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Ocean grabbing: ecco le cause e le conseguenze del saccheggio dei mari

La colonizzazione e accaparramento del mare e del suo patrimonio ittico è fenomeno economico e geopolitico controverso che appartiene alla contemporaneità e viene usato per descrivere azioni, politiche o iniziative che privano di risorse i piccoli pescatori, espropriano le popolazioni vulnerabili delle terre costiere e minano l'accesso alle aree del mare

Ocean grabbing: ecco le cause e le conseguenze del saccheggio dei mari

Natura del fenomeno ocean grabbing Il termine “ocean grabbing” è stato utilizzato per descrivere azioni, politiche o iniziative che privano di risors

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Natura del fenomeno ocean grabbing

Il termine “ocean grabbing” è stato utilizzato per descrivere azioni, politiche o iniziative che privano di risorse i piccoli pescatori, espropriano le popolazioni vulnerabili delle terre costiere e minano l’accesso alle aree del mare. Una sorta di colonizzazione del mare che si confronta con i diritti e l’accesso alle risorse e agli spazi marini che sono spesso riallocati attraverso iniziative dei governi o del settore privato per raggiungere obiettivi di conservazione, gestione o sviluppo con una varietà di risultati molto diversi.

Secondo la definizione di Olivier De Schutter, relatore per il diritto al cibo del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, l’accaparramento ittico è “nella forma di accordi che colpiscono i pescatori su piccola scala, catture non dichiarate, incursioni in acque protette, distrazione delle risorse dalle popolazioni locali.

Un problema politico, sociale e ambientale

L’erosione degli stock ittici e lo sbilanciamento tra le capacità di pesca delle flotte industriali e i volumi di cattura accettabili per una pesca sostenibile portano all’inasprimento della competizione su scala globale, con enorme incidenza sui rapporti e sugli squilibri tra paesi sviluppati e Sud del mondo. In questa dimensione mondiale, infatti, le flotte dei paesi più deboli non sono in grado di competere, né tali paesi possiedono la forza politica per negoziare accordi favorevoli. Mancano, inoltre, a tali soggetti politici deboli, gli strumenti di controllo delle attività svolte nelle loro acque e i mezzi di intervento per regolare il fenomeno. Infine, le eventuali ricadute economiche di cui beneficiano i paesi deboli firmatari di accordi commerciali sulla pesca non sempre vengono destinate al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali.

Lo sfruttamento delle risorse ittiche avviene mediante flotte pescherecce provenienti soprattutto da nazioni occidentali (Unione europea, Russia, Stati Uniti d’America), o facenti capo a compagnie da nazioni sviluppate o potenze economiche emergenti dell’Asia, come il Giappone, la Cina o paesi asiatici. Ma c’è di più, le risorse ittiche spesso vengono sfruttate anche per l’itticoltura, anche se che non mancano i progetti alternativi come quello di Ittinsect per limitare l’overfishing.

In effetti, anche se il fish grabbing e il sovrasfruttamento dei mari sono pratiche conosciute da tempo, il fenomeno ha assunto una particolare connotazione a partire dal 2010, quando pratiche di sfruttamento intensivo sono state favorite dalla volontà, da parte di alcune potenze, di assicurarsi un accesso privilegiato alle risorse alimentari, al fine di tutelare sovranità e sicurezza in campo alimentare.

Analogie con il land grabbing

L’ocean grabbing ha, ovviamente, molte analogie con il land grabbingovvero l’acquisizione di suoli e terreni agricoli ma, a differenza di quest’ultimo, l’accaparramento ittico rimane un vero e proprio sfruttamento, senza gli effetti positivi, in termini di investimenti che, nel caso del land grabbing, possono derivare dall’apporto di capitali economici provenienti dall’estero. Inoltre, dal punto di vista politico, il fenomeno dell’ocean-grabbing risulta sottovalutato rispetto all’accaparramento dei terreni agricoli.

Impatto e rischi dell’ocean grabbing

Ma quali sono i rischi del fish grabbing? L’impatto di queste pratiche è piuttosto elevato e si manifesta in vari rischi tanto che la lotta alla sovrappesca risulta una delle armi per salvare gli oceani. 

In ogni caso, i rischi dell’ocean grabbing sono:

  1. depauperamento degli stock ittici dovuto al prelievo troppo intenso (overfishing) della pesca industriale, con conseguente impatto sull’ambiente e sulla sostenibilità della pesca;
  2. erosione nelle capacità di accesso e di controllo, da parte delle comunità locali, sulle risorse ittiche oggetto di sfruttamento esogeno;
  3. maggior spreco di risorse che caratterizza la pesca con grandi flotte stimata in un quarto del pescato rispetto al prelievo di piccoli operatori; questi ultimi, infatti, tendono a sfruttare interamente il pescato, con minor rigetto in mare dei pesci di piccola taglia, o di scarso valore economico, ma di buon valore alimentare.

Perché l’ocean grabbing è preoccupante

Si tratta di effetti che destano la preoccupazione di vari enti sovranazionali, vista la rilevanza dei valori economici e alimentari in gioco. Il mare, infatti, fornisce una quota importantissima dell’apporto totale di proteine animali della popolazione umana, con un’incidenza globale che l’Organizzazione delle Nazioni Unite stima pari al 15%. Questa incidenza diventa ancora più rilevante in alcune aree del mondo: è pari al 20% tra i paesi LIFDCs (Low-Income Food Deficit Countries, secondo la classificazione della FAO), mentre sale al 23% in alcune regioni come l’Asia; altissima è la dipendenza dalla pesca di alcune popolazioni, come quelle dell’Africa occidentale che, secondo le stesse stime dell’ONU, ricevono dal pesce il 50% del loro fabbisogno di proteine animali. Ma c’è di più, depauperare gli oceani, oltre a riempirli di plastica ne mette a rischio la sopravvivenza mentre Salvare gli oceani, significa anche salvare il Pianeta.

Inoltre, i paesi del Sud del mondo non hanno le capacità di negoziare accordi vantaggiosi per la pesca nelle loro acque, non hanno mezzi sufficienti per controllarne l’applicazione, non sempre dirigono le ricadute economiche degli accordi sulle popolazioni.

La situazione italiana nella privatizzazione degli oceani

In Italia la situazione non è certo felice. Il sovrasfruttamento degli stock ittici infatti risulta rilevante e oggi  emerge che il 75% degli stock ittici nel mediterraneo è sovrasfruttato, in calo dall’88% rilevato 6 anni fa grazie alla diffusione di pratiche più sostenibili ma non è ancora abbastanza. D’altra parte quanto la pesca sostenibile, o meglio smettere di mangiare pesce sarebbe una soluzione ottimale per il mare e il pianeta è stato ampiamente sottolineato nel documentario Seaspiracy che ne parla ampiamente ed è uno dei dieci documentari segnalati da Wise Society per per capire meglio la crisi climatica.

Overfishing e rifiuti: nel 2050 in mare più plastica che pesci

Oggi, si calcola, infatti, che ogni anno vengano pescati negli oceani circa 100 tonnellate di pesce e se questa tendenza – assieme al marine litter – non verrà invertita a breve, entro il 2050 ci sarà in mare più plastica che pesci e scompariranno tantissime delle specie ittiche. Lo sfruttamento intensivo delle risorse marine non permette alle differenti specie di sostituire il pesce pescato con nuovi nati. Inoltre, la pesca intensiva aumenta in modo significativo l’inquinamento dei mari perché la maggior parte dell’inquinamento da plastica presente in mare è provocato dall’abbandono di attrezzature da pesca nelle acque o lungo i litorali. L’inquinamento provocato dalla pesca e l’overfishing hanno un impatto devastante sui nostri mari. E il mare è in pericolo anche a causa dell’allevamento intensivo visto che l’acquacoltura più diffusa non è sostenibile  e presenta, in pratica, le stesse criticità di quelli di bestiame sulla terra.

Le proposte dell’Asvis

Secondo l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, ci sono però possibilità di invertire la rotta. Tra le proposte dell’ASviS su “Vita sott’acqua”, oltre alle varie iniziative, si parla proprio di favorire la co-gestione sostenibile della pesca, promuovendo e sostenendo le esperienze della piccola pesca, basate sul coinvolgimento di pescatori, associazioni di categoria, istituzioni, enti di ricerca e associazioni ambientaliste e si sottolinea l’importanza di dare riconoscimento giuridico al Piano di azione regionale della Commissione generale della pesca in Mediterraneo, organizzazione regionale che fa parte della Fao e unisce 22 Paesi tra cui l’Italia.

Il Piano ha come obiettivo prioritario la riduzione del cosiddetto “sforzo di pesca”, al fine di limitare l’impatto sulle risorse biologiche marine, supportare il settore della piccola pesca attraverso la promozione del pescaturismo, della trasformazione e della vendita diretta del prodotto ittico locale ai consumatori.

Fonte: Wisesociety.it

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