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Ora parliamo di direct investing e non più di Etf

La tecnologia sta rivoluzionando anche il modo di fare investimenti passivi

Ora parliamo di direct investing e non più di Etf

Parliamo di Fintech e investimenti passivi. Gli investimenti passivi, quelli in cui il gestore non fa nient’altro che replicare un indice di mer

Wall Street Journal: l’insurtech è il nuovo fintech
What’s next for blockchain?
Yes, the tech giants are big – in truth, probably too big to break up

Parliamo di Fintech e investimenti passivi. Gli investimenti passivi, quelli in cui il gestore non fa nient’altro che replicare un indice di mercato, sono enormemente cresciuti di popolarità nell’ultimo decennio. Le ragioni non mancano: sono semplici, economici in termini commissionali, diversificano i rischi finanziari, e molto spesso hanno performance migliori di quelle dei fondi attivi, in cui i gestori provano a “battere il mercato” (cosa che riesce raramente).

Fino a ora parlare di investimenti passivi ha coinciso con parlare di ETF, cioè “Exchange Traded Fund”: andando alla sostanza delle cose, fondi comuni quotati in Borsa che replicano indici di mercato. Ma ora, grazie a nuove tecnologie a disposizione degli operatori e alla collaborazione tra aziende Fintech e colossi bancari, si è affacciata sul mercato quella che molti considerano l’evoluzione naturale degli ETF: il direct investing. Svariati grandi attori del mondo finanziario, tra i quali Vanguard, BlackRock, Morgan Stanley, Fidelity, hanno infatti recentemente effettuato acquisizioni di aziende Fintech dotate della tecnologia necessaria ad attuare il direct indexing, e hanno piani piuttosto grandiosi in merito.

Ma, esattamente, che cos’è il direct indexing? E perché c’è questo fermento?

Per capirlo, partiamo dagli ETF. Quando un risparmiatore acquista un ETF, per esempio sul popolare indice di Borsa statunitense S&P 500, sta praticamente acquistando un fondo che a sua volta investe nei titoli che compongono l’indice (o in altri strumenti finanziari che consentono di farlo). Invece, attraverso le piattaforme di direct indexing, il risparmiatore acquista direttamente i titoli necessari a replicare l’indice. Quindi, anziché trovarsi sul proprio conto l’ETF, il risparmiatore si trova in possesso delle centinaia di titoli che costituiscono l’indice. Può anche scegliere più indici e poi combinarli, e allora avrà ancora più titoli. Che dovrà vendere e comprare, regolarmente, per ribilanciare la composizione del portafoglio in modo che continui a riflettere quella dell’indice, che cambia nel tempo.

Ora, se questa cosa in sé vi pare più che altro una complicazione, nonostante l’aiuto della tecnologia, siete parzialmente nel giusto. Le ragioni principali per complicare in questo modo il portafoglio dei propri investimenti sono due: le tasse e la personalizzazione.

Partiamo dalle tasse. Qui il beneficio fa gola. Già, perché possedere direttamente i titoli permette di diminuire gli oneri fiscali, visto che le perdite su alcuni titoli compensano i guadagni su altri, de facto riducendo l’imponibile. Con un portafoglio di fondi o ETF, invece questo non avviene: sui guadagni si pagano le tasse, mentre sulle perdite si matura un semplice credito d’imposta. Non c’è compensazione. Il che risulta piuttosto fastidioso ai più (oltre ad essere una vera barbarie fiscale). Invece il direct indexing consente questa compensazione, con una riduzione del carico fiscale potenzialmente importante, che può far felice più di qualche risparmiatore abituato a fondi, ETF e alla loro bizzarra asimmetria fiscale.

Poi c’è la personalizzazione. Per esempio, immaginate che un risparmiatore desideri investire nell’indice S&P 500 ma, dopo i recenti scandali che hanno travolto Facebook, non desideri per motivi etici detenere il titolo Meta (holding a cui appartiene Facebook). Bene, un buon algoritmo di direct indexing è in grado di replicare accuratamente l’indice S&P 500 anche senza acquistare il titolo Meta. È evidente che, vista la crescente sensibilità degli investitori verso temi di sostenibilità economica, sociale e di governance (ESG), la possibilità di escludere dal proprio portafoglio aziende considerate indesiderabili sia un beneficio non da poco.

Il direct indexing forse sembra banale ma non lo è: è reso possibile dall’innovazione tecnologica e sarebbe stato inconcepibile solo fino a pochi anni fa, quando intermediari come Robinhood non esistevano. Infatti, per offrire questo servizio anche a investitori medio-piccoli, che investono poche migliaia di euro, servono innanzitutto piattaforme di esecuzione degli investimenti in grado di operare in modo fluido su vaste quantità di clienti e di titoli, acquistando anche solo piccole frazioni di essi, visto che alcuni hanno una quotazione in assoluto elevata – pensate ad esempio all’azione di Alphabet (Google), il cui prezzo si aggira oggi sui 3000 dollari.

Poi, per replicare con un piccolo capitale indici costituiti da centinaia o migliaia di titoli, servono algoritmi in grado di costruire portafogli che “mimano” il comportamento di un indice possedendo solo un sottoinsieme astutamente selezionato dei titoli che lo costituiscono. Altrimenti la somma necessaria per acquistarli tutti sarebbe eccessiva. Questo tipo di algoritmo non è certo una novità, ma senz’altro l’attuale diffusione del machine learning – e di piattaforme tecnologiche che lo rendono operativo con grande efficienza – facilita il compito.

Parlando di costi, negli USA, dove il direct indexing comincia davvero a prendere piede, l’incidenza dei costi (circa 0,20% all’anno in media) è grosso modo allineata agli ETF. In Europa, e soprattutto in Italia, il fenomeno è ancora una novità assoluta, ma si parla comunque di costi bassi.

Assodato che il direct indexing è una forma di democratizzazione finanziaria che consente al privato cittadino di emulare una multinazionale finanziaria che gestisce ETF, resta però da domandarsi quale tipo di risparmiatore ne abbia davvero bisogno. Soprattutto perché esistono migliaia di ETF che consentono di investire in qualsiasi cosa, ovunque, semplicemente, e per giunta a costi bassi.

Di certo la dimensione patrimoniale non è la discriminante principale. Le soglie di accesso al direct indexing si sono infatti abbassate drasticamente negli USA (oggi basta mettere sul piatto qualche decina di migliaia di dollari) e il trend continua: in Italia vi sono aziende che puntano nel breve a offrire il direct indexing per somme inferiori a diecimila euro. Quindi, è probabile che questa novità guidata da tecnologia e iper-personalizzazione dei servizi finanziari non sia una “cosa da ricchi”. I più interessati inizialmente saranno invece investitori esperti e appassionati, attenti alla fiscalità, interessati a strategie sofisticate e a temi ESG, oltre che solleticati dal fattore novità.

Fonte: Huffingtonpost.it

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