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L’Italia sta spendendo per armi e tecnologie militari più di quel che dice

Dagli euro droni ai caccia Tempest, da fondi per la ricerca sull'intelligenza artificiale ai satelliti per la sorveglianza: la lista della spesa del ministero della Difesa è lunga, il Parlamento sommerso di programmi da approvare e gli acquisti richiedono più fondi di quelli stanziati

L’Italia sta spendendo per armi e tecnologie militari più di quel che dice

Nella sua miliardaria lista della spesa per gli acquisti di armi e tecnologie militari, il ministero della Difesa ha infilato anche 3,88 mil

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Nella sua miliardaria lista della spesa per gli acquisti di armi e tecnologie militari, il ministero della Difesa ha infilato anche 3,88 milioni di euro per una fornitura di loitering munitions. Munizioni orbitanti, che fuor di gergo bellico sono note come droni kamikaze. Piccoli, leggeri (circa tre chili l’uno), pensati per essere attivati da piccoli gruppi di soldati. L’Italia li acquisterà da una società israeliana, UVision, che fornisce anche il Pentagono. E secondo il Documento programmatico pluriennale (Dpp) del ministero della Difesa, un piano delle spese delle forze armate licenziato lo scorso novembre, 3,5 milioni (il 92% del totale) sono già stati mobilitati tra 2021 e 2022.

droni sono tra le voci più finanziate, quasi 2,2 miliardi dal 2021 al 2035. La fetta più grande, 1,8 miliardi, va al programma europeo per uno stormo di velivoli a pilotaggio remoto (Rpa) per missioni aeree di lunga durata a media altitudine (Male) con cui la Difesa vuole potenziare sorveglianza e intelligence, specie sulle rotte dei migranti nel Mediterraneo. Davanti al capitolo droni ci sono pochi programmi bellici per volume di spesa: la prossima generazione di caccia a livello europeo, i Tempest; il progetto di una nuova piattaforma di difesa terrestre per un carro armato; l’acquisto di due cacciatorpedinieri e altri mezzi navali; veicoli tattici (leggeri e multiruolo) e l’ammodernamento della difesa missilistica e la contraerea.

Si comprano mezzi e munizioni, soprattutto. Ma anche tecnologie di frontiera. Come un fondo da 190 milioni per applicazioni di intelligenza artificiale. O uno da 60 milioni dedicato a ricerche nei campi della blockchain, della robotica e del supercalcolo.

Soldi come se piovessero

Nemmeno la pandemia ha fermato le vendite di armi. Stando agli ultimi dati dello Stockholm international peace research institute (Sipri), un centro che studia l’industria militare, nel 2020 le 100 aziende di armi più grandi al mondo hanno totalizzato vendite per 531 miliardi di dollari, l’1,3% in più rispetto all’anno prima e il 17% se comparato al 2015, anno in cui nel monitoraggio sono state inserite anche società cinesi.

Anche l’Italia ha ripreso a foraggiare il mercato. Il Dpp calcola impegni per 12,3 miliardi di euro, ma è una stima al ribasso. Per il programma dei caccia Tempest sono stati stanziati finora 2 miliardi, a fronte dei 6 che costerà la sola voce ricerca e sviluppo. Poi occorrerà staccare un assegno per acquistare i nuovi velivoli. I 2,14 miliardi per progettare una futura piattaforma per carri armati sono “una tranche rispetto al fabbisogno complessivo, in corso di definizione”, scrive la Difesa. E le spese da definire nel dettaglio sono molte.

C’è stata una crescita delle spese militari – osserva Francesco Vignarca dell’Osservatorio Mil€x -. Per i sistemi d’arma siamo passati da una media di 5, 5 miliardi di due, tre anni fa agli 8,2 miliardi previsti per il 2022”. A dare carburante sono i fondi pluriennali di investimento. “Anziché dover rifinanziare il programma di anno in anno, con il rischio di non avere fondi a un certo punto, con un profilo di investimento pluriennale si è sicuri dei soldi fino alla scadenza del programma”, dice Vignarca. Dei 143 miliardi a cui ammontano i fondi pluriennali, circa il 25% è della Difesa: 38 miliardi, di cui la maggior parte (26) per l’acquisto di sistemi d’arma, con un picco tra il 2027 e il 2028.

Una difesa 4.0

A Palazzo Baracchini la linea è che l’Italia debba dotarsi di “tecnologie di alta valenza strategica capaci di facilitare e velocizzare i processi decisionali e gli effetti operativi, in grado di ampliare le capacità di informazione, di intelligence, di comando e controllo”. In prospettiva il ministero insegue il progetto di una forza nec-centrica, dove nec sta per Network enabled capability. Ossia, dice Gianluca Rizzo, presidente della Commissione difesa della Camera in quota Movimento 5 Stelle, “un progetto di ammodernamento dello strumento militare”, pensato per “sfruttare le opportunità offerte dalle moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. “Per esempio – chiosa – le implementazioni nei teatri operativi di droni connessi tramite gli aerei F35 alle unità di terra”. Come ricorda il deputato del Partito democratico, Luca Frailis (sempre in Commissione difesa), il programma “è entrato da poco nella fase sperimentale. La Brigata Pinerolo ha sviluppato per quasi un mese significative attività sul terreno del poligono militare di Torre Veneri a Lecce”.

L’Italia si è dotata di un Centro operazioni in rete (Cor) come coordinamento e difesa per gli attacchi cibernetici”, ricorda il senatore Fabrizio Ortis (per il gruppo misto in Commissione difesa), e “a giugno 2020 è stato avviato il Comando delle operazioni spaziali (Cos), con lo scopo di assicurare la protezione degli assetti spaziali italiani”. Fronti su cui il Paese, dice Tofalo, “ha aumentato i fondi”.

Tuttavia, anche se il digitale è una delle parole chiave del Dpp, per Piovesana “in termini tecnologici ci sarebbe da investire molto di più nella sicurezza delle reti informatiche e di comunicazione digitale per evitare di avere sistemi d’arma super hi-tech ma vulnerabili a cyber attacchi che comporterebbero gravi rischi strategici dato che ogni piattaforma, aereo o blindato che sia, è un nodo connesso con tutta la tua rete”.

Mettere le forze in rete

Di fronte a queste minacce, uno degli appalti cardine è il cloud per la difesa. “Come per i servizi civili, il cloud permette di accedere ai dati da qualsiasi dispositivo creando le premesse per nuove applicazioni e scenari d’uso – spiega Ortis -. Le forze armate hanno pressanti e nuove esigenze in termini di condivisione delle informazioni che partono dal comando centrale fino all’unità proiettata sul campo”.

Finora sono stati stanziati 90,7 milioni, di cui 71 saranno spesi solo dal 2027, ma il dicastero di Guerini già conta di doverne impegnare 600. Il progetto del cloud della difesa si incastra con quello del polo strategico nazionale per la pubblica amministrazione, altro maxi-appalto da 732 milioni di euro affidato proprio a una controllata di Palazzo Baracchini, la società Difesa e servizi. E come per il corrispettivo civile, anche nel caso militare il problema è il ruolo dei fornitori extra-europei e l’uso dei dati, per via delle frizioni tra regole europee e statunitensi (il Gdpr e il Cloud act, nello specifico). Ortis spinge perché “utilizzi il più possibile aziende italiane e che il ricorso a partner esteri sia limitato al minimo evitando rischi per la nostra sicurezza”. Altri 532 milioni servono ad adattare la “capacità multi data link”. Ossia, dice Ortis, “sistemi di trasmissione dati che utilizzano protocolli digitali standardizzati in ambito militare e Nato. Il loro scopo è fornire comunicazioni wireless o wired, preferibilmente utilizzando reti proprietarie o segmenti di rete privati”.

Terra e cielo in connessione

Reti sicure e più potenti servono, per esempio, per rafforzare le capacità di comando e controllo delle brigate dell’esercito. Valore: 1,1 miliardi, di cui metà a carico della Difesa. “Si tratta di investimenti destinati a realizzare un software e un hardware da mettere a disposizione delle unità operative del nostro esercito”, dice Frailis, per comunicare “in condizioni avverse. Condizioni che possono essere determinate da fattori ambientali o da comportamenti ostili. In questo momento abbiamo circa 6.000 soldati impegnati in operazioni fuori area. Dobbiamo garantire un contatto diretto con loro”. “Il digitale incide di più sul rinnovo delle forze terrestri e si vede dall’ammontare delle spese in questa direzione, dice Piovesana.

Nei cieli si sposta la frontiera della sorveglianza. Dallo spazio, con i satelliti, agli stormi di piccoli droni. Sul fronte satellitare, oltre al sostituto di Sicral 1B, che andrà in pensione a fine anno e sarà sostituito da Sicral 3 (390 milioni), la Difesa partecipa alla messa in orbita della costellazione Cosmo SkyMed, affidata a Thales Alenia e Telespazio. Di recente è stato lanciato il secondo di quattro satelliti (costo complessivo 212 milioni), che avrà anche compiti militari. In modalità spotlight può concentrare l’osservazione su piccole aree con una risoluzione fino a un metro.

A livello aereo 1,22 miliardi saranno spesi per la piattaforma Gulfstream G550, un velivolo di ricognizione e sorveglianza. Luca Frusone del Movimento 5 Stelle (Commissione difesa), spiega che “può essere utile per monitorare la situazione dei flussi migratori nel canale di Sicilia e dare un rapido avviso in caso di emergenze in mare o raccogliere quelle informazioni utili a identificare gli scafisti. O come supporto in teatri esteri dando informazioni a terra per la sicurezza di persone e infrastrutture”.

Sarà made in Usa l’aereo, mentre è israeliana l’elettronica. “Per la maggior parte degli aerei che svolgono queste funzioni si usano cellule di aerei civili, modificati per abbattere i costi come nel caso degli Awacs derivati dal Boeing 707 usati oggi da Stati Uniti, Nato, Francia e altri Paesi”, spiega Frusone. Secondo il deputato l’Italia sta risparmiando su questo progetto. “Sarà tra i pochi Paesi ad aver compiuto un’opera di razionalizzazione – dice – per mezzo dell’adozione di una piattaforma unica. Un solo tipo di aereo dal punto di vista della logistica e della manutenzione comporta meno spese rispetto al dover avere i ricambi per diversi tipi”.

Cambio di postura?

Tra i droni di cui l’Italia intende dotarsi ci sono anche i droni kamikaze. Come spiegava l’Osservatorio Mil€x, sono “decisamente più versatili dei classici droni killer perché possono essere trasportati, lanciati e manovrati direttamente da piccole unità isolate di incursori”. È un’arma che costa poco, tanto che i 3,9 milioni messi a budget dal Dpp sono sufficienti per accaparrarsene un ampio numero, e il cui uso è pensato, per esempio, a supporto della missione in Iraq. Che come ricorda Mil€x sarebbe “non combat”, ma che a giudicare dalla scelta del ministero si prepara per altri scenari.

Come l’Italia, tanti altri Paesi si stanno dotando di queste armi. L’anno scorso, di questi tempi, la Israel aircraft industry, una società israeliana di aeronautica, si è assicurata un doppio contratto da 100 milioni di dollari per droni kamikaze da esportare in Asia. Un cielo più affollato in futuro di droni di sorveglianza e di attacco rischia di essere invisibile agli occhi dell’attuale contraerea. La Difesa spenderà 197 milioni per sistemi anti-droni. Altri 200 serviranno a comprare 5 sensori di sorveglianza e ingaggio (radar) Kronos Grand Mobile High Power, che sfruttano sistemi di intelligenza artificiale per “individuare bersagli con bassa radar cross section (misura di rilevabilità di un oggetto da parte di un radar)”, proprio come i droni “e di effettuare classificazione della minaccia acquisita“, spiega Salvatore Sasso Deidda, deputato di Fratelli d’Italia in Commissione Difesa.

Pioggia di carte

Proprio le Commissioni difesa negli ultimi mesi sono state intasate dalla pioggia di decreti spediti dal ministero di Guerini per approvare le sue spese: 31, un record assoluto. Come osservano da Mil€x, in media in 40 giorni le commissioni di Camera e Senato hanno acceso luce verde. Per Deidda, “all’esterno può apparire un alto afflusso, ma questo perché per troppi anni gli investimenti sono stati bloccati”. Gli fa eco Frusone: “Il problema non è il numero dei fascicoli ma il fatto che si concentrino in uno spazio di tempo limitato”. Per il deputato due le principali ragioni: “È inevitabile che dopo numerosi anni molti strumenti sono inadeguati e vanno rinnovati. Inoltre ci stiamo trovando in una fase in cui si sta assistendo a un salto tecnologico importante che richiede investimenti per non soffrire un gap con altri Paesi”.

Altra caratteristica è il voto all’unanimità. Per Rizzo “evidenzia la trasversalità delle problematiche della Difesa”, ma, avverte, “non deve significare che il Parlamento allenterà la sua funzione di indirizzo e controllo”. Tuttavia per Frailis “è ormai sotto gli occhi di tutti gli osservatori che il rapporto tra governo e parlamento è cambiato, purtroppo a vantaggio dell’esecutivo. Paradossalmente la Commissione Difesa su una materia delicata e strategica quale è quella del procurement militare, ha acquisito in tempi recenti poteri rafforzati potendo esprimere pareri vincolanti sui programmi di ammodernamento o acquisizione dei sistemi d’arma. In sostanza, abbiamo acquisito nuove prerogative in un tempo in cui è difficile esercitarle”.

Secondo Frusone, più che il problema dei tanti atti a monte, la questione è a valle: “Quello che manca è uno strumento per seguire lo sviluppo di un determinato progetto, considerando che molti di questi superano i 10 anni e possono arrivare anche ad avere una durata trentennale. Si potrebbero migliorare gli strumenti per fare un valido follow-up degli investimenti fatti. Questo aiuterebbe a capire se si sono centrati tutti gli obiettivi che accompagnavano l’atto iniziale, se si deve correggere il tiro o addirittura chiudere il programma, potendo analizzare gli errori per non ripeterli più”. Da Mil€x ricordano che una proposta c’era, promossa dal Partito democratico e sostenuta dai 5 Stelle: un centro studi e un’autorità di controllo degli appalti militari, che assista il Parlamento come negli Stati Uniti, per accertarsi che la spesa sia appropriata, i programmi siano utili e restino uguali nel tempo. Correva l’anno 2016. Ma l’impegno è rimasto lettera morta.

Fonte: Wired.it

 

 

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