I tempi cambiano e così le conoscenze che abbiamo, ma spesso fatichiamo ad aggiornare i nostri schemi mentali. Per esempio l’idea che la salute sia so
I tempi cambiano e così le conoscenze che abbiamo, ma spesso fatichiamo ad aggiornare i nostri schemi mentali. Per esempio l’idea che la salute sia solo un fatto che dipende dal corpo, dalle nostre cellule, o dal contesto ambientale e sociale in cui viviamo. Ma in questa visione da “panino” forse ci si dimentica che è proprio ciò che sta in mezzo che fa la differenza.
Ciò che sono e la mia psiche coincidono così tanto che questa psiche finiamo per non considerarla, per non vederla. Tranne quando sta male, ci fa soffrire. Quindi sembra che ci dobbiamo occupare di lei solo quando stiamo male. Se lo facciamo fuori dalla sofferenza stiamo esagerando? Siamo vittime di una moda?
Quando si è compreso che i costi per curare le conseguenze della sedentarietà o di altri fattori, le malattie che stanno aumentando anziché diminuire, si è cominciato a puntare sulla prevenzione e sulla promozione di attività che aiutano il corpo, il suo sviluppo e le sue funzioni.
E la psiche? È dalla prima rivoluzione industriale che si è cominciato a parlare di “alienazione”, il contesto di vita aumentava il benessere materiale e comprometteva il benessere della psiche. L’aumento dei problemi psicologici viene da lontano, non è solo figlio delle emergenze o delle contingenze. Viviamo in un contesto sempre più “meccanizzato” che identifica la psiche con i circuiti cerebrali e pensa che sia tutta una questione di byte. Ma la psiche non è un cumulo di dati, è la capacità di mettere in relazione questi dati, di dargli senso e di unirli con le nostre sensazioni ed emozioni, di creare equilibrio tra la performance e i sentimenti, tra l’essere e l’apparire, tra l’Io e il Noi.
Oggi ci preoccupiamo della punta dell’iceberg, cioè delle malattie mentali perché è la parte più visibile del problema. Ma se non prendiamo atto che il problema non è solo “curare” ma “aiutare” la psiche non andiamo da nessuna parte. Vediamo le conseguenze ma non le cause. E’ come se avessimo affrontato il Covid solo con gli ospedali. Sono servite misure di prevenzione e assistenza nel territorio, così serve una Psicologia che cura e una che fa prevenzione e intercetta il disagio per impedire che si trasformi in altro.
I costi del problema e di una strategia che lavora solo a valle, pensando di poter semplicemente usare le categorie “sano/malato”, come se in mezzo non ci fosse un mondo, sono evidenti, in particolare agli economisti. Basti pensare alla London School of Economics che ha portato alla nascita dei “centri per il benessere psicologico” in Inghilterra o al Word Economic Forum che ha messo il malessere della psiche tra le emergenze, da affrontare con una strategia “a monte”, mediante azioni e programmi diffusi di che fanno leva sulle infrastrutture sociali, a cominciare dalla scuola. Oppure all’OMS che già dal 1994 ha indicato la necessità di utilizzare la Psicologia per sviluppare le “life skills” cioè competenze psicologiche (cognitive, emotive, relazionali, comportamentali) per affrontare efficacemente i percorsi e le sfide della vita.
“P come Prevenire: solo soluzioni globali, preventive e lungimiranti possono risolvere i tre debiti del genere umano: socio-economico, ambientale e cognitivo” scrivono Vineis, Carra e Cingolani nel loro recente libro “Prevenire”. Una versione moderna e attuale dell’antico e saggio monito che se vuoi davvero aiutare qualcuno che ha fame non basta dargli il cibo ma è meglio insegnagli a procurarselo.
Sui banchi dell’Università ho imparato la specificità del modello psicologico, che non separa mai la logica riparativa da quella di promozione delle risorse personali, perché punta a sviluppare il ruolo adattivo della psiche, realizzativo di noi stessi, la capacità di costruire significato, equilibri e relazioni.
Sono passati molti anni ma questo approccio è sempre più attuale e sempre più abbiamo bisogno di metterlo in pratica.
Fonte: Huffpost