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Lavoratrici donne: in Italia è sempre più difficile esserlo

Lavoratrici donne: in Italia è sempre più difficile esserlo

  Fonte: Wallstreetitalia.com In Italia nel 2022 le dimissioni convalidate sono state 61.391, con un aumento del 17,1% rispetto al 2021. Ne

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Fonte: Wallstreetitalia.com

In Italia nel 2022 le dimissioni convalidate sono state 61.391, con un aumento del 17,1% rispetto al 2021. Nella stragrande maggioranza dei casi sono state presentate da donne, in particolare mamme, visto che il 72,8% dei provvedimenti, ovvero 44.669 dimissioni convalidate, riguarda le donne che denunciano le difficoltà di conciliazione tra vita privata e lavoro. Questi dati dell’Ispettorato del lavoro non lasciano dubbi: nel Belpaese è sempre più difficile essere mamme e lavoratrici, sembra quasi ormai obbligata la scelta tra l’uno o l’altro ruolo. Il dato è infatti in crescita del 18,7% rispetto al 2021più del doppio rispetto a dieci anni fa quando, nel 2012, le dimissioni delle lavoratrici mamme erano 18.454.

Essere un Paese dove lavora una donna su due significa privarsi del contributo che la metà dei cittadini, anzi delle cittadine, può dare non solo alla crescita ma in generale al miglioramento dell’Italia. Un fattore che acuisce la questione demografica tipicamente italiana, caratterizzata da spopolamento e denatalità. Proprio quest’ultima cozza con il dato delle dimissioni in rosa: malgrado il calo della natalità sia costante negli ultimi anni, le dimissioni delle mamme lavoratrici continuano a crescere.

Se si pone la lente sul dato, si nota che per le donne ad aumentare rispetto all’anno precedente sono soprattutto le dimissioni volontarie (+22,3% contro +14,4% per gli uomini). Mentre, per entrambi i generi, rispetto al 2022 la caduta più significativa si registra nelle risoluzioni consensuali (-44,8% contro -31,9%). Le dimissioni per giusta causa si riducono solo per le donne (-34%) mentre subiscono un leggero incremento (+4,9%) per gli uomini.

Dimissioni volontarie che, per il 63,6% delle neo mamme, sono conseguenza della fatica nel tenere insieme l’impiego e il lavoro di cura dei figli, contro il 7,1% dei padri. In particolare, il 41,7% ha collegato tale difficoltà all’assenza di servizi e il 21,9% a problematiche legate all’organizzazione del lavoro. Nel dettaglio, il 32,2% delle motivazioni relative alle difficoltà di conciliazione riguardano l’assenza di parenti di supporto, l’elevata incidenza dei costi di assistenza al neonato come asilo nido o baby-sitter e il mancato accoglimento al nido. Le motivazioni concernenti le difficoltà di conciliazione dovute all’organizzazione del lavoro o a scelte datoriali, invece, rappresentano il 17,6% del totale delle motivazioni indicate e riguardano condizioni di lavoro particolarmente gravose o difficilmente conciliabili con le esigenze di cura della prole, distanza dal luogo di lavoro, cambiamento della sede di lavoro, orario di lavoro.
Per gli uomini, invece, la motivazione principale che li porta a rassegnare le dimissioni è il passaggio a un’altra azienda (78,9%), motivazione che viene indicata solo dal 24% delle lavoratrici donne.

Il 79,4% dei destinatari delle convalide si colloca nella fascia di età tra i 29 e i 44 anni e il 58% del totale dei provvedimenti si riferisce a lavoratori/lavoratrici con un solo figlio o in attesa del primo figlio. Il che conferma, come sottolinea l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, che la fascia critica per restare nel mercato del lavoro è quella subito dopo la maternità. Di tutte le 44.699 convalide riferite a donne, il 32% è legata alla microimpresa, il 26,2% alla grande e il 22,3% alla piccola.

Le spiegazioni della crescita delle dimissioni delle lavoratrici mamme

Al di là del ruolo materno fondamentale per il primo anno di crescita dei neonati, ad esempio per l’allattamento, una delle possibili spiegazioni del fenomeno è il gap salariale. Le donne infatti hanno in genere un reddito più basso, per cui nel momento in cui in una famiglia si decide di sacrificare uno dei due redditi perché manca un’alternativa valida (nonni a cui affidare i figli o servizi, ad esempio) inevitabilmente il reddito che viene sacrificato è quello femminile.

Una seconda motivazione può essere ricercata nel fatto che la normativa prevede che le donne che lasciano il lavoro entro il primo anno di vita del bambino abbiano la possibilità di accedere alla Naspi. Un supporto temporaneo che può essere efficace economicamente ma, nel lungo periodo, può rendere difficoltoso il rientro nel mercato del lavoro.

La consulenza finanziaria ancora troppo maschile

Anche il settore della consulenza finanziaria non è immune da questo problema. Non lo dimostra solo il fatto che in Italia su cinque consulenti finanziari solo uno sia donna, pari al 22,3% del totale degli iscritti all’albo, ma soprattutto la percezione della collettività che si tratti di un lavoro che occupa molto tempo, rendendo difficile conciliare la professione, spesso libera professione, con le esigenze legate alla vita privata o all’accudimento dei figli.

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