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Pil: un rimbalzo non fa primavera

Al rimbalzo della produzione nazionale e del reddito nello scorso anno non seguiranno anni di facile mantenimento di una crescita sostenuta. Il nuovo shock della guerra all’Est-Europeo dovrebbe svegliare alla dura fatica del costruire un futuro migliore e quindi servire a richiamare governanti e governati a fare di più. L’analisi di Salvatore Zecchini, economista Ocse

Pil: un rimbalzo non fa primavera

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Proprio quando si riteneva che lo shock della pandemia fosse in via di superamento, ecco che un altro giunge a sconvolgere le attese degli italiani e dei mercati a seguito dell’inattesa e barbara aggressione russa all’Ucraina e alle conseguenti sanzioni. Si passa quindi da uno shock all’altro con effetti cumulativi e squilibranti in senso negativo per la società e l’economia europea ed interna. Quella italiana non appare abbastanza preparata ad assorbirne le conseguenze in maniera indolore a causa delle sue strutturali vulnerabilità e per la fragilità della sua ripresa economica.

Quest’ultima è largamente dovuta a una politica monetaria molto accomodante, alle iniezioni ad ampio raggio di spesa pubblica in disavanzo, a incentivazioni alla formazione di capitale e al lavoro, non sostenibili in un lungo arco pluriennale, e all’intensificazione della domanda mondiale e degli scambi commerciali dopo la pausa del 2020. Il rimbalzo dello scorso anno ha superato ogni previsione, benché non abbia ancora consentito un completo recupero di quanto perduto nell’anno precedente.
Il prodotto interno è risalito di circa il 6,3% e le ore lavorate del 7%, mentre gli investimenti fissi e le esportazioni hanno accelerato oltre i ritmi visti nel 2019. La spinta alla crescita non appare, tuttavia, così robusta nell’anno in corso e in quelli successivi, pur essendo sostenuta dai finanziamenti europei e nazionali per tradurre in realtà l’ambizioso programma Pnrr. Un segno di rallentamento delle attività si è già visto negli ultimi mesi in presenza della continua scalata dei prezzi delle materie prime e dell’energia, che ha sconvolto i piani delle imprese e cominciato a incidere sulla propensione ai consumi degli italiani, complici le rimanenti restrizioni sanitarie.

In un contesto già gravido di incertezze non è venuta meno la fiducia e l’impegno nella forza trainante delle opere da realizzare per il Pnrr, ma si è cominciato a ridimensionare le aspettative. La Banca d’Italia, ad esempio, nel suo scenario ha abbassato la stima di crescita per l’anno corrente al 3,8%, a cui seguirebbe un +1,6% nel 2023, ma ha innalzato la dinamica attesa dei prezzi al 3,5% per il 2022. Per l’anno prossimo assume un ritorno dell’inflazione all’1,6% ipotizzando che le tensioni sui mercati dei prodotti primari si attenuino in corso d’anno, ma è un’ipotesi sempre meno plausibile non solo per la persistenza dell’eccesso di domanda rispetto alla capacità produttiva mobilizzabile nel biennio 2022-2023.

Anche nel medio periodo la rivoluzione digitale e quella verde richiederanno quantità crescenti di materiali ed energia la cui produzione è limitata a pochi fornitori o oligopoli, laddove non si vedono massicci piani di investimento per superare queste strettoie. Ad aggravare lo scenario sopraggiungono gli sconvolgimenti prodotti dalla crisi ucraina, le cui conseguenze accentuano le tensioni sui prezzi e non sembrano potersi esaurire in poco tempo. Non è soltanto l’interscambio dell’Italia con i due paesi coinvolti nel conflitto a cambiare il quadro previsionale, ma l’intero panorama economico dal commercio mondiale, alle correnti dei traffici, il settore energetico, i mercati finanziari, e le reazioni di famiglie ed imprese di fronte a una scalata dei costi mai vista in oltre un ventennio.

Pertanto, per i decisori politici, al pari che per gli operatori economici il quesito più pressante oggigiorno consiste nello stabilire in che senso bisogna apportare modifiche agli indirizzi prefissati e come reagire agli sviluppi. Più rischi si stanno accavallando e le risposte a ciascuno di essi non sempre sono compatibili tra loro. La Nota di aggiornamento del Def e da ultimo la Legge di Bilancio avevano definito la traiettoria su cui spingere l’economia, tenuto conto di un insieme di proiezioni sulle variabili esterne riguardanti il persistere dell’accomodamento monetario della Bce, l’uscita della Fed americana dal quantitative easing, l’espansione della domanda mondiale e dell’economia cinese, i corsi dell’energia, dei prodotti primari e dei cambi monetari, e la cadenza temporale del ritorno delle politiche a un normale contesto congiunturale.

Gli ultimi sviluppi del conflitto in Europa ci prospettano, invece, una caduta degli scambi di beni e di servizi con i paesi in lotta, sconvolgimento della logistica, limitazioni nell’approvvigionamento di fonti energetiche esterne, incremento delle spese per la difesa, e maggiori spese pubbliche di parte corrente, che tendono ad aggravare il disavanzo di bilancio e il peso del debito pubblico. Il fattore esterno su cui si continua a contare è il prolungamento dell’accomodamento della Bce per l’intero anno, pur a fronte di un rischio crescente che il permanere dei prezzi di energia e prodotti primari su elevati livelli possa innescare nuove richieste salariali e una rincorsa tra prezzi e salari.

Un’inversione a U dell’orientamento della Bce non sembra tuttavia probabile, ma va messa in conto una graduale uscita con ripercussioni verso l’alto sui tassi d’interesse di mercato. Gli effetti di breve periodo sul costo del debito sarebbero modesti perché la sua durata media supera i 7 anni e il suo servizio assorbe meno del 3% della spesa di bilancio. Effetti più rilevanti si avrebbero nel percorso di rientro del debito/Pil verso il livello del 2019 (134,3%): da un lato la maggiore inflazione gonfia il Pil nominale e sgonfia l’onere reale del debito a lunga, dall’altro lato, pesa l’incognita sulle sorti del Patto di Stabilità, attualmente sospeso. A Bruxelles si parla di un possibile prolungamento della sospensione; tuttavia, molto della sostenibilità del debito dipenderà dal giudizio dei mercati finanziari quando saranno mutati l’orientamento monetario della BCE e in qualche misura quello della Fed americana.

Altrettanto consistenti sarebbero le ripercussioni sulla spesa di bilancio sia per la lievitazione dei costi di diverse voci, sia per i nuovi fabbisogni dettati dal mutamento dell’assetto geopolitico in Europa. Probabilmente dovranno destinarsi maggiori risorse per le esigenze della difesa e per la riduzione della dipendenza energetica dalla Russia, nonché per una maggiore diversificazione geografica delle fonti di importazione oltre che per la transizione verde. Qualche forma di compensazione o aiuto sarà da considerare per le imprese che dovessero soffrire per il congelamento dei pagamenti della Russia.

Un errore che non dovrebbe ripetersi è quello di assegnare risorse per mitigare l’impatto dei rincari energetici su famiglie ed imprese quando è sempre più evidente che le quotazioni dei beni energetici ben difficilmente si porteranno su livelli più bassi nel corso di qualche mese. Se l’inflazione in ascesa dilatasse il gettito fiscale, non sarebbe lungimirante impiegare le risorse aggiuntive per compensare l’erosione dei redditi che è dovuta a un peggioramento, non di breve durata, delle ragioni di scambio tra energia e prodotti industriali. Più a lungo il peggioramento dura, tanto meglio adattarsi e tendere all’efficienza nell’uso di energia e materie di base strategiche. Sarebbe, invece, saggio dedicare più fondi a investimenti che tendessero a riequilibrare il bilancio energetico nazionale, rafforzandone le componenti meno dipendenti dall’estero e il suo apparato infrastrutturale.

In realtà, i maggiori problemi posti dalla crisi nell’est-europeo non stanno nella gestione macroeconomica della congiuntura e della finanza pubblica, ma nel fare avanzare riforme di struttura anche in una fase di decelerazione della crescita e nell’impostare una politica dell’offerta, e in particolare una nuova politica industriale di ampio respiro, evitando di impegnarla nel salvare aziende decotte. Il Pnrr rappresenta in effetti una forma di politica industriale e un programma di riforme che intende potenziare il lato dell’offerta nell’economia. Ma non va considerato come onnicomprensivo, né è sufficiente, perché non può coprire tutte le aree di vulnerabilità e viene attuato in un lungo quinquennio.

Basta qualche esempio. Le misure a favore di una maggiore concorrenza incontrano difficoltà e resistenze ad essere approvate e a incidere nella realtà, come nei servizi pubblici locali. La crescita dimensionale delle Pmi non è affrontata con decisione. I processi per realizzare infrastrutture strategiche, come in campo energetico, non sono stati semplificati ed abbreviati in misura adeguata per una rapida ed efficiente realizzazione, che superi le resistenze locali. La nuova mappa delle aree autorizzate per la ricerca ed estrazione di prodotti petroliferi non va abbastanza nella direzione del maggiore sfruttamento per contribuire all’affrancamento dalle fonti d’importazione. Le famose “autostrade del mare”, di cui si parla da oltre venti anni per ovviare alle strozzature infrastrutturali, sono ancora sulla carta e non nella realtà.

Nelle tecnologie di punta o abilitanti, a parte la digitalizzazione, la presenza del soggetto pubblico è carente come selettore della direzione di marcia e catalizzatore degli investitori privati. Lo spirito d’imprenditorialità non trova quella diffusione nella scuola e nella società che richiederebbe un Paese proiettato a costruire un futuro migliore. I programmi d’insegnamento nella scuola dell’obbligo e nell’istruzione terziaria sono ancora improntati alle passate tradizioni piuttosto che ai bisogni della società avvenire. In contropartita si continua a dilatare l’assistenzialismo in tutte le forme senza curarsi del persistente disavanzo pubblico, del debito poco sostenibile, del preoccupante calo demografico, della necessità di fare salti in avanti di produttività e competitività per preservare il benessere.

Al rimbalzo della produzione nazionale e del reddito nello scorso anno non seguiranno anni di facile mantenimento di una crescita sostenuta. Il nuovo shock della guerra all’Est-Europeo dovrebbe svegliare alla dura fatica del costruire un futuro migliore e quindi servire a richiamare governanti e governati a fare di più.

Fonte: Formiche.net

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