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Scatta lo stop alla plastica monouso in Italia, ma la faccenda è più complessa del previsto

L'Italia salva i prodotti biodegradabili e compostabili con alcune caratteristiche. Una scelta che potrebbe metterla contro la Commissione europea, che però ha intrapreso una strada contestata anche da alcuni ambientalisti

Scatta lo stop alla plastica monouso in Italia, ma la faccenda è più complessa del previsto

Stop alla plastica monouso: da oggi, 14 gennaio 2022, piatti, posate, bicchieri, cannucce, cotton fioc in plastica tradizionale sono fuorilegge anche

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Stop alla plastica monouso: da oggi, 14 gennaio 2022piatti, posate, bicchieri, cannucce, cotton fioc in plastica tradizionale sono fuorilegge anche in Italia. Ma nell’elenco rientrano molti altri oggetti di uso comune, come bastoni per palloncini, bottiglie per bevande fino a tre litri, contenitori in polistirolo espanso, ami e fili da pesca. Resta la possibilità di esaurire le scorte. Roma si è adeguata alla direttiva Sup (Single Use Plastic) di Bruxelles, in vigore dal 3 luglio 2021. Ma lo ha fatto in ritardo e a modo suo. E ora potrebbe rischiare una procedura di infrazione.

La materia è dibattuta. L’Italia è tra i leader continentali nel settore delle plastiche. Da Confindustria ad Assobioplastiche, passando per il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani sono state parecchie le voci critiche rispetto alla normativa europea. “È una direttiva assurda, per la quale va bene solo la plastica che si ricicla. L’Europa ha dato una definizione di plastica stranissima, solo quella riciclabile. Tutte le altre, anche se sono biodegradabili o sono additivate di qualcosa, non vanno bene. La nostra comunità scientifica ha una leadership a livello mondiale sullo sviluppo di materiali biodegradabili, ma in questo momento non sono utilizzabili dall’industria, perché c’è una direttiva europea nuova e assurda”, aveva chiosato a giugno il fisico prestato alla politica.

In gioco, questo il ragionamento, c’è una filiera che dà lavoro a centinaia di migliaia di persone persone per un giro d’affari che, prima di Covid-19, in Italia superava i trenta miliardi di euro. Uno dei casi, non certo il solo, in cui l’obiettivo di realizzare una transizione ecologica di industria e consumi deve confrontarsi con la ragion pratica dell’economia. Un tema emerso con forza anche a Cop26. Ma questa volta, nei panni di chi spinge per una linea attendista ci siamo noi.
I numeri della plastica in Italia

Sono circa diecimila le aziende della plastica in Italia, per la gran parte concentrate al Nord, per un totale di circa 162mila occupati e un giro d’affari da trentadue miliardi di euro (nel 2019, fonte: elaborazione Sole 24 Ore su dati Uniocamere). Quattro regioni (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte) assommano quasi il 70% della produzione italiana. Tra Piacenza e Rimini si concentra, inoltre, buona parte dell’industria che produce macchinari per imballaggio: una vera e propria packaging valley che dà lavoro a ventimila addetti. C’è poi la filiera dell’industria chimica. Le cifre rendono l’idea dell’impatto che le modificazioni normative, dalla plastic tax (rimandata dal governo al 2023) alle direttive di Bruxelles come la Sup possono avere sulle filiere.

Comunità animali e vegetali hanno colonizzato l’enorme isola di plastica nota come Great Pacific garbage patch. Da anemoni a molluschi, sono presenti nel 90% dei rifiuti analizzati

Ma sul piatto di una bilancia in equilibrio precario c’è, ovviamente, anche la questione ambientale. Dall’inquinamento dell’aria (quando il materiale non è smaltito correttamente, bruciandolo) a quello del suolo. Per non parlare dei mari. “Ogni anno in Europa vengono prodotte quasi 60 milioni di tonnellate di plastiche: di queste, quasi seicentomila finiscono nel Mediterraneo – sottolinea a colloquio con Wired Francesca Santoro, specialista di programma della Commissione oceanografica intergovernativa dell’Unesco -. La plastica in mare non solo è dannosa per gli ecosistemi marini, ma anche per le attività economiche. Nonostante una correlazione diretta tra questo tipo di inquinamento e la salute umana non sia ancora stata dimostrata a causa della mancanza di studi specifici, è importante sottolineare che diverse plastiche sono trattate con agenti chimici: ad esempio per renderle modellabili o ignifughe. Quando questi materiali finiscono nell’oceano, gli agenti chimici possono essere rilasciati nell’acqua. Inoltre, le plastiche possono raccogliere e trasportare sostanze chimiche e altri contaminanti ambientali, con la possibilità che vengano diffusi nell’oceano”.

Secondo i dati raccolti dal Gesamp [Gruppo di esperti sugli aspetti scientifici della protezione degli ecosistemi marini delle Nazioni Unite, ndr]  prosegue Santoro –   l’ingestione di microplastiche è stata registrata nell’80% delle specie marittime campionate e si stima che ci siano tra i 5 e i 50 migliaia di miliardi di particelle di plastica di dimensioni superiori ai trentatré millimetri che galleggiano in habitat pelagici. Altri studi rivelano poi la presenza di microplastiche in habitat remoti come le montagne sottomarine, le barriere coralline e le profondità marine”. La conclusione, per la scienziata, è semplice: “La direttiva Sup e il bando alle plastiche monouso costituiscono una pietra miliare per la difesa dei mari e di tutto l’ambiente, aprendo la pista ad una futura riduzione drastica di qualunque tipo di monouso”.

Cosa dicono le norme

Il problema principale non è la plastica in sé, ma la logica del monouso, che porta a un consumo spinto di risorse, ed è su questo che si è concentrata Bruxelles”, prova a rimettere ordine Giulia Novati, ingegnere e membro del think tank Ecco. “Il 3 luglio è stata pubblicata la direttiva europea 904 che metteva al bando alcuni tipi di plastica monouso – spiega -. La norma italiana che la recepisce è il decreto legislativo 196, meno stringente”.

In sostanza, nella versione italiana, “si mettono al bando i prodotti in plastica monouso prescritti della direttiva europea, con l’esclusione di quelli biodegradabili e compostabili che presentano una percentuale di materia prima rinnovabile pari o superiore al 40% per il 2023. Dal 2024, invece, il limite sarà elevato al 60%. L’esclusione di queste tipologie è un’iniziativa del nostro Paese”, chiarisce Novati.

Le pressioni sono state forti. L’Italia è in ritardo di sei mesi rispetto a luglio, quando avrebbe dovuto essere pronta. Confindustria è stata audita dal Parlamento a settembre. Viale dell’Astronomia, contattata da Wired, non rilascia dichiarazioni per il momento. Ma, si legge nella nota emessa a  margine dell’incontro, condivide “pienamente” gli obiettivi di fondo della Strategia europea sulla plastica; tuttavia, il raggiungimento degli stessi “deve essere proporzionato ed effettuato attraverso misure coerenti ed efficaci nei confronti della problematica che si sta cercando di contrastare, ossia quella del littering, e in particolare quello in ambiente marino, e non si condivide l’approccio restrittivo e punitivo delle disposizioni comunitarie nei confronti dei prodotti monouso”.

Confindustria propone di puntare su una strategia nazionale sulle plastiche che comprenda il miglioramento di conferimento e smaltimento (anche attraverso la responsabilità estesa dei produttori), l’ecodesign dei prodotti, segnalando la necessità di strumenti finanziari e incentivi per lo sviluppo di filiere circolari.

Scarseggiano i materiali per le plastiche biodegradabili

Posizione leggermente diversa quella di Assobioplastiche, l’associazione dei produttori di plastica biodegradabili, risparmiati, per il momento, dalla norma italiana. “È chiaro che il testo contiene alcuni aspetti migliorabili – afferma Luca Bianconi, imprenditore e presidente di Assobioplastiche -. Ma le normative spesso scontentano qualcuno: non significa che si sia favorito un settore”. Che, per inciso, da noi va forte. “L’Italia è il paese che produce più bioplastica a livello europeo, con circa 110mila tonnellate annue – prosegue Bianconi -. Si sono riportate in Italia produzioni prima dislocate nel Far East: oggi ci sono 2.800 addetti che lavorano in 280 aziende e sviluppano un mercato da 815 milioni di euro”.

Ma, anche in questo caso, non mancano i problemi, dice l’esperto: “Le materie prime cominciano a scarseggiare: Cina e India si sono affacciate al settore con un’impressionate richiesta. Parlo dei materiali di base con cui si produce bioplastica compostabile, cioè i prodotti intermedi che servono all’industria”.  Un altro aspetto dello sfalsamento, non sempre percepito, tra teoria e pratica.

L’Italia rischia procedura di infrazione?

L’Italia ha provato a tenere insieme le esigenze di industria ed ecologia proponendo un testo non perfettamente allineato con quello di Bruxelles. Cosa rischia? “La Commissione ora è chiamata a esprimere un parere, e verosimilmente chiederà al nostro Paese di adeguarsi”, prevede Mauro Albrizio, responsabile dell’ufficio europeo di Legambiente dall’apertura nei primi anni Duemila. “Se da una parte è vero che la direttiva non è stata recepita in maniera rigorosa – prosegue Albrizio – lo è altrettanto che il testo lascia alcuni margini interpretativi, una zona grigia all’interno della quale è possibile negoziare”. Gli sherpa sono già al lavoro; ma è inutile fare congetture: “Bisogna aspettare la posizione ufficiale dell’Unione europea” .

Se l’interpretazione italiana venisse ritenuta inadeguata, lo scenario che si apre sarebbe quello, estenuante, della burocrazia continentale: la Corte di giustizia dovrebbe validare la posizione della Commissione, che imporrebbe l’adeguamento. Nel caso l’Italia non ottemperasse, l’esecutivo europeo chiederebbe una multa, tornando di fronte ai giudici. Ma la sanzione verrebbe detratta dai contributi che i paesi ricevono da Bruxelles. E dal momento che, come noto, molti denari non vengono neppure spesi, sarebbe di fatto ininfluente. Anche perché il processo richiede in media cinquantaquattro mesi, oltre quattro anni.

Albrizio, tuttavia, ritiene che la strategia del governo sia corretta. “La normativa europea non è troppo rigida, ma non tiene conto di alcune specificità nazionali. Dal mio punto di vista, l’Italia ha operato la scelta più efficace ed efficiente, sia dal punto di vista negoziale sia da quello ambientale. Per risolvere drasticamente il problema plastica è necessario incentivare l’ecodesign, ridurre gli imballaggi plastici e utilizzare plastiche biodegradabili: solo noi, a livello continentale, disponiamo di una raccolta dell’organico che le valorizza”. Il ministero della Transizione ecologica, contattato da Wired, ha preferito non commentare.

Fonte: Wired

 

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