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Perché nel 2030 in Italia ci saranno 2 milioni di lavoratori in meno

Nei prossimi otto anni previsto il tracollo degli «occupabili», in particolare tra i 30 e i 64 anni: male Sardegna, Rieti e Rovigo, in controtendenza Prato, Parma e Bologna. Pesa la fuga dal Mezzogiorno

Perché nel 2030 in Italia ci saranno 2 milioni di lavoratori in meno

L’Italia del 2030 potrà contare su una forza lavoro drasticamente ridotta. All’appello mancheranno, rispetto a oggi, circa 1,98 milioni di residenti i

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L’Italia del 2030 potrà contare su una forza lavoro drasticamente ridotta. All’appello mancheranno, rispetto a oggi, circa 1,98 milioni di residenti in età attiva, tra i 15 e i 64 anni. In particolare, a causa della spirale demografica in cui è intrappolato il nostro paese, tra otto anni avremo un saldo negativo di 150mila giovani tra i 15 e i 29 anni e di 1,83 milioni potenziali lavoratori fra i 30 e i 64 anni. È l’effetto più preoccupante del progressivo invecchiamento della popolazione, complici la denatalità e i trend migratori. La perdita non sarà omogenea a livello nazionale, ma penalizzerà alcuni territori, mentre altri resisteranno grazie a una maggiore attrattività.

A lanciare l’allarme è l’elaborazione del Sole 24 Ore del Lunedì sulle previsioni demografiche sperimentali di Istat che, quest’anno per la prima volta, ha pubblicato i dati al 2030 su base provinciale. «Otto anni – spiega Marco Marsili, dirigente di ricerca di Istat – sono un orizzonte a brevissimo termine: la contrazione dei residenti in età da lavoro è già una realtà in corso». Ne emerge una crisi strutturale che – soprattutto in queste ore di nuove tensioni politiche – stride con la corsa degli ultimi Governi a tamponare nell’immediato gli effetti delle recenti emergenze nazionali.

Voragine nel mercato del lavoro

Basta dare qualche cifra: se a inizio 2002 oltre il 67% della popolazione era nella fascia 30-64 anni, già a inizio 2022 si è scesi al 63,5% con previsioni di un calo fino al 61,5% nel 2030, destinato a toccare il 54,1% a inizio 2070 (quando all’appello si conteranno 13 milioni di persone in meno in questa fascia d’età). «Anche se l’età pensionabile non è così definita, di fatto stanno uscendo dall’età da lavoro intere generazioni di baby boomers nati tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, una coorte molto più numerosa di quella che oggi entra nel mercato del lavoro: i quindicenni sono circa un terzo dei 65enni», aggiunge Marsili.

Pubblica amministrazione e aziende – che spesso negli ultimi anni hanno anche adottato il blocco delle assunzioni – dovranno presto fare i conti con problemi strutturali. «Alle problematiche qualitative che oggi riscontriamo sul mercato del lavoro, relative al mismatch tra domanda e offerta, si aggiungerà una voragine quantitativa e la ricerca di manodopera dovrà fare i conti con vincoli anagrafici in molti territori», afferma Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del centro studi Tagliacarne.

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Resistono i territori attrattivi

Il ridimensionamento della popolazione “occupabile” avverrà con intensità differenti sul territorio. Sarà molto più marcato nel Mezzogiorno (dove dovrebbe calare di oltre il 10%, quasi 1,4 milioni di persone in meno) mentre nel Centro-Nord ci si attende una contrazione intorno al 4% (più o meno un milione di persone). Fra le prime 30 province che registreranno la maggiore contrazione tra i 15 e i 64 anni, ben 26 sono al Sud e nelle Isole. Uniche eccezioni, Rovigo, Rieti, Biella e Massa Carrara.

Al contrario, le province che potranno contare su una tenuta maggiore si collocano in precise aree del Paese, quelle più “ricche” in termini di Pil pro capite e capaci di attirare le migrazioni interne, in particolare della popolazione giovanile. Con tre province in controtendenza – Bologna, Parma e Prato – dove le persone in età da lavoro sono previste in crescita, seppur debole.

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Nord e Sud, aumenta il divario

Mentre un’eventuale ripresa della natalità richiederebbe tempi più lunghi per tradursi in potenziale forza lavoro, a influenzare i divari territoriali saranno soprattutto i flussi migratori. Istat nelle sue stime ne tiene conto, sia dei trasferimenti di residenza interni sia di quelli con l’estero. Tanto che, proiettando i trend recenti fino al 2030, un ulteriore aumento delle disuguaglianze tra Nord e Sud sembra inevitabile. «Negli anni Cinquanta e Sessanta – conclude Esposito dell’istituto Tagliacarne – gli imponenti flussi migratori che partivano dal Sud venivano copiosamente sostituiti dalla notevole propensione alla natalità della popolazione meridionale. Oggi, venendo meno questa seconda componente, senza concreti interventi di sviluppo, si rischia una desertificazione del Mezzogiorno che diventerebbe un’area spopolata e abitata solo da anziani».

Per i territori diventerà cruciale saper attirare giovani, favorirne l’autonomia e l’occupazione, riducendo la sfera di inattivi. Un meccanismo che potrebbe favorire la mobilità interregionale, facendo entrare i territori in competizione tra loro per accaparrarsi la forza lavoro. Oppure dovrebbe essere il Governo ad adottare politiche migratorie internazionali con criteri di selezione all’ingresso, come già è accaduto in altri Paesi europei. «In ogni caso – conclude Marsili – la spirale demografica proseguirà: possiamo rallentare questo processo, ma non invertirlo. Sarà inevitabile, dovremo spingere sull’incremento dei livelli produttivi».

Fonte: Il 24 ore.it

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