Estero. Una parola in cui è racchiuso uno dei problemi del nostro Paese. Capita di parlare con genitori disperati ed affranti. Quasi tutti si
Estero. Una parola in cui è racchiuso uno dei problemi del nostro Paese.
Capita di parlare con genitori disperati ed affranti. Quasi tutti si trovano con qualche figlio all’estero, emblematico un caso d’un padre in lacrime con ben tre figli spalmati sul globo: uno in Uk, l’altro in Argentina ed il terzo in Australia.
Il dato negativo? Solo una minima parte svolge lavori d’alto profilo (anche perché in Argentina la crisi morde…). Qualcuno (con laurea) è finito a raccogliere pomodori pur di non far scadere il permesso di lavoro. Nulla di male è vero, tutto però induce ad una riflessione: siamo sicuri che questa smania per l’estero sia stata trasmessa con testa?
Corretto, anzi doveroso, consigliare esperienze estere, fanno crescere… chi scrive è nato e vissuto in una realtà bilingue come Bolzano.
Si vivono più culture, ci si adatta, s’impara ad essere più veloce in testa. Detto questo, dopo l’esperienza, sarebbe utile tornare in Italia (e qui lottare per una maggiore considerazione).
Qualcuno preferisce l’estero (trova l’amore o si trova più a suo agio) e va benissimo, ma indurre i ragazzi a lavorare fuori taglia le gambe al Paese, in primis perché chi ha talento diventa un competitor, in secondo luogo perché si spendono soldi pubblici per formare persone capaci, che però fanno crescere altre nazioni.
In mezzo ci mettiamo un sacco di famiglie in stato confusionale, con i figli sparsi per mezzo mondo (spesso insoddisfatti) e con diritti sul lavoro (sono miriadi gli esempi da Europa ed Extra) ben lontani dalla tanto bistrattata realtà italiana. La famiglia di chi scrive sta su quattro continenti, dall’Argentina al Canada passando per l’Australia.
Ma quei parenti se ne andarono intorno al 1900, oggi che l’Italia è la settima potenza mondiale, dobbiamo creare modelli, essere imitati, esportare tecnologia e cultura, non risorse umane, per giunta formate a spese del contribuente.
Il nazionalismo non c’entra nulla, è l’unico modo per rimettere in asse le fondamenta del Paese, già minate da attacchi speculativi e culturali (esiste un filone che tende ad appiattire la cultura italiana in ogni ambito, che ricordo è tra le prime cinque al mondo come faro artistico, musicale e presente in 1500 prodotti industriali che primeggiano, come descritto dallo studio di Fortis).
Il Paese rischia di sgonfiarsi, di diventare anonimo, di perdere quella spinta che dal 1945 al 1992 ha dato agli italiani la possibilità d’essere uno dei Paesi più influenti al mondo. Manca tremendamente una classe intellettuale che ci creda, che contamini con visioni la classe imprenditoriale (messa in angolo e poco aiutata fiscalmente).
Bisogna ricreare (e velocemente) le condizioni perché gli italiani utilizzino la propria creatività per organizzare imprese, lanciare startup (magari che non falliscano dopo 3 anni come osservano più statistiche). Serve che le imprese di Stato riprendano a correre e trascinino l’indotto di qualità formato dalle PMI, urge inoltre riorganizzare i distretti industriali, renderli grandi “officine di rete”, l’unico modo per unire qualità a mercato globale.
Sullo sfondo però serve una UE diversa, che abbandoni l’economia dell’austerità e liberi i bilanci dei singoli Stati, spingendoli a fare rete, a creare consorzi in grado d’essere competitivi in Asia quanto in America.
Per fare tutto questo serve che i giovani stiano qui, l’alternativa è diventare un grande museo al servizio d’annoiati turisti, una triste ed ingloriosa fine per il Paese di Enrico Fermi.
Dott. Marco Pugliese
Founder di Openindustria.