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Metaverso e proprietà intellettuale: quali impatti a livello giuridico?

I principali brand si stanno approcciando all’universo virtuale per creare nuove linee di business e avvicinare il pubblico più giovane. Un fenomeno che comporterà una serie di conseguenze fra cui quelle legate ai diritti acquisiti sulle opere già esistenti che si intendono trasformare in beni digitali o Nft. Ecco le questioni da affrontare

Metaverso e proprietà intellettuale: quali impatti a livello giuridico?

Tutti i maggiori brand, ma anche le nuove aziende che si affacciano oggi al mercato, si stanno approcciando al metaverso per creare nuove linee di bus

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Tutti i maggiori brand, ma anche le nuove aziende che si affacciano oggi al mercato, si stanno approcciando al metaverso per creare nuove linee di business e avvicinare il pubblico più giovane (Generazione Z). Un simile fenomeno comporta però una serie di conseguenze a livello giuridico, soprattutto nel campo della proprietà intellettuale.

Innanzitutto, le aziende dovranno riesaminare le loro strategie di deposito e valutare se i propri marchi possano godere di protezione in un meta-ambiente. Ciò implica la necessità di ridefinire il portafoglio marchi e considerare nuovi depositi, per esempio nelle classi 9, 35 e 41, che sono quelle più rilevanti per l’uso del marchio nel mondo virtuale. In caso di fenomeni di meta-squatting, si dovrà poi essere in grado di dimostrare la rinomanza acquisita dal marchio per accedere alla cosiddetta protezione extra-merceologica per prodotti ulteriori rispetto a quelli per cui il marchio è stato registrato.

Le aziende dovranno anche procedere ad una attenta disamina dei diritti acquisiti sulle opere già esistenti che intendono trasformare in beni digitali o Nft. Sotto questo profilo, si applicano le categorie giuridiche tradizionali ed è necessario distinguere tra opere realizzate dai dipendenti e opere create da lavoratori autonomi. Ai sensi degli articoli 12-bis e 12-ter della Legge sul diritto d’autore salvo patto contrario, il datore di lavoro è titolare dei diritti di utilizzazione economica sul software, la banca dati e il disegno industriale creati dal lavoratore dipendente nello svolgimento delle sue mansioni o su istruzioni impartite dal datore di lavoro.

Anche se la legge sul diritto d’autore fa espresso riferimento soltanto a queste tre categorie di opere dell’ingegno, la dottrina e la giurisprudenza sono concordi nel ritenere che il principio secondo cui i diritti di sfruttamento economico delle opere realizzate dal lavoratore dipendente appartengono al datore di lavoro si estenda a tutte le opere dell’ingegno – e quindi anche opere digitali – se realizzate nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato.

Quanto ai lavoratori autonomi, la legge 22 maggio 2017, n. 81 ( Jobs Act) prevede che “salvo il caso in cui l’attività inventiva sia prevista come oggetto del contratto di lavoro e a tale scopo compensata, i diritti di utilizzazione economica relativi ad apporti originali e a invenzioni realizzati nell’esecuzione del contratto stesso spettano al lavoratore autonomo”. In concreto, tuttavia, potrebbe risultare difficile capire cosa rientra nell’oggetto del contratto e sarebbe opportuno includere in tutti i contratti di lavoro autonomo una apposita clausola di cessione dei diritti IP.

Inoltre, nei contratti di lavoro autonomo con cessione o licenza di diritti d’autore, occorre prestare particolare attenzione alle cosiddette “clausole sulle nuove tecnologie” che normalmente estendono il diritto di sfruttamento su tutte le tecnologie conosciute al momento e da sviluppare in futuro. Al riguardo, l’art. 119, comma 3 della Legge sul diritto d’autore prevede che “non possono essere compresi i futuri diritti eventualmente attribuiti da leggi posteriori, che comportino una protezione del diritto di autore più larga nel suo contenuto o di maggiore durata”. La norma era stata però prevista per i contratti di edizione di libri per la stampa e c’è stato un ampio dibattito sulla sua applicabilità anche ad altri tipi di contratti.

Alcuni sostengono che l’avvento di un’innovazione tecnologica, non conosciuta o ipotizzabile al momento della conclusione del contratto comporti l’applicazione in via analogica del divieto di cessione dei cosiddetti diritti futuri ex art. 119 della Legge sul diritto d’autore, in quanto ritengono che le disposizioni contrattuali possano riferirsi solo a ciò che le parti erano materialmente in grado di prevedere al momento della stipula del contratto.

Secondo altri, invece, l’accordo relativo al trasferimento dei diritti economici può ben comprendere tutte le potenziali forme di sfruttamento dell’opera, anche se non tecnologicamente sviluppate al momento della stipula dell’accordo. Questa conclusione si basa sul presupposto che l’art. 119 della Legge sul diritto d’autore sia applicabile solo ai contratti di edizione di libri e non anche ad altri contratti aventi ad oggetto la cessione di diritti d’autore su altri tipi di opere. Secondo la Corte di Cassazione, mentre i contratti di edizione di libri sono disciplinati da specifiche previsioni (tra cui l’art. 119 della Legge sul diritto d’autore ), i contratti aventi ad oggetto opere diverse sono da considerarsi contratti atipici, non regolati dalle disposizioni previste per il contratto di edizione “tradizionale” (Cass. n. 12086/2013 e 26626/2008). Quest’ultimo orientamento sembra essere quello prevalente per cui, ove il contratto di trasferimento o licenza dei diritti d’autore includa una clausola di cessione o licenza sulle nuove tecnologie, essa potrà essere considerata valida e potenzialmente in grado di ricomprendere utilizzi dell’opera in questione anche nel metaverso o come Nft. Analoghe considerazioni si applicano in parte per i contratti di licenza o cessione di diritto d’autore di nuove opere, che ben potranno includere una clausola di cessione ad hoc che menziona espressamente gli utilizzi dell’opera quale Nft o nel più ampio contesto del metaverso.

Fonte: Corriere Comunicazione

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