Nonostante il crescente impegno di istituzioni internazionali e associazioni non governative per limitare il fenomeno dello ‘spiaggiamento’ (beach
Nonostante il crescente impegno di istituzioni internazionali e associazioni non governative per limitare il fenomeno dello ‘spiaggiamento’ (beaching in inglese) delle vecchie navi da demolire, il 2018 è stato un anno da record (negativo) per il numero di unità smaltite lungo le coste del Far East, in strutture che non rispettano un livello minimo di standard in materia di sicurezza del lavoro e tutela dell’ambiente. In questo contesto, però, l’Italia ha migliorato la sua posizionerispetto all’anno precedente.
A certificarlo, i dati di Shipbreaking Platform, ONG (organizzazione non governativa) che da anni si batte contro il ‘beaching’ e che raccoglie informazioni relative a questa pratica, tentando di renderne evidenti al grande pubblico gli effetti negativi.
Secondo i numeri recentemente forniti dall’associazione – fondata a guidata dall’attivista Ingvild Jenssen – lo scorso anno sono state vendute per demolizione un totale di 744 navi oceaniche: di queste, 518 sono state demolite sulle spiagge di India, Pakistan e Bangladesh, in cantieri, se così si possono chiamare, che Shipbreaking Platform giudica assolutamente sub-standard.
In termini di stazza lorda (la misura del volume, e quindi delle dimensioni, di una nave, espressa in tonnellate), sono state spiaggiate oltre il 90% delle navi uscite dal mercato lo scorso anno, percentuale che costituisce un primato, ovviamente negativo, finora mai raggiunto secondo la ONG con base a Bruxelles.
L’Italia (non si parla del Paese in sé, ma del complesso di armatori italiani), però, lo scorso anno ha migliorato notevolmente la sua posizione, spedendo sulle spiagge del Far East solo 2 navi sulle 8 demolite in totale. Risultato non ottimale, ma che costituisce una decisa svolta positiva rispetto a quello del 2017, quando gli armatori del Belpaese avevano venduto per demolizione un totale di 16 navi, di cui ben 11 avevano terminato la loro vita spiaggiate in India e Bangladesh.
La maglia nera del 2018 va invece agli Emirati Arabi Uniti, con 61 navi demolite sulle spiagge asiatiche, seguiti da Stati Uniti, con 57 navi, e Grecia, con 53 navi.
“Quelli del 2018 sono numeri scioccanti” ha dichiarato Ingvild Jenssen, commentando i dati raccolti dalla sua associazione. “Nessun armatore può sostenere di non conoscere le condizioni dei cantieri che si trovano sulle spiagge asiatiche, eppure continuano a vendere le loro navi a questi demolitori sub-standard, perché sono quelli che pagano il prezzo più alto. Ma i danni causati da questa pratica sono evidenti: i lavoratori rischiano le loro vite e vengono esposti ad agenti tossici, e l’ecosistema delle coste interessate dal fenomeno risulta gravemente danneggiato. Gli armatori hanno la responsabilità di vendere le loro navi a cantieri che dimostrano di investire nella sicurezza dei loro dipendenti e nella tutela dell’ambiente”.
Secondo Shipbreaking Platform, nel 2018 sono morti 35 lavoratori impegnati nello smaltimento di navi sulle spiagge asiatiche. L’organizzazione ha documentato almeno 14 morti sul lavoro ad Alang, in India, facendo di quello appena concluso uno degli anni peggiori per i cantieri indiani. Altri 20 lavoratori sono morti, e 12 rimasti gravemente feriti, in Bangladesh, mentre in Pakistan una fonte della ONG ha confermato 1 decesso e 27 casi di ferimento.
Nel 2013, proprio per tentare di combattere la pratica del ‘beaching’ l’Unione Europea ha varato un regolamento(entrato poi effettivamente in vigore a fine 2016) che impone agli armatori comunitari di far smaltire le loro navi in cantieri giudicati rispettosi della sicurezza e dell’ambiente dalla Commissione, che ha stilato e aggiorna costantemente un’apposita lista di strutture approvate (l’unico cantiere italiano ‘validato’ dall’UE è il genovese San Giorgio del Porto, che insieme a Saipem ha demolito la Costa Concordia).
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