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Il Linguaggio represso

Mentre si accendono furiose diatribe linguistiche e esperti di linguaggio si divertono a concionare su problemi discutibili, iniziamo a renderci conto della totale irrilevanza di questi discorsi

Il Linguaggio represso

C.S. Lewis dice, parafrasiamo, che una volta diventati adulti bisognerebbe abbandonare gli atteggiamenti infantili, fra cui la vergogna d’essere bambi

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C.S. Lewis dice, parafrasiamo, che una volta diventati adulti bisognerebbe abbandonare gli atteggiamenti infantili, fra cui la vergogna d’essere bambini e la smania di crescere. Quindi non sentitevi in colpa se vi viene da ridere, ora che le iscritte all’Ordine degli Architetti di Cagliari si chiameranno architette – lemma già coniato da Lino Banfi in tempi non sospetti, peraltro. Ribadito, alla testosteronica maniera di Mel Gibson, che possono toglierci la vita ma non ci toglieranno mai la stupidissima ironia delle scuole medie da contrapporre, ultimo baluardo, all’irreggimentata marcia della persone serie verso il mondo nuovo identico a quello di partenza, sarebbe utile riflettere proprio sul concetto di irrilevanza – inteso come spartiacque storico fra le lotte sociali prima e dopo la caduta dell’Unione Sovietica, e geografico fra quelle dell’altro mondo e le nostre, in Occidente. Il linguaggio inclusivo è, di per sé, una questione del tutto irrilevante. Si tratta, intendiamoci, di un giudizio neutrale: il linguaggio inclusivo assume rilevanza solo sulla scorta di altre valutazioni – storiche, sociologiche, psicologiche. Consideriamo il traballante discorso di Maurizio Acerbo sull’asterisco antifascista: al netto dell’imbarazzo, il senso si trova, se si trova, proprio nell’utilizzo del linguaggio come strumento politico. “Il linguaggio sessuato è un esercizio di lotta contro il sessismo”, dice Acerbo. Dimenticando, pietosamente, che dai tempi di Bertinotti Rifondazione lotta giusto contro l’infeltrimento dei maglioncini, bisogna capire allora se parlare in questa maniera serva a qualcosa sul piano della parità di genere – altrimenti rimane solo, interessante per versi letterari, lo sperimentalismo linguistico alla Cesare Viviani, l’asterisco cara dopo l’ostrabismo cara.

Comunque sia, questa guerra senza guerra è diventata una pappetta ideologica universale – la vernice rosa addosso alle statue, il veganesimo gentileOdiare ti costa, il Pride – che, nell’ambito del linguaggio, raggiunge i suoi massimi livelli di astrattezza. Vera Gheno, la sociolinguista autrice di “Femminili singolari”, che appare spesso come volto mediatico del linguaggio inclusivo, è un’accademica valida, ma dispone per giunta di un certo genio alla Elon Musk, la capacità di inventare bisogni che pochi avrebbero pensato di avere:

“Abbiamo a che fare con due questioni che in parte sono distinte e in parte si sovrappongono. Da una parte, ci si interroga se sia possibile escogitare una formula alternativa al cosiddetto ‘maschile sovraesteso’ quando ci si rivolge a una moltitudine mista (basta che ci sia una persona di sesso maschile e, secondo la norma dell’italiano, si dovrebbe usare l’accordo al maschile). Dall’altra, recentemente si è aggiunta anche la questione di come rivolgersi a una persona che non si riconosce nel binarismo (cioè, non vuole farsi chiamare né al maschile né al femminile)”.

Vera Gheno

Tanto per cominciare, riconosciamo che Gheno ha più ragioni che torti rispetto ai suoi, spesso banalotti, detrattori. Una lingua, finché viene ancora parlata, è un organismo in evoluzione che non si cristallizza mai in una forma definitiva; termini come architetta sindaca, per quanto brutti siano, sono anche corretti; il linguaggio riflette strutture di potere storicamente sedimentate. L’errore sta in un’inversione del nesso di causalità, implicita ma a volte anche esplicitata; “l’uso dei femminili può davvero servire per rendere più normale la presenza delle donne in certi ruoli”, scrive Gheno.

La polemica sul linguaggio è il sintomo rivelatore di una tendenza crittografica della modernità occidentale. La nostra società non è sessista, è cripto-sessista: intorbida il confine fra iconografia mercificante e positività sessuale, fra inclusività e frammentazione in sacche minuscole di identità tribali, tutte ugualmente impotenti. La repressione non è quella del laogai, è la cripto-repressione esercitata attraverso il cripto-monopolio dell’informazione politica. Ecco l’irrilevanza: in un mondo inclusivo per davvero non serve a niente parlare di linguaggio inclusivo; in un mondo che fa la pantomima dell’inclusività parlare di linguaggio inclusivo allunga solo la sceneggiatura. Il discorso di Gheno e altri è circolare, autoreferenziale, un discorso su sé stesso. Perché il problema non è che le parole sono sbagliate, il problema è che le parole sono troppe. Soffriamo di glossolalia, in parallelo all’iperproduzione di merci produciamo dibattiti, sigle, tassonomie, testi legislativi, tutti in anticipo rispetto alle cose, che non si spostano di un millimetro. Mentre si restringe il gap salariale fra i sessi si allarga la forbice del reddito fra ricchi e poveri, e dunque abbiamo anagrammato la catastrofe. Le parole e le cose, appunto:

“Don Chisciotte legge il mondo per dimostrare i libri. […] la scrittura ha cessato di essere la prosa del mondo; le somiglianze e i segni hanno sciolto la loro antica intesa; le similitudini deludono, inclinano alla visione e al delirio; le cose restano ostinatamente nella loro ironica identità: sono soltanto quello che sono; le parole vagano all’avventura, prive di contenuto, prive di somiglianza che le riempia; non contrassegnano più le cose; dormono tra le pagine dei libri in mezzo alla polvere. […] La scrittura e le cose non si somigliano”.

Michel Foucault

L’asterisco e lo schwa, la comunicazione non ostile, genitore 1 e genitore 2, sono faccende irrilevanti e, quindi, non sono imboscate ideologiche tese ai valori e alla libertà. Sono, invece, un minuscolo sogno totalitario, inconsapevole e sfiatato, il passatempo di gente che gioca ai soldatini con la neolingua di Orwell e finisce per crederci. Plastica e fantasia, poco da temere e poco da sperare: Foucault dice altrove che il discorso non può comunque evadere dal reticolo dell’interdetto, imposto dal potere. E se, invece di annebbiare le cose, alle cose dessimo una possibilità? Lasciate che l’odio parli d’odio, che la rabbia sia arrabbiata, lasciate alla violenza il lessico della violenza, alla battaglia il suono della battaglia. Perché a volte, e non raramente, è giusto così, e anche quando non è giusto almeno rivela qualcosa del mondo, il principio di un discorso. Non come gli altri discorsi, quelli che partono dalla fine: “è passata la vita, / e non ce ne siamo accorti”.

Fonte: L’Intellettuale Dissidente

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