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L’ ibridazione uomo- macchina e l’evoluzione della nostra specie

L’ ibridazione uomo- macchina e l’evoluzione della nostra specie

Il corpo e il contagio Non solo nel periodo della COVID, il discorso occidentale è sempre stato ossessionato dalla nozione di contagio e dalla penetr

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Il corpo e il contagio

Non solo nel periodo della COVID, il discorso occidentale è sempre stato ossessionato dalla nozione di contagio e dalla penetrazione ostile del corpo sano. E non solo nel campo medico, in fondo anche il terrorismo non è altro che la penetrazione di un corpo sociale sano, da cui l’esigenza di spiegarlo in relazione a individui estranei alla società occidentale, individui che corrompono il nostro modo di vivere, “mutano” – proprio come fa un virus – la nostra società diffondendo valori corruttivi.

La penetrazione ostile, l’invasione, ha comportato un’inversione tra dentro e fuori, a partire dal XVI secolo il colonialismo fa si che l’invasore diventi il colonizzato. Di fronte ai genocidi causati dalla “penetrazione” degli europei nei territori colonizzati, dalle malattie portate dagli “invasori” alle quali gli indigeni erano spesso indifesi, si è avuto uno strabiliante rovesciamento. Il corpo dei colonizzati, spesso di “colore”, divenne la sorgente del morbo, dell’infezione, della minaccia di sopraffare la mascolinità bianca europea, e i suoi valori: famiglia, città, civiltà, moralità, religione.

Il “corpo del nero” (ma anche del “rosso” indiano) era visto come un luogo in cui si annidavano malattie facilmente trasmissibili, e in cui l’emergere della malattia, del disordine biologico, era segno, anzi conseguenza, di disordini più profondi, di ordine sociale e morale. Il nero era malato a causa della sua scarsa attitudine morale che rendeva “disordinate” le sue relazioni sociali e quelle con l’ambiente (Jean Comaroff, The diseased heart of Africa: medicine, colonialism and the black body). Gli indiani d’America e i “neri” africani erano divenuti non solo gli invasori del loro stesso territorio (spesso finivano confinati in riserve), ma anche del corpo sociale europeo. Lo stesso ragionamento è stato mutuato in seguito e si è applicato ad altre categorie: le donne, i migranti, i meridionali… Poi dal XVIII secolo nascono le prime politiche urbanistiche, securitarie e mediche come forme di controllo sociale. Ospedali, manicomi e sanatori, insieme alle prigioni, sono luoghi per proteggere, ma anche per inquadrare la popolazione in spazi urbani. È l’uomo a creare gli spazi, ma è anche vero che gli spazi definiscono l’uomo.

La semantica della difesa, dell’invasione, e della guerra, è la stessa che oggi il mondo occidentale utilizza nei confronti del virus: la minaccia verso il nostro sistema immunitario. La retorica è la medesima, alla base il pericolo costante di perdere la nostra individualità attraverso la “fusione”. Il contatto, con la malattia, col diverso, è la fonte del pericolo di perdere il “sé”, inteso come ciò che costituisce la parte integrale di un individuo. Il nocciolo della questione è, quindi, ciò che conta come “individuo”. Tutto il resto è il “non sé”, e suscita una reazione di difesa, proprio come la difesa dei confini dagli immigrati. L’ansia della penetrazione del “confine”, sia esso sociale che personale, corporeo.

Le immagini del sistema immunitario invaso, un tempo dall’AIDS oggi dalla COVID, come campo di battaglia, abbondano nelle pagine dei quotidiani e delle riviste, non solo scientifiche. Il corpo come campo di battaglia, come fabbrica militarizzata.

La minaccia tecnologica

Cyborg: cyb(ernetic) org(anism), essere con parti del corpo organiche e biomeccaniche. Il termine è stato coniato nel 1960 da Manfred Clynes e Nathan S. Kline (medici del Rockland State Hospital di New York) nell’ambito di studi finalizzati all’astronautica.

L’era tecnologica è caratterizzata da un’espansione dell’uso di computer e sistemi di intelligenza artificiale. L’informazione è sempre più disincarnata, e invade ormai tutti gli spazi (le città sono inondate di cartelloni e pubblicità di ogni tipo) e i “corpi” che una volta erano usi a trasportare le informazioni sono sempre più virtuali. Non è certo una transizione semplice, anzi. Economisti e programmatori ci avvertono della necessità di abbracciare le nuove tecnologie, perché solo esse ci consentiranno di superare i problemi della società attuale, dal cambiamento climatico alle crisi sanitarie e economiche. Dall’altro lato giornali e televisioni ci ricordano ogni giorno la catastrofe imminente che porteranno le nuove tecnologie: Facebook (e i suoi simili) ci ruberà l’anima, mentre i robot ci ruberanno il corpo, cioè il lavoro.

La cronaca del nuovo millennio è a dir poco schizofrenica (Frank Pasquale, Le nuove leggi della robotica). Mentre alcuni si meravigliano dei cambiamenti, casomai immaginando la possibilità di “upload” della coscienza in un computer o del teletrasporto stile Star Trek, altri guardano a tutto ciò con rinnovato orrore, immaginando i “mostri” dentro le macchine: siamo noi stessi destinati a diventare dei mostri senz’anima? L’abbraccio con le modernità e le nuove tecnologie ci dannerà per sempre?

Un tempo il classico della narrativa fantascientifica era il robot cattivo che si ribella all’uomo-padrone (come Frankenstein), oggi si parla sempre più di esseri connessi ai computer. Se un tempo la narrativa era dominata dalla paura del diverso, dell’altro, oggi la paura è sempre più della tecnologia che penetra sotto la nostra pelle. Dalla paura dell’invasore alla paura della perdita della propria autodeterminazione.

La paura che la tecnologia che utilizziamo e che utilizzeremo in futuro ci cambierà definitivamente è sempre più forte. Gli aspetti trasformativi coinvolgono ormai l’intero corpo, non solo possiamo essere collegati a una macchina per respirare o per far funzionare correttamente il cuore, o per vedere i colori (Neil Harbisson, nato con l’acromatopsia, o completa cecità ai colori, è considerato il primo vero cyborg), ma possiamo anche ottenere forza sovrumana, visione a raggi X, fino all’aumento della capacità del cervello. Al giorno d’oggi l’umanità è così intrecciata con la tecnologia da esserne ormai dipendente. È sempre più difficile distinguere l’uomo dalla macchina, fissare la linea di confine. E questo è vero specialmente nel campo medico, con le modifiche che l’uomo è in grado di fare, fino alla manipolazione del genoma umano. La violazione dei confini tra uomo e macchina porta a sempre maggiore complessità e all’ibridazione in un mondo sempre più intricato di reti di umani e macchine.

Neil Harbisson

Besnier (Jean-Michel Besnier, L’uomo semplificato) sostiene che la pervasività della tecnologia desostanzializza l’uomo, riducendolo a un’utile elementarità, omologandolo e rendendolo sostituibile. Se da un lato la tecnologia accresce le capacità di interazione, dall’altro sottrae la connotazione dialogica umana sostituendola a quella informativa: l’uomo perde la peculiarità empatica nelle relazioni. Haraway (Donna Haraway, A Cyborg Manifesto) la vede diversamente. Se tutti siamo cyborg allora possiamo essere ricostruiti e migliorati in un’ottica di superamento delle dicotomie che infestano tutt’oggi la società occidentale: uomo/donna, cittadino/migrante, bianco/nero…

Il superamento della condizione umana, sostiene Haraway, potrebbe essere il modo per la ricostruzione della società, delle identità, della sessualità e di tutto ciò che determina contrapposizioni e confini, muri e discriminazioni.

Quindi: l’ibridazione del corpo può determinare delle conseguenze identitarie? L’uomo non sarà più se stesso?

Kōkaku kidōtai

Le preoccupazioni dell’era moderna non sono propriamente nuove, le domande, le paure, sono già esplorate da decenni, principalmente nel movimento Cyberpunk che trova le sue radici in capolavori quali Blade Runner, paradigma però della visione pessimistica dove i cyborg, creature artificiali capaci di provare sentimenti, sono utilizzati come schiavi e dotati di un limite temporale per impedirgli di insorgere sugli umani. La speranza del Cyberpunk è che la fusione tra uomo e macchina abbia lo stesso effetto sulle identità personali che città multiculturali come Hong Kong hanno avuto sulle identità collettive.

Il Giappone post-nucleare ha la sua forza nel riuscire ad integrare la tecnologia più avanzata all’interno della sua mentalità, che da sempre rigetta le opposizioni binarie (tipicamente occidentali), come dimostra il pensiero Zen. Siamo nel 1989, Hong Kong è la città multiculturale per definizione, e il Giappone si ritrova nel pieno della rivoluzione tecnologica con le mille paure che essa porta, quando viene pubblicata l’opera di Shirow Masamune, dal titolo “Squadra mobile con corazza offensiva” (Kōkaku kidōtai), che al di fuori del Giappone prenderà il nome che poi la renderà famosa: Ghost in the Shell.

Il personaggio principale del fumetto (manga in giapponese) è il maggiore Motoko Kusanagi, un “full cyborg” con il ghost, lo spirito, l’anima, riversato dalla nascita o dalla tenera età (ci sono differenze tra fumetti, film e serie tv ispirate ai fumetti) in uno shell, il guscio, un corpo interamente meccanico. Ambientato nel 21 secolo, il fumetto vede l’intera popolazione interconnessa alla Rete, con possibilità di comunicare mediante impianti installati direttamente nel cervello. I cyber-cervelli consentono di espandere le funzionalità del cervello umano, permettendo addirittura di scaricare contenuti in memorie esterne poi raggiungibili via Internet. Protesi e innesti robotici la fanno da padrone nel fumetto e nelle successive incarnazioni filmiche e televisive, per rimpiazzare organi danneggiati o per migliorare le prestazioni del corpo umano.

Ma la caratteristica del fumetto è l’estrema fluidità tra generi, non solo l’intelligenza artificiale e la biogenetica rendono indistinguibili gli umani dai cyborg, ma la possibilità di scaricare il ghost in un altro corpo consente ad un uomo di vivere letteralmente in un corpo di donna e viceversa. Senza dimenticare la possibilità di ibridazioni che vedono individui ormai non facenti parte più di nessun genere sessuale (nel fumetto ad un certo punto si incontra un personaggio che non è altro che un cervello inserito in una scatola semovente).

L’elemento caratterizzante gli esseri umani, e quindi l’unico che permette di distinguerli dai cyborg, è ritenuto il ghost, la mente, l’essenza dell’essere umano, tutto ciò che definisce cosa è un “essere umano”, la sua identità. Fino a quando non entra in scena il Maestro dei pupazzi (the Puppeteer), un pericoloso cybercriminale che si rivela un’intelligenza artificiale particolarmente avanzata nata all’interno di un progetto governativo segreto e poi sfuggita al suo controllo (e fin qui è come uno Skynet qualunque). Il Maestro dei pupazzi è una AI che ha preso coscienza di sé e rivendica di essere accettato come forma di vita al pari degli umani. Il problema è che lui non ha un ghost, non ha l’anima, quindi non rientra nella definizione di “essere umano”, pur comportandosi a tutti gli effetti come tale. Cosciente dell’impossibilità di essere accettato al pari degli esseri umani il suo scopo è fondersi con il maggiore Kusanagi per ottenere un ghost, per creare una nuova forma di vita, uno stadio superiore di evoluzione. È un cambio narrativo epocale. A differenza della fantascienza occidentale qui non c’è contrapposizione tra uomo e macchina, ma tutto tende verso la sintesi, una realtà nuova e diversa (la Aufheben di Hegel), forse misteriosa ma non per questo necessariamente negativa.

Nel manga l’ibridazione è massima, con umani che hanno meccanizzato i loro corpi fino a che di loro non è rimasto altro che la mente. Ovviamente anche Shirow individua i pericoli di tale salto tecnologico: in un mondo nel quale la conoscenza è potere, le interfacce neurali possono essere nuovi strumenti di sorveglianza e controllo e aprono la strada a nuovi tipi di crimini, come il mind-jacking, il controllo a distanza del corpo altrui. Ma l’opera di Shirow è interamente pervasa da un lato spirituale. Il ghost, l’anima, è capace di interfacciarsi tramite impianti neurali e vagare libera nella Rete, fino ad immergersi nelle profondità delle altre menti, consentendo di comprendere e condividere le loro esperienze. Come Haraway, anche Shirow ritiene che il cyborg potrebbe essere il prossimo passo della nostra evoluzione, che la fusione delle individualità, l’ampliamento della prospettiva, potrebbero essere un percorso verso l’illuminazione. E il superamento delle problematiche della società moderna. Il corpo del maggiore Kusanagi diventa, quindi, l’oggetto di discussioni sull’identità; la capacità di cambiare il corpo a seconda delle circostanze offre un’opportunità unica di comprendere che il corpo non è altro che un prodotto di continue citazioni e reiterazioni.

Derivato dal manga, l’anime (cioè il film di animazione) di Mamoru Oshii del 1995 insiste sul fatto che siamo individui solo a causa dei nostri ricordi. Invece il film live action del 2017, prodotto dagli americani, si discosta non poco (oltre ad avere i classici problemi di whitewashing). Si incentra sulla figura dell’eroe americano che agisce (“ci aggrappiamo ai ricordi come se ci definissero, ma ciò che facciamo ci definisce”), ad indicare che chi sei è definito da ciò che fai. Si rifugge la tecno-dipendenza cercando di constatare la perdita di specificità umana e sostenendo l’immodificabilità della natura dell’uomo. Noi occidentali troviamo la fluidità estremamente minacciosa, c’è di mezzo il cristianesimo, l’anima indivisibile come dono di Dio, il corpo unico da preservare (il suicidio è peccato). Secondo Shirow, invece, la fusione può essere trasformativa e portare ad una evoluzione della coscienza, fino a “diventare parte di tutte le cose”. La mutazione non è una violenza fisica e spirituale imposta (come in Terminator Genisys), ma un meccanismo di comprensione dell’altro: “Il tuo sforzarti di restare ciò che sei è il tuo vero limite” dice il Puppeteer a Kusanagi, mentre il cambiamento è il segreto della sopravvivenza.

Fonte: Valigiablu.it

 

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