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Come cambiano i rapporti Usa-Cina dopo la vittoria di Trump

Come cambiano i rapporti Usa-Cina dopo la vittoria di Trump

Il neo-presidente minaccia guerra di valute e dazi al 45% sulle importazioni. Ma nessuna delle mosse gli conviene. Ecco perché piace a Pechino

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Il neo-presidente minaccia guerra di valute e dazi al 45% sulle importazioni. Ma nessuna delle mosse gli conviene. Ecco perché piace a Pechino

Ha agitato lo spettro di dazi al 45% sulle importazioni dalla Cina. Si è lanciato in accuse iperboliche, dichiarando ad esempio che “non possiamo più permettere che la Cina strupri il nostro Paese”. Ha lanciato il guanto della sfida sulla svalutazione delle monete. Eppure le minacce di Donald Trump, 45esimo presidente eletto degli Stati Uniti, non sembrano far presa su Pechino. Al contrario, Chuanpu, come è stato traslitterato il cognome del magnate in mandarino, è persino risultato il candidato preferito dai lettori del quotidiano Global Times. Alias una delle voci del Politburo. Come dire che a Pechino non dispiace che The Don sia il nuovo inquilino della Casa Bianca, a dispetto delle sparate elettoraliattraverso cui il tycoon vuole ricostruire l’economia a stelle e strisce contrastando il libero commercio. Protezionismo, in una parola. Come scrivono gli analisti della banca Hsbc (The Hong Kong and Shanghai Banking Corporation), Trump intende dare mandato al segretario del Tesoro perché stigmatizzi la Cina come un Paese che manipola la valuta (punto 5), e ordinare al rappresentante del Commercio degli Stati Uniti di sollevare cause commerciali contro Pechino, nel Paese e davanti all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). “L’atteggiamento sussidiario della Cina è scorretto ed è proibito dai termini del suo ingresso nel Wto”, predica il piano di Trump al punto 6. Infine (punto 7) sfruttare tutti i poteri concessi della carica presidenziale per fermare le “attività illegali” dei cinesi, compresi “i furti di segreti industriali americani”, applicando dazi più alti come previsto dalle sezioni 201 e 301 del Trade Act del 1974 e la sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962.

Come risponde Pechino? “Ritengo di alto valore le relazioni fra Cina e Stati Uniti, e non vedo l’ora di lavorare insieme per estendere la cooperazione Cina-Usa in ogni campo, a livello bilaterale, regionale e globale, sulla base dei principi del non-conflitto, non-scontro, rispetto reciproco e collaborazione vantaggiosa per tutti“, ha dichiarato il presidente cinese Xi Jinping per complimentarsi con Trump dopo l’elezione. Come dire: accogliere a braccia aperte uno che ti promette un pugno.

Dare addosso alla Cina è cosa comune in America da 30 anni, non bisogna farsi impressionare – è la spiegazione di Alberto Forchielli, imprenditore, tra i fondatori di Mandarin Capital Partners e presidente di Osservatorio Asia -. Non c’è candidato che in campagna elettorale non dia addosso alla Cina”. Solo sparate elettorali, quindi? “Il 60% delle importazioni di prodotti cinesi negli Stati Uniti sono fatte da imprese statunitensi – prosegue Forchielli -. Mettere i dazi significa tirare la zappa sui piedi alle aziende degli Usa, perché si penalizzerebbero le aziende americane che producono in Cina e importano”. Un nome su tutti: Apple.

L’anno scorso, scrive Hsbc, il 19,5% della produzione del Dragone è stata destinata al mercato a stelle e strisce. “Il deficit commerciale degli Stati Uniti verso la Cina è di 350 miliardi di dollari all’anno, 30 miliardi al mese”, aggiunge l’imprenditore. “Dazi sulle importazioni così alti non piacerebbero ad Apple, ad esempio – osserva la sinologa Elisabetta Esposito Martino ed editorialista de Il Caffè Geopolitico -. Non dimentichiamoci che quando la Cina finanzia l’estero, vuole in cambio un riscontro a livello di competenze tecnologiche. Oggi sta maturando un know how per competere con gli Usa”.

Anche secondo gli esperti di Hsbc è improbabile che tariffe doganali al 45% possano incassare l’ok del Congresso, tuttavia nel rapporto indicano che sono plausibili “dazi e sanzioni contro Cina e Messico”. Ne sarebbero colpiti i flussi commerciali da questi due Paesi ma, per Hsbc, anche quelli da nazioni “con un’esposizione minore verso il mercato statunitense”. L’intero Oriente potrebbe risentire un attacco frontale alla Cina.

Se le politiche agitate da Trump andassero a segno, per Hsbc la Cina ne risentirebbe sul lungo termine, visto che nel breve potrebbe fare affidamento “sul largo mercato interno e su un molte munizioni politiche per sostenere la crescita”. Effetti negativi si allargherebbero al Giappone, che potrebbe ritrovarsi in recessione, mentre India e Indonesia, per via nei minori volumi di interscambio, sarebbero più immuni al contagio. Pechino, inoltre, non resterebbe con le mani in mano, ma le autorità potrebbe rispondere con sanzioni e dazi altrettanto punitivi, scatenando una reazione a catena. Ne soffrirebbero anche gli Stati Uniti. “La possibilità di una strategia del genere – si legge nel rapporto di Hsbc – potrebbe indurre Trump e i suoi consigliere a prendersi una pausa per pensare”.

Al contrario, persino una politica protezionistica e ombelicale come quella di Trump potrebbe beneficiare da rapporti più distesi con il Dragone, ad esempio dall’aumento degli investimenti diretti di aziende cinesi negli Stati Uniti. Detto in altro modo, posti di lavoro per gli americani.

Dalla crisi finanziaria del 2008-2009, l’economia cinese si è già significativamente ribilanciata, allontanandosi dall’export – osserva Qu Hongbing, capo economista Cina di Hsbc -. La percentuale di esportazioni nette sul Pil a fine 2015 era del 3,4%, in calo rispetto all’8,6% prima della crisi”. “Se gli Stati Uniti diventeranno più protezionisti sotto Trump, questo darà alla Cina più ragioni, non meno, per elevare la catena del valore. Inoltre potrà accelerare la spinta della Cina a diversificare i mercati verso cui esporta, orientandosi più verso quelli emergenti e generando più impulso verso progetti come One belt one road”.

Cos’è, in breve, One belt, one road: un ampio programma di infrastrutture per collegare la Cina con l’Europa, il Medioriente e l’Africa e facilitare gli scambi commerciali. È stata ribattezzata la nuova via della seta, sia di terra sia di mare. Proprio le rotte navali sono al centro delle contese internazionali tra Pechino e gli stati che si affacciano sul Mar cinese meridionale. Considerato “mare nostrum” dal Dragone, è il canale in cui transita il 60% delle merci mondiali.

La Cina si è resa conto che una grande potenza non è tale se non è una potenza navale – spiega Esposito Martino -. Se ne era accorto il secondo imperatore della dinastia Min, che costruì una flotta impressionante dal 1405 affidata all’ammiraglio Zheng He”. A bordo di navi colossali, al cui confronto le caravelle di Colombo, imbarcazioni già piccole di loro, sarebbero parse zattere, Zheng He ha solcato l’Oceano indiano, stabilendo rotte con l’Africa, nella breve parentesi navale dell’impero Min, colata a picco con la medesima flotta negli anni Trenta del quindicesimo secolo.

Oggi il mito è stato rispolverato, ma la presidenza Obama finora ha frustrato le ambizioni cinesi. La politica “Pivot to Asia”, che prevede il contenimento di Pechino, “è stata stigmatizzata da Trump”, ricorda Martino. “Un suo disimpegno nelle politiche orientali piace alla Cina – prosegueForchielli -. Trump dovrebbe trovare solo un accordo per avere diritto alla navigazione in quelle acque”.

I cinesi sono contenti di uno come Trump – chiosa Forchielli -. Soffrivano più un personaggio come Hillary, che è più falco, più scientifica, ha un approccio più mirato, li conosce e sa gestirli. Al contrario, Trump è pragmatico, si può trovare un accordo”.

Anche la battaglia sulla svalutazione appare talmente in perdita per entrambi i fronti da non valere lo sforzo. “Trump ripetutamente definito al Cina “manipolatrice di valuta” durante la campagna elettorale – osserva Qu -. Alcuni commentatori ritengono, per esempio, che la Cina potrebbe vendicarsi attraverso il canale finanziario, vendendo le sue quote del Tesoro americano. Una risposta alternativa e più radicale vedrebbe una netta svalutazione dello Renminbi. E nello scenario possibile che anche altre valute asiatiche si indebolissero, questo potrebbe facilmente tradursi in un rafforzamento del dollaro, che minerebbe l’attività economica statunitense”. Una prospettiva in perdita per Pechino e Washington che, conclude Hsbc, non converrebbe a nessuno. Durante un’intervista a Cnn Money, Jack Ma, il fondatore di Alibaba e uno dei più facoltosi business man cinesi, ha avvertito Trump: “Se non lavoriamo insieme, sarà un disastro”.

wired.it

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