Fonte: Le Formiche.net Neptune, con sede a Londra, produce petrolio e gas da giacimenti in otto Paesi, tra cui Regno Unito, Norvegia, Germania, Alg
Fonte: Le Formiche.net
Neptune, con sede a Londra, produce petrolio e gas da giacimenti in otto Paesi, tra cui Regno Unito, Norvegia, Germania, Algeria, Paesi Bassi e Indonesia (dove già condivide una licenza con la società di San Donato Milanese). Secondo i termini dell’accordo annunciato oggi, venerdì 23 giugno, Eni acquisirà Neptune per 2,6 miliardi di dollari, mentre Var Energi — controllata norvegese dove Eni è al 63% — andrà a rilevare le attività della società in Norvegia per 2,3 miliardi di dollari.
“È chiaro che la tendenza è quella di acquisire energie rinnovabili o altri progetti di energia verde”, ha commentato Descalzi. Tuttavia, “l’Eni prevede che la domanda di gas naturale, che ha emissioni di carbonio inferiori a quelle del petrolio, continuerà a crescere man mano che i Paesi utilizzeranno maggiormente questo combustibile nell’ambito della transizione verso le energie rinnovabili”. E dunque il Cane a sei zampe vuole che il 60% della produzione del suo gruppo sia costituito da gas entro il 2030.
Da quando hanno acquisito gli asset dall’utility francese Engie nel 2017 (per 3,9 miliardi di dollari), gli azionisti di Neptune hanno investito più di 4 miliardi di dollari nell’espansione della base di risorse, nella riduzione dell’intensità di carbonio delle operazioni e nello sviluppo del potenziale per la futura cattura e stoccaggio del carbonio, ha dichiarato Bob Maguire, amministratore delegato di Carlyle. “Per questo motivo, si tratta di un’azienda interessante. Rappresenta un’opportunità per un acquirente strategico come l’Eni sia per ricostituire la propria base di riserve […] ma anche di incrementare le proprie metriche”, ha aggiunto, sottolineando la minore intensità di carbonio di gran parte della produzione di Neptune, in particolare rispetto al petrolio convenzionale.
… E IL VALORE STRATEGICO DEL DE-RISKING DALLA CINA
Se l’acquisizione rappresenta un passaggio importante in termini economico-commerciali e ha attirato parecchia attenzione per come le sue dinamiche di inseriscono nel flusso della transizione energetica, non sfugge un fattore di carattere geopolitico e strategico. Il 49% di Neptune è infatti posseduto dalla società statale China Investment Corporation, mentre i gruppi di private equity Carlyle e CVC Partners possiedono rispettivamente il 30,6% e il 20,4%.
China Investment Corporation è un fondo sovrano che gestisce parte delle riserve valutarie della Repubblica popolare cinese. Le sue attività, insieme a quelle di altre struttura finanziarie amministrate dal Partito-Stato, hanno permesso ai fondi statali cinesi di investire centinaia di miliardi di dollari nelle economie occidentali (spesso con operazioni stabilite attraverso veicoli offshore), assumendo partecipazioni indirette in aziende di settori come la sanità, la tecnologia, l’industria, l’energia appunto — anche se le autorità di regolamentazione e i politici si stanno muovendo per ridurre la dipendenza economica dell’Occidente dalla Cina.
L’ingresso di Eni taglia il ruolo del colosso cinese in Neptune, riducendolo più in generale in un settore altamente strategico come quello della sicurezza energetica. Gli Stati europei stanno ancora gestendo gli effetti dell’eccessiva esposizione alle forniture russe, finite sotto gli effetti conseguenti all’aggressione in Ucraina, e il rischio di creare altre forme di vulnerabilità — come quelle di carattere finanziario — è persistente. Neptune è attivo in Europa e in Paesi strategicamente nevralgici come l’Algeria, attualmente primo forniture di gas italiano