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Europa: è il nuovo Sud America?

Europa: è il nuovo Sud America?

Come dimostra la tracotanza con la quale l’establishment ci ha fatto entrare in uno stato di guerra, un guerra che vuole sia senza fine sia pure a var

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Come dimostra la tracotanza con la quale l’establishment ci ha fatto entrare in uno stato di guerra, un guerra che vuole sia senza fine sia pure a vari livelli di intensità, dopo aver creato una emergenza sanitaria, anche quella perenne come la condizione di eccezione che è stata imposta “necessariamente” scavalcando i parlamenti, ben contenti di non addossarsi alcuna responsabilità, il sistema dominante anche quando è in crisi profonda di legittimità, prosegue in suo corso indisturbato.

E se proprio sente scricchiolare la sua impalcatura, se capisce che il consenso di ceti privilegiati e pensatori al soldo che lo considerano il migliore dei mondi possibili, stringe alleanze con il fascismo e il neonazismo, approfitta del consenso raggiunto da forze nazionaliste che aveva condannato pubblicamente e sostenuto più o meno segretamente secondo un format che secondo alcuni è quello adottato in Cile, quando Nixon istigò la Cia a impiegare ogni mezzo “economico”: fame, carestie, agitazioni corporative che bloccassero il paese combinate con repressioni violente, per impedire la salita al potere di Allende.

Non a caso l’America Latina era il teatro di lotte di liberazione e di classe che minacciavano il sistema capitalista che non aveva altra strada che promuovere politiche autoritarie, per stringere vincoli con poteri reazionari e golpisti concordi nell’adottare soluzioni di libero mercato.

A questo sono servite le crisi prodotte in questi anni, programmate per realizzare una restaurazione che limitasse gli spazi democratici e la rappresentasse, autorizzare misure eccezionali e forme di “governo” autocratiche grazie a istituzioni commissariali apparentemente parallele ma in realtà alternative, a una gestione dell’ordine pubblico coercitiva, allo sviluppo di tecniche di sorveglianza e controllo sociale,  che hanno prodotto la conversione definitiva  della classe dirigente in classe dominante.

Anche le catastrofi naturali diventano opportunità favorite dalla cattiva gestione del territorio, dalla mancanza di manutenzione e di investimenti per la tutela, indirizzati invece a finanziare al corsa agli armamenti, a grandi opere che si rivelano fabbriche di corruzione e malaffare. Lo dimostra il caso dell’uragano Katrina che è stato “risolto” grazie a piani straordinari di evacuazione, delocalizzazioni,  sistemidi aiuto arbitrari e soprattutto con l’instaurazione di un ordine extra legem, di uno stato di polizia militarizzata.

Oggi tutta l’attenzione è concentrata su questo focolaio, su questo conflitto che viene esibito come lo scontro tra un golia delirante di potere e un Davide la cui felpa viene battuta all’asta, le cui pretese incaute e insensate si trasformano in lectio magistralis sui valori della civiltà superiore meritevoli dell’introduzione di leader sfiancati che necessitano di una qualsiasi tribuna per dimostrare l’esistenza in vita, tutti alla pari marionette della potenza che ha voluto e innescato la bomba.

E che nel frattempo si occupa col simultaneismo marinettiano concesso dai molti quattrini veri o virtuali e dallo sforzo suicida di governicchi satelliti, di tutte le altre guerre che sta conducendo altrove da anni e che sfuggono alle caute intercettazioni di una stampa che concepisce la guerra solo nelle grandi dimensioni di scontro tra stati e eserciti, impari, in modo da non informare sui conflitti di classe che rappresentano la spina nel fianco degli Usa e dei suoi  affiliati.

Una spina che duole, perché dimostra che in giro esistono sacche di resistenza, movimenti e fermenti, quelli che preoccupano i nostro sociologi che li definiscono moti dei margini  temendo che possano scombinare i ruoli e le rendite di posizione di chi si è accomodato nei centri della globalizzazione.

Un libro che dovremmo prendere come manuale di resistenza “Cronache anticapitaliste” di David Harvey, ci ricorda che nel 2019 il presidente cileno parlava del suo Paese come di un’utopia realizzata, un’oasi di crescita sana e un modello esportabile.

Poche settimane dopo scoppiavano delle rivolte a Santiago per via dell’aumento repentino della tariffa dei mezzi pubblici, e subito Pinera ritratto dai Tg nel suo lussuoso ristorante preferito scatenò una sanguinosa repressione, dichiarò lo stato di emergenza, schierò l’esercito nelle strade. Ma la risposta popolare non si è fatta sentire, milioni di persone sono scese in piazza con al fianco poliziotti e soldati, hanno dimostrato pacificamente ma fermamente, finché il presidente dopo una serie di telefonate con Washington, ha dovuto scendere a patti, revocare lo stato di emergenza, concedere un aumento delle pensioni e un incremento del salario minimo e promettere una Costituzione “nuova” alo posto di quella stilata durante la dittatura militare.

Più o meno come era successo qualche mese prima in Equador quando la gente di strada si ribellò alle decisioni del Fondo Monetario che aveva imposto interventi strutturali con un forte aumento delle tasse e l’abolizione di sussidi.

E così in Bolivia, in Brasile, in Libano: scrive Harvey che se da  una navicella spaziale potessimo vedere lampeggiare di rosso tutti i luoghi in cui si protesta per i propri diritti e i propri bisogni, potremmo concludere che il mondo è in rivolta, perché il neoliberismo non ha mantenuto le sue promesse di benessere e men che meno di pace nemmeno all’interno delle sue tane di bestia feroce se pensiamo alle agitazioni di tante categorie negli Usa, a cominciare dagli insegnanti, alle rivolte di Chicago e a una forma di protesta indiretta, quella che ha persuaso tanti professionisti a lasciare o propri posti di lavoro scegliendo una condizione “parassitaria” che potrebbe mettere in crisi il sistema.

È davvero ora di diagnosticare i motivi della nostra soggezione, che non può venire alla luce se ci aspettiamo che diventi un tema di confronto nello spazio politico o in quello dell’informazione. Ormai è chiaro che l’ultima rappresentazione in scena, quella di una guerra nella quale saremmo costretti a combattere anche in forma di scudi umani, è stata architettata contro di noi, per consolidare il nostro ruolo gregario e di servizio, che così viene demolito l’edificio di menzogne dalla inviolabilità della nostra condizione privilegiata, che l’unica promessa è quella di lacrime e sangue, carestie e razionamenti, nuove miserie che pesano su quelle antiche, sacrifici e rinunce in modo che la necessità metta a tacere  le istanze di libertà.

È proprio vero la strada dell’emancipazione e della liberazione di un popolo, comincia liberando ognuno di noi dal pregiudizio che non ci sia più niente da fare, che non esista alternativa praticabile, che ormai siamo prigionieri di un maleficio che ci isola gli uni dagli altri, si traduce in accidia e disperazione. Un tempo è stato possibile, altrove è possibile, non restiamo indietro.

Fonte: Simplicissimusnews.com

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