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Il microbiota dell’intestino può aumentare il rischio di contrarre Hiv o altri virus

Le alterazioni del microbiota intestinale potrebbero aumentare il rischio di infezioni. E forse possono avere un ruolo anche in Covid-19. Perché la ricerca sul trapianto fecale può essere importante

Il microbiota dell’intestino può aumentare il rischio di contrarre Hiv o altri virus

Non possiamo più ignorarlo. Con circa 10mila miliardi di microrganismi, appartenenti a 5mila specie diverse, e con un peso da 1,5 a 2 chili sul totale

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Non possiamo più ignorarlo. Con circa 10mila miliardi di microrganismi, appartenenti a 5mila specie diverse, e con un peso da 1,5 a 2 chili sul totale del nostro corpo, il microbiota intestinale gioca una parte molto importante nella nostra salute. Oggi numerose prove indicano che l’insieme dei batteri, virus e funghi che colonizzano l’intestino umano potrebbero avere un ruolo anche nello sviluppo di alcune infezioni, fra cui l’Hiv. Uno studio appena pubblicato sulla rivista Microbiome dall’università di Pittsburgh, per esempio, segnala un possibile legame fra alcune caratteristiche dei microrganismi nell’intestino e un maggiore rischio di contrarre l’Hiv.

Già da qualche tempo alcune ricerche hanno dimostrato che il microbiota intestinale potrebbe influenzare la suscettibilità a questa infezione, ma anche all’infiammazione a lungo termine e alla risposta alle terapie antivirali. A fronte di questi dati, gli scienziati si stanno concentrando sul trapianto fecale nell’Hiv (e non solo) e prime prove in persone sieropositive hanno mostrato risultati favorevoli. Cosa sappiamo su come batteri e altri microrganismi possono renderci più vulnerabili ad alcune infezioni, e potenzialmente anche a Covid-19, in un’era in cui la minaccia dei patogeni emergenti è sempre più concreta.

Dal cancro al diabete

La ricerca sul filo che c’è fra cambiamenti del microbiota intestinale e alterazioni fisiologiche o vere e proprie patologie è fervida. Vari gruppi, nazionali e internazionali, fra cui quelli del progetto Microbioma italiano, dello Human Microbiome Project dei National Institutes of Health statunitensi e dell’Earth Microbiome Project, stanno raccogliendo moltissimi dati per studiare le caratteristiche della flora batterica e degli altri microrganismi che risiedono il nostro intestino e altri organi.

Il microbioma (che non è propriamente il microbiota, qui la definizione dell’Istituto superiore di sanità) è infatti l’insieme di tutti i microrganismi che abitano il nostro organismo, mentre il microbiota intestinale include solo i microbi nell’intestino. Dal cancro al diabete, dall’obesità a problemi cardiovascolari, dalle allergie a varie malattie autoimmuni, come l’artrite reumatoide, dall’Alzheimer al Parkinson (fino anche forse a Covid-19), il microbiota (quello intestinale è la fetta maggiore) potrebbe intervenire in molteplici processi alla base dello sviluppo di queste e altre patologie e condizioni di salute alterate.

Stando ai dati accumulati, batteri e altri microrganismi potrebbero entrare in gioco in tutte queste infezioni. In questo campo riveste un grande interesse l’uso dei probiotici, che potrebbero ripristinare l’equilibrio rotto. I probiotici, “organismi vivi che, quando somministrati in quantità adeguate, conferiscono un beneficio per la salute dell’ospite” secondo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità, potrebbero prevenire o migliorare diverse infezioni. Attualmente gli scienziati li stanno impiegando in alcune sperimentazioni, anche nei pazienti sieropositivi. Nel caso dell’Hiv, secondo lo studio su Frontiers in Cellular and Infection Microbiology, i risultati raccolti sino ad oggi suggeriscono che l’analisi ed eventuali trattamenti del microbiota vaginale potrebbero aiutare a ridurre la trasmissione del virus.

Gli ultimi dati

Lo studio su Microbiome ha esaminato campioni di feci di 265 volontari, di cui alcuni hanno successivamente contratto l’Hiv e altri no: la novità dell’indagine risiede nella sua particolare strutturazione. I campioni, infatti, sono stati raccolti nel 1984, prima che l’Hiv fosse stato identificato come causa dell’infezione. All’inizio della ricerca (Multicenter Aids Cohort Study – Macs) i partecipanti – uomini omosessuali arruolati dai National Institutes of Health statunitensi – non avevano l’infezione e successivamente 109 (dei 265 totali) l’hanno sviluppata.

Nel 2017 gli autori, coordinati dai ricercatori Charles Rinaldo e Yu Chen, hanno ripreso in mano i materiali, opportunamente conservati in questi anni, per analizzarli. I risultati hanno indicato che le persone con Hiv avevano già prima di contrarre il virus una maggiore abbondanza di microrganismi pro-infiammatori all’interno del microbiota intestinale. In particolare, il batterio promotore dell’infiammazione Prevotella stercorea era più abbondante, mentre 4 specie Bacteroides erano meno presenti. Inoltre chi avrebbe poi sviluppato più rapidamente l’Aids aveva un microbiota meno “buono”. Anche i marcatori dell’infiammazione misurati nel sangue erano più elevati negli uomini che sarebbero poi risultati sieropositivi. I numeri sono ancora limitati ma il lavoro è interessante perché, come spiega Rinaldo, è il primo studio di questo genere, che si svolge con queste modalità.

In precedenza altre indagini avevano individuato il possibile collegamento e infatti l’alterazione del microbiota è una delle strategie testate per migliorare i risultati clinici dei pazienti sieropositivi. Recentemente, una ricerca italiana guidata da Gabriella D’Ettorre del Policlinico Umberto I di Roma, ha individuato un particolare probiotico, che potrebbe aiutare persone in trattamento con antiretrovirali ad alleviare il danno alla mucosa intestinale causato dall’infezione. In un altro studio, condotto dall’Ospedale universitario di Madrid e pubblicato nel 2021 su Nature Communications, i ricercatori hanno verificato la sicurezza e l’efficacia del trapianto di microbiota fecale in 30 pazienti colpiti dall’Hiv (un campione per ora molto ristretto). Il trattamento ha cambiato la composizione del microbiota intestinale riducendo le lesioni della mucosa, senza eventi avversi gravi. Inoltre, nelle persone trattate, si sono osservati effetti positivi nei livelli delle cellule immunitarie che combattono malattie e infezioni, nonché di marcatori infiammatori. I trial clinici devono essere estesi e approfonditi, anche se i primi risultati sono promettenti e segnalano le potenzialità di questo approccio.
Microbiota e Covid-19

Su Sars-Cov-2 abbiamo necessariamente meno informazioni. Tuttavia, una parte della ricerca punta a comprendere la relazione fra intestino e coronavirus, ricordando che diarrea e altri sintomi intestinali sono fra le manifestazioni non rare dell’infezione. Il microbiologo Heenam Stanley Kim dell’università della Corea (a Seoul), ad esempio, ha approfondito l’argomento in un lavoro sulla rivista mBio.

Partendo dal fatto le forme gravi di Covid-19 sono frequenti fra i pazienti con malattie croniche e che queste sono a loro volta associate a scompensi nel microbiota intestinale, l’autore si chiede se ci sia e quale sia la connessione fra flora intestinale e Covid-19 severo. In questa direzione va anche Hong Kong, pubblicata sulla rivista Gut, che ha rilevato una buona associazione tra alcuni ceppi batterici intestinali e i livelli di citochine e altre molecole infiammatorie, correlata alla gravità della malattia. Le specie batteriche Ruminococcus gnavusRuminococcus torques e Bacteroides dorei erano più presenti, mentre Bifidobacterium adolescentisFaecalibacterium prausnitzii ed Eubacterium rectale erano , pubblicata sulla rivista Gut, che ha rilevato una buona associazione tra alcuni ceppi batterici intestinali e i livelli di citochine e altre molecole infiammatorie, correlata alla gravità della malattia. Le specie batteriche Ruminococcus gnavusRuminococcus torques e Bacteroides dorei erano più presenti, mentre Bifidobacterium adolescentis, Faecalibacterium prausnitzii ed Eubacterium rectale erano più ridotte.

Fonte: Wired.it

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