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Centrali a carbone: cosa sono, come funzionano e che impatto hanno sull’ambiente?

Se ne torna a parlare, con la concreta possibilità prospettata dal Governo di riaprirle tutte, per far fronte alla crisi energetica generata dalla guerra in Ucraina. Ma sono davvero la soluzione e con quali costi in termini di emissioni?

Centrali a carbone: cosa sono, come funzionano e che impatto hanno sull’ambiente?

La guerra in Ucraina ha portato alla ribalta il tema delle centrali a carbone nel nostro Paese, con la concreta possibilità prospettata dal Governo di

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La guerra in Ucraina ha portato alla ribalta il tema delle centrali a carbone nel nostro Paese, con la concreta possibilità prospettata dal Governo di riaprirle per far fronte alla crisi energetica innescata dall’invasione russa. Ma come è fatta una centrale a carbone e come funziona? E soprattutto qual è l’impatto sull’ambiente in termini di emissioni e quali sono gli effetti sulla salute? Sono davvero la risposta all’emergenza che stiamo affrontando?

Centrali a carbone: perché si vuole riaprirle?

Solo dodici mesi fa Gazprom – il primo produttore al mondo di gas, controllato direttamente dal Cremlino – dichiarava di aver esportato 65 miliardi di metri cubi verso l’Europa nell’ultimo anno. Un livello altissimo, che sarebbe aumentato ulteriormente grazie al gasdotto Nord Stream 2, l’opera pensata per poter raddoppiare il flusso di gas russo verso la Germania, e quindi l’Unione Europea, bypassando l’Ucraina dal Baltico.

Ma nella pioggia di sanzioni dell’Europa nei confronti della Russia a causa della guerra, una parte rilevante sta proprio nella rinuncia al Nord Stream 2: un modo molto forte per colpire il Cremlino nelle sue fondamenta finanziarie, costruite principalmente sulle esportazioni di gas naturale. D’altro canto, per ora abbiamo ancora bisogno del gas russo, motivo per cui è assolutamente necessario trovare al più presto una soluzione che ci permetta di allentare il cappio di questa pesante dipendenza.

Fra le soluzioni per correre ai ripari prospettate dal Governo Draghi, quella di riaprire le centrali a carbone del nostro Paese, che potrebbero contribuire a ridimensionare, ma soltanto in minima parte, la nostra dipendenza dalla Russia, che andrebbe invece bilanciata cercando nuovi partner energetici da cui importare l’energia necessaria a soddisfare il fabbisogno nazionale.

Da dove arriva l’energia che utilizziamo in Italia

L’energia che utilizziamo in Italia deriva da un mix di fonti. Prendiamo come riferimento i dati dell’International Energy Agency del 2019, quelli più attendibili, dato che nel 2020 abbiamo avuto un calo dei consumi dovuto alla pandemia. La quota dei combustibili fossili copre più dell’80% del fabbisogno energetico del nostro Paese. La parte del leone la fa certamente il gas naturale (41,8%), quasi totalmente importato dall’estero, in particolare da Russia, Algeria e Azerbaigian.

C’è poi il petrolio – con il 34,4% – ed infine il carbone con il 4,4%. Discorso a parte meritano le fonti rinnovabili, che coprono il 19,4% delle nostre necessità e cioè, nello specifico: il 10,2% con i biocombustibili, il 6,5% con l’energia solare ed eolica e il 2,7% con l’idroelettrica. Tolte le quote di petrolio e gas naturale che importiamo, rimangono da valutare come alternative le fonti rinnovabili e il carbone.

Le fonti rinnovabili rappresentano sicuramente la soluzione ottimale del – si spera prossimo – futuro, sia per contrastare l’effetto serra, sia per raggiungere la tanto auspicata neutralità climatica  entro il 2050, ma racchiudono in sé tutta una serie di problematiche a cui bisogna fare fronte e che rendono impervia la strada.

Tanto per cominciare, la localizzazione degli impianti a macchia di leopardo non garantisce una copertura omogenea del territorio. Inoltre la produzione di energia varia notevolmente durante le diverse fasi delle stagioni, ma anche dei mesi e dei giorni, e i sistemi di accumulo e stoccaggio dell’energia verde per ora sono piuttosto limitati.
Certamente una delle sfide di cui dobbiamo farci carico è proprio quella della transizione energetica, attraverso investimenti, innovazione, digitalizzazione in grado di sostenere il cambiamento.

Nell’immediato però il carbone rimane la soluzione più velocemente attuabile, come ha sottolineato a Wise Society anche una delle voci più autorevoli in Italia sul tema dell’energia, Davide Tabarelli, fondatore di NE-Nomisma Energia e professore a contratto presso la Facoltà di Ingegneria di Bologna e presso il Politecnico di Milano. «In questa catastrofe», ha detto, «il carbone aiuterebbe certamente a ridurre i consumi di gas che vengono dalla Russia, ma abbiamo poche centrali, dove si produce neppure il 5% della nostra elettricità. Nella migliore delle condizioni la possiamo portare al 10%, risparmiando 1, al massimo 2 miliardi di metri cubi; pochissimo se pensiamo che dalla Russia ne prendiamo quasi 30».

Come è fatta e come funziona una centrale a carbone?

Il carbone è un combustibile fossile pronto all’utilizzo, a disposizione in natura in grandi quantità. Per queste sue caratteristiche è stato impiegato come combustibile a partire dalla Rivoluzione Industriale e da allora non siamo più riusciti a farne a meno.

Negli impianti industriali, l’energia chimica del carbone viene trasformata in energia elettrica. Durante il processo di generazione dell’energia elettrica, il carbone viene bruciato (energia chimica) per riscaldare l’acqua in un serbatoio, che genera vapore (energia termica). Quest’ultimo, altamente pressurizzato, fa girare le pale di una turbina, producendo energia meccanica, che, mettendo in rotazione l’alternatore, viene trasformata in energia elettrica.

L’impatto sull’ambiente e gli effetti sulla salute delle centrali a carbone

Dalla combustione del carbone però deriva una percentuale elevatissima di gas serra e anidride carbonica sprigionati nell’aria, prima fonte di inquinamento ambientale. A parità di energia ottenuta, infatti, le emissioni di anidride carbonica diffuse dal carbone sono molto superiori a quelle propagate dagli altri combustibili fossili (gas naturale e petrolio).

Oltre che per l’ambiente, il carbone è molto pericoloso anche per la salute umana, a causa delle polveri sottili diffuse nell’aria, insieme a tutti i metalli pesanti tossici, quali mercurio, piombo, arsenico. Senza ovviamente dimenticare l’esposizione a cui sono costretti i minatori che estraggono il carbone dal sottosuolo.

 

Dove si trovano le centrali a carbone in Italia?

Le centrali a carbone in Italia sono sette, distribuite in Sardegna (dove ce ne sono due), Lazio, Puglia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia ed infine in Liguria, le ultime due già avviate verso la riconversione, e momentaneamente e parzialmente riattivate per far fronte all’incertezza di questo periodo. Dei sette impianti, cinque sono di proprietà dell’Enel, uno di Ep Produzione e uno di A2A.

I sette impianti dovrebbero essere riconvertiti, o dismessi entro il 2025: secondo il “Piano Nazionale Integrato per L’Energia e il Clima 2030”, infatti, l’Italia avrebbe ancora solo tre anni per dire definitivamente addio al carbone, ma i recenti fatti hanno rimescolato pesantemente le carte, per cui vedremo come evolverà la situazione nel breve e medio termine.

Fonte: Wisesociety.it

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