Come cambia l’UE dal 2023

A Strasburgo si sta tenendo la Conferenza sul futuro dell’Unione europea. Tra gli aspetti acclamati, la possibilità per i cittadini di esprimersi, di

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Strasburgo si sta tenendo la Conferenza sul futuro dell’Unione europea. Tra gli aspetti acclamati, la possibilità per i cittadini di esprimersi, di fare proposte e confrontarsi direttamente con la classe politica europea (commissari e parlamentari). I lavori si concluderanno nella primavera del 2022, quando, come si suol dire, dovrà essere cavato un ragno dal buco: bisognerà elaborare una proposta concreta.

Attualmente, ci troviamo ancora nella fase di emergenza, che ha portato i vertici UE a sospendere le regole di bilancio, condensate, oltre che nei Trattati europei (TUE e TFUE), nel Patto di Stabilità e Crescita e nelle sue «appendici», il Six Pack e il Fiscal Compact. All’orizzonte, nel 2023, c’è la fine della sospensione.

Quali sono le regole UE

Le regole di cui si parla riguardano le politiche di bilancio all’interno dell’UE. Il primo tassello fu il Trattato di Maastricht (1992), che oggi, dopo varie modifiche e integrazioni, è racchiuso ne «i Trattati» (TUE e TFUE), ossia l’insieme fondamentale di regole dell’UE. All’interno del Trattato, vennero inseriti dei parametri che servivano a indicare degli obiettivi verso cui far convergere le economie europee e in particolare precetti per le politiche fiscali (decisioni su tassazione e spesa che erano e sono rimaste in mano agli Stati membri.

Stiamo parlando del famoso 3% di rapporto deficit/Pil e il 60% di rapporto debito/Pil. La logica era: puntare a mantenere costanti questi valori, convergere tutti verso di essi, per ottenere un’omogeneità delle economie – e dunque una sorta di automatica integrazione.

Nel 1997 venne poi firmato il Patto di Stabilità e Crescita (PdSeC), che serviva a dotare le istituzioni europee (principalmente la Commissione europea) di strumenti di controllo sulle politiche fiscali degli Stati membri. Dopo la crisi 2008, nel 2011, con l’introduzione del Six Pack e del meccanismo del semestre europeo, si è rafforzata ancora di più la sorveglianza, contraddicendo de facto il principio di autonomia delle politiche fiscali degli Stati membri, in nome del principio di coordinamento di quest’ultime.

L’era della famigerata «austerità»

Se tutto ciò fosse avvenuto in nome della crescita e della lotta a politiche restrittive, avrebbe riscosso probabilmente successo. Tuttavia, è avvenuto l’esatto opposto: le politiche fiscali sono state indirizzate verso la cosiddetta austerità, ossia il contenimento – e in alcuni casi la distruzione – della domanda interna, che ha causato forte malcontento tra i popoli europei.

Ma in un certo senso l’austerità è strutturale, è implicita nelle regole. E a chi critica, dicendo che in fin dei conti non siano mai state rispettate, bisogna ricordare due aspetti. In primis, guardare i dati sul saldo primario italiano, ricordati anche dal Presidente Mattarella (in senso positivo, come Italia virtuosa e frugale che ha risparmiato): l’Italia ha per quasi un trentennio costantemente (eccetto nel 2009) speso (al netto degli interessi) meno di quanto ha prelevato con le tasse, col risultato di un drenaggio di circa un trilione di euro dall’economia. Dunque l’Italia è sì virtuosa, ma solo nel senso che ha rispettato regole che oggi vengono definite stupide dagli stessi che le hanno scritte.

In secondo luogo, l’assenza delle procedure di infrazione (uno dei fiori all’occhiello del PdSeC), se portata come argomento in favore di Commissione e UE, è in realtà un altro nonsenso. Esistono notoriamente due forme di libertà: attiva (libertà di) e passiva (libertà da). Se la libertà (passiva) dalla procedura di infrazione è stata rispettata, non si può dire lo stesso della libertà (attiva) di far crescere il paese utilizzando la leva fiscale (vuoi con più spesa pubblica, vuoi con meno tasse), si pensi al braccio di ferro tragicomico del 2018 per fare il 2,04% – e non il 2,4% desiderato – di deficit.

Detto in altri termini, se può anche essere vero che non siamo stati condannati all’inferno, è parimenti vero che non ci siamo ritrovati in paradiso. La dimensione perimetrata dall’attuale assetto istituzionale europeo è infatti simile a un limbo.

Le proposte di modifica accennate

Tuttavia, in crisi c’eravamo da tempo – e se anche meno grave di quella attuale, sicuramente non poco grave in assoluto. Però, a quanto pare, serviva una stagione di lockdown generalizzati per far smuovere il masso del rigorismo.

Per molti le regole vanno cambiate, per altri hanno funzionato e sono sufficientemente flessibili. È il caso del vicepresidente della Commissione europea Dombrovskis, che si è detto soddisfatto riguardo l’attivazione della cosiddetta clausola di salvaguardia (la regola per cui in caso di emergenza si fa a meno delle regole). A quanto pare la clausola basta e avanza, visto che non auspica una modifica dei Trattati, mentre ripete il mantra della riduzione del debito.

Altri, come Klaus Regling, il direttore del MES, vorrebbero togliere la regola sullo stock di debito (ossia il mantenimento – o il raggiungimento in caso di eccesso – del 60% del rapporto debito/Pil), però manterrebbero volentieri la regola del 3%. È stata poi messa sul tavolo la cosiddetta green golden rule, che prescriverebbe lo scorporamento degli investimenti green dal conteggio dei deficit.

Fonte: Money.it

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