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La rivoluzione dei declassati

an Wacław Machajski avverte con largo anticipo la nascita dello Stato burocratico, un nuovo Leviatano, una nuova tecnocrazia, dove i “capitalisti del sapere”, benché socialisti, continueranno a svolgere una funzione di dominio sulle masse. GOG Edzioni pubblica "La dittatura dell'intellighenzia".

La rivoluzione dei declassati

Nel XIX secolo la Russia era una società prevalentemente rurale malgrado un’industria pesante nei settori dell’estrazione mineraria, della produzione

L’ era degli scarti e delle disuguaglianze
Il grande equivoco sul liberalismo economico e il fallimento del capitalismo
Il capitalismo sta uccidendo il pianeta

Nel XIX secolo la Russia era una società prevalentemente rurale malgrado un’industria pesante nei settori dell’estrazione mineraria, della produzione di acciaio e della trivellazione petrolifera (ma ancora di molto inferiore rispetto a Gran Bretagna, Francia e Germania). Grazie alle riforme infrastrutturali avviate a partire dal 1870 dall’imperatore Alessandro II, il Paese conobbe quello che lo storico economico Alexander Gerschenkron definì in seguito “il grande scatto”. Sul finire del secolo, la creazione di nuove fabbriche, miniere, dighe a San Pietroburgo, Mosca, Kiev e in altre città, nonché l’apertura della Transiberiana, che inaugurò zone di approvvigionamento di materie prime fino ad allora inaccessibili, dotarono la Russia di un ceto borghese e di una classe operaia sempre più omogenei, entrambi concentrati nelle grandi città.

Insieme alle fabbriche germogliarono le formazioni e le organizzazioni socialiste volte a rappresentare gli interessi del proletariato, malgrado gli accesi dibattiti e le differenti correnti ideologiche che dividevano gli intellettuali sulle strategie da adottare per realizzare la rivoluzione in Russia. Benché il materialismo storico di Marx ed Engels, nella teoria, dimostrava che il comunismo potesse realizzarsi soltanto nelle società capitalistiche avanzate, poiché il capitalismo è la precondizione necessaria ad una rivoluzione comunista, e il pieno sviluppo delle sue forze produttive, paradossalmente, renderebbe quelle stesse forze incompatibili con il regime capitalistico (giungendo alla sua distruzione), entrambi, nella pratica politica, rivolsero i propri interessi alla Russia zarista, un laboratorio inedito, dove il capitalismo era ancora a uno stato embrionale. I partiti socialdemocratici europei, specie quello tedesco, avevano infatti optato per una strategia gradualista e legalista, scegliendo di operare all’interno dell’ordine borghese, nel tentativo di guadagnare progressivamente terreno sul piano del diritto, così come pensava Bernestein, uno dei maggiori esponenti della via riformista. Che in Russia si potessero invece abolire queste fasi transitorie e passare direttamente alle “dittatura del proletariato”?

Tra i tanti intellettuali che si interrogarono su questo punto e sul ruolo dei partiti socialisti, vi fu il rivoluzionario polacco Jan Wacław Machajski. Machajski nacque a Pintzov, nella Polonia russa, il 15 dicembre del 1866. Figlio di un piccolo impiegato defunto precocemente, il giovane Machajski visse nell’indigenza ma riuscì a iscriversi alla facoltà di medicina di Varsavia. Assorbito rapidamente dalle lotte antizariste, si avvicinò al nazionalismo polacco e poi al socialismo. Imprigionato in Galizia per attività sovversive nel 1891, dopo quattro mesi venne autorizzato ad emigrare a Zurigo, dove si dissolsero le sue illusioni socialiste e cominciò l’avvicinamento al marxismo rivoluzionario, accompagnato ad una serrata critica nei confronti di quella social-democrazia tedesca che, a detta dell’intellettuale polacco, aveva tradito completamente i presupposti del marxismo. Invece di intensificare la lotta di classe, spingere per l’immediata socializzazione dei mezzi di produzione, i principali partiti socialisti abbandonarono il loro carattere rivoluzionario cercando un compromesso con le istituzioni borghesi (diritto di voto, abbassamento dell’orario lavorativo, aumento dei salari).

La dittatura dell’intellighenzia,  Jan Wacław Machajski (GOG Edizioni, 2022).

Machajski ottenne un discreto successo attraverso la pubblicazione dei suoi articoli e intorno alle sue tesi nacque una piccola ma intensa attività rivoluzionaria tra il 1905 e il 1912 in Russia. Lev Trotskij, che ebbe occasione di conoscerlo nel 1902, a Irkutsk, durante l’esilio, nei suoi diari menzionò i tre diversi quaderni che Machajski pubblicò a proprie spese:

«Machajski debuttò con una critica dell’opportunismo nella socialdemocrazia (e ottenne un notevole successo nelle nostre colonie di esiliati). Il secondo quaderno forniva una critica del sistema economico di Marx e conduceva a questa conclusione inattesa: il socialismo è un regime sociale basato sullo sfruttamento degli operai da parte dei lavoratori intellettuali».

I capitalisti, per il rivoluzionario polacco, non sono più esclusivamente i grandi possidenti, i proprietari terrieri, i capitani d’industria. I nemici del proletariato si possono nascondere anche tra i nullatenenti, tra coloro che posseggono un capitale solo simbolico e culturale. Si tratta dei lavoratori intellettuali, “una classe privilegiata della società borghese”: ingegneri, funzionari, impiegati nel settore privato, professori e medici, giornalisti e avvocati. Col crescere della produzione capitalistica questa classe di organizzatori delle forze produttive ha visto crescere il suo raggio di influenza e la sua importanza nella vita economica. Gli intellettuali detengono il monopolio delle conoscenze ma «i loro interessi sono troppo variegati per poter formare un ceto omogeneo» dagli obiettivi ben definiti. Per certi aspetti borghesi, per altri proletari, i lavoratori intellettuali vengono però prodotti in eccesso dal sistema capitalistico, che non riesce ad allocarli tutti. Scrive Gustave Le Bon nel saggio la Psicologia delle folle (1895):

«Poiché il numero degli eletti è limitato, quello dei malcontenti è per forza immenso. Questi ultimi sono pronti a tutte le rivoluzioni, quali che ne siano i capi o gli scopi. Con l’acquisizione di conoscenze inutilizzabili l’uomo si trasforma sempre in un ribelle».

Il rischio di declassamento e la frustrazione, fanno sì che alcuni intellettuali abbraccino un atteggiamento di contestazione, presentandosi sulla scena politica come i disinteressati avvocati delle classi lavoratrici. È così che Luciano Pellicani commenta la tesi machajskiana:

«Da questo doppio fenomeno – quello del proletariato industriale che andava faticosamente prendendo coscienza dei propri interessi di classe e quello degli intellettuali déclasséche cercavano, assumendo la leadership della lotta contro il capitalismo, di sottrarsi al processo di proletarizzazione che li minacciava – era sorto il movimento socialista. Il quale, oltre ad essere l’organizzazione della protesta operaia, era anche lo strumento attraverso il quale i settori marginali dell’intellighenzia europea cercavano di ascendere al pieno potere sociale e politico tramite la “colonizzazione” del proletariato industriale».

Una posizione non dissimile da quella professata dal padre del sindacalismo rivoluzionario, Georges Sorel:

«La vera vocazione degli intellettuali è lo sfruttamento della politica; essi vogliono persuadere gli operai che il loro interesse è quello di portarli al potere e di accettare la gerarchia delle capacità, che mette gli operai sotto la direzione degli uomini politici».

Sorel, 1919

E più tardi rielaborata anche dal filosofo marxista Michel Clouscard, che interpreterà il sostegno degli studenti francesi alle cause operaie durante il maggio del ’68, nello stesso modo in cui Machajski giudicò l’adesione massiccia dei ceti istruiti ai movimenti operai:

«La classe borghese offre più figli di quanti sono i mestieri borghesi richiesti dal capitalismo. Questo surplus farà le rivoluzioni. Ma rivoluzioni borghesi»

Clouscard, 1986

Il socialismo, all’alba del ventunesimo secolo, si è rivelato perciò un dispositivo efficace per collocare professionalmente la classe istruita prodotta in eccesso dalla borghesia. Disposta a spodestare i grandi capitalisti, senza però abolire i privilegi dei lavoratori intellettuali. Scrive Machajski:

«La classe operaia moderna, gli schiavi di oggi, non cessano di essere schiavi, condannati a un lavoro manuale per tutta la vita; di conseguenza, il plusvalore nazionale da essi creato non sparisce, ma passa nelle mani dello Stato democratico in qualità di fondi di mantenimento dell’esistenza parassitaria dei saccheggiatori, del ceto borghese. Ceto che anche dopo l’abolizione dei capitalisti continua a essere una società dominante, esattamente come quella dei dirigenti e dei governanti colti, il mondo dei “guanti bianchi”; resterebbe in possesso del profitto nazionale, ripartito nella forma di onorari dei lavoratori intellettuali, e successivamente, grazie alla proprietà e al sistema di vita familiare, questa struttura trova la sua conservazione e il suo modello di riproduzione di generazione in generazione. Il socialismo dei mezzi di produzione significa semplicemente l’abolizione del diritto di proprietà privata e della gestione privata delle fabbriche e della terra. Nel suo attacco agli industriali, il socialismo non intacca per niente gli onorari dei direttori e degli ingegneri».

Infra, p. 56

Il socialismo perciò non abolirà lo sfruttamento capitalista, ma finirà per inaugurare la stagione del capitalismo di Stato (le municipalizzazioni e le nazionalizzazioni andavano in questa direzione), dove il dominio delle forze di produzione non sarà più nelle mani dei proprietari ma degli organizzatori, dei “capitalisti del sapere”.

«Illusione è il credere che di fronte alla classe dominante stia, al presente, il popolo; sta, ed è cosa ben diversa, una nuova e futura aristocrazia, che si appoggia sul popolo».

La storia per Pareto è un cimitero di aristocrazie. Sono queste minoranze a produrre i mutamenti e le rivoluzioni. Da qui la loro necessaria renovatio, che si compie per via ereditaria nelle società aristocratiche, o per il tramite delle elezioni in quelle democratiche. Tuttavia Pareto ammette che quella democratica è la più subdola tra le forme di governo:

«Con o senza suffragio universale, è sempre un’oligarchia a governare e a saper dare alla “volontà del popolo” l’espressione che desidera».

Pareto, 1916

Parole che Machajski potrebbe sottoscrivere quando nel 1905 scrive Il Lavoratore intellettuale (con lo pseudonimo di A. Volsky), dove dichiara che il sapere è un mezzo di produzione e l’intellighenzia è una classe sfruttatrice che impiega il suo capitale culturale per asservire le masse, sfruttare la loro manodopera “politica” e raggiungere così i propri scopi. Il socialismo, ed ecco la vera novità apportata da Machajski, è l’ideologia di classe dell’intellighenzia.

La società senza classi è una chimera, e il Manifesto del Partito Comunista il vangelo impiegato per generare consenso tra le masse proletarie. I dirigenti socialisti, gli intellettuali, i funzionari di Partito, sono – paretianamente – la nuova aristocrazia che si appoggia sul popolo per difendere i propri interessi e spodestare l’aristocrazia precedente, instaurando il governo dei competenti, quindi una prima forma di tecnocrazia. Machajski sta già immaginando la nascita dello Stato burocratico, considerando criticamente l’arrivo al potere degli intellettuali, degli organizzatori della produzione, dei manager.

Jan Wacław Machajski

Jan Wacław Machajski

In parte questo discorso venne portato avanti da Robert Michels, quando nel suo saggio La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia, rilevava «l’immanente presenza di tratti oligarchici in ogni aggregato umano». Specie nel Partito, dove vige un alto grado di organizzazione, quindi di specializzazione e divisione dei compiti e delle mansioni. Un contesto in cui è necessario prendere delle decisioni immediate, e perciò concentrare il potere nelle mani di un ristretto gruppo dirigenziale. In seno ai movimenti politici si fa chiara l’esigenza di istruire i quadri attraverso corsi e scuole di formazione, ma in questo modo la struttura del Partito diventa verticista, gerarchica, e al suo interno si assiste alla lotta tra le élite aspiranti al comando. L’obiettivo di questi apparati, quindi, non è quello di realizzare gli ideali che professano, ma di garantire la propria sopravvivenza (il maggior numero di iscritti):

«L’organizzazione, da mezzo per raggiungere uno scopo, diviene fine a sé stessa. Alle istituzioni e alle qualità che in origine erano semplicemente destinate ad assicurare il buon funzionamento della macchina di partito si finisce per attribuire maggior importanza che non al grado di produttività della macchina stessa».

Michels, 1912

La democrazia borghese perciò non sarebbe tanto diversa dalla monarchia:

«Il popolo “sovrano” si sceglie, invece di un re, tutta una assemblea di piccoli re, ed incapace di esercitare liberamente il suo dominio sulla cosa pubblica, esso si lascia spontaneamente confiscare i suoi diritti. L’unica cosa che la maggioranza si riserba, è quella sovranità climaterica e derisoria che consiste nell’eleggere, dopo un dato periodo di tempo, dei nuovi padroni».

Nel caso specifico, dei funzionari di partito. In questa corrente di pensiero si inserisce un altro italiano, il livornese Bruno Rizzi, che parlerà proprio di burocratizzazione del mondo, titolo, tra l’altro, del suo libro più celebre pubblicato in Francia nel 1939. Rizzi (1901-1977), marxista di formazione, tra i fondatori del Pci, esiliato in Francia dal regime fascista, viene allontanato poi dal Partito di Bordiga a causa delle sue posizioni poco ortodosse. È infatti uno dei principali critici della collettivizzazione della proprietà: «Noi non sapremo definire questa proprietà “nazionale” che è di tutti, questa proprietà che non è borghese, né proletaria, che non è privata, ma che non è neanche socialista» (Rizzi, 1939). Rizzi è convinto che l’abolizione della proprietà privata non elimini lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma lo trasferisca da un piano individuale, dove il capitalista sfrutta il lavoratore salariato, a quello collettivo, dove una classe di burocrati e tecnici della produzione sfruttano la stessa forza lavoro e si appropriano del suo plusvalore in nome dello Stato Comunista: prefazione 13

«Per noi l’Urss rappresenta un nuovo tipo di società diretta da una nuova classe. La proprietà è collettivizzata ed appartiene a questa classe che ha organizzato un nuovo sistema di produzione. Lo sfruttamento passa dal dominio del singolo a quello della classe».

Rizzi, 1967

Una “casta” che Rizzi identifica con i «funzionari, tecnici, poliziotti, ufficiali, scrittori, mandarini sindacali e tutto il partito comunista in blocco». È questo fatto che porta Rizzi ad affermare che lo Stato sovietico non è in alcun modo socialista né democratico, ma uno Stato collettivista-burocratico dove la classe dei tecnici:

«Avendo tutte le leve economiche nelle mani, salvaguardata da uno stato poliziesco espressamente eretto, è onnipotente. Fissa a piacere i salari ed i prezzi di vendita al pubblico con delle maggiorazioni sui costi, per cui le “sanguisughe borghesi” di una volta appaiono come “onesti commercianti”».

Rizzi, 1967

Benché le intuizioni di Machajski non abbiano avuto una grande eco negli anni successivi e non siano mai state canonizzate, vediamo che diversi autori che si sono occupati dei rapporti tra élite e masse, tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tra organizzatori ed esecutori, hanno sottoscritto, consapevolmente o meno, molte delle sue tesi. Come scrive Alexandre Skirda, curatore dell’edizione francese di questo volume, in cui sono raccolti i suoi scritti più significativi:

«La novità della critica egualitarista di Machajski consisteva nella sua definizione di conoscenza – non più soltanto forza lavoro superiore, particolare, ecc. – ma mezzo di produzione capitalizzato, redditizio per il suo possessore, trasmissibile di generazione in generazione, e principale beneficiario della crescita della produttività capitalista. Essendo le funzioni di direzione e di gestione strettamente legate al potere di decisione politica, gli intellettuali socialisti, nuovi notabili, potevano allora proporsi di dirigere e gestire con profitto la produzione capitalista, privata o collettivizzata, ma sempre mercantile, lasciando intatto il sistema di sfruttamento, o meglio, perfezionandolo ed assicurandone la perennità».

Fonte: Dissipatio.it

 

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