Il 25 novembre 2021 è stata emessa da un tribunale, quello di Gorizia, la prima ordinanza cautelare che certifica pratiche di greenwashing a seguito d
Il 25 novembre 2021 è stata emessa da un tribunale, quello di Gorizia, la prima ordinanza cautelare che certifica pratiche di greenwashing a seguito di un contenzioso tra due aziende concorrenti su un tessuto per auto. La giudice ha perciò imposto lo stop alla comunicazione di matrice ecologista dell’azienda. Formule come «scelta naturale, amica dell’ambiente, la prima e unica microfibra che garantisce eco-sostenibilità durante tutto il ciclo produttivo, microfibra ecologica» e altri aspetti non sono stati ritenuti suffragati da elementi sostanziali, configurando l’ipotesi di concorrenza sleale.
Sostenibilità: chi certifica?
Dal green al social, passando per il pink e l’art: tutte le possibili mani di vernice
È un provvedimento storico, in qualche modo, che supera precedenti sanzioni per “pubblicità ingannevole” (ENI nel 2019). E ci spinge a indagare diversi fenomeni, tutti associati al termine inglese washing. La parola, che significa letteralmente “lavaggio” e la cui sfera di significato originaria richiama igiene e pulizia, può acquisire invece un’accezione negativa. Se unita ad altri termini, in ambito economico e di marketing aziendale ci rimanda all’inganno e alla mistificazione. Come accade se ci imbattiamo in locuzioni quali il già citato greenwashing, oppure social-washing, healthwashing, wokewashing, pinkwashing e perfino artwashing.
Cerchiamo perciò di entrare nei dettagli di ciascuna declinazione di queste tecniche di (auto)promozione, più o meno dichiarate e strutturate. Strumenti che potrebbero somigliare a una mano di vernice fresca data alla carrozzeria rugginosa di un’auto in vendita, con lo scopo di distrarre subdolamente il potenziale acquirente – e persino la concorrenza – da aspetti meno accattivanti. Il fatto che il motore della vettura inquina più del dovuto o del dichiarato, che i materiali di costruzione non sono poi così salubri, che è stata assemblata da lavoratrici e lavoratori discriminati o sfruttati…
Iniziamo dal socialwashing. Stando alle definizioni, riguarda manifestazioni pubbliche che fanno apparire un’azienda più socialmente responsabile di quanto non sia. Un ambito scivoloso da valutare, poiché comprende ricadute esterne e interne dell’attività societaria sulle persone e le comunità. Siamo nel campo della Responsabilità sociale d’impresa (Rsi o, in inglese, Csr – Corporate social responsability). Per incorrere nel socialwashing, a volte non è necessario mentire su specifici scheletri dell’armadio produttivo. È sufficiente proporre di sé un’immagine e un immaginario che stridono con la realtà nota.
Ad esempio, potrebbero scontare conseguenze reputazionali 181 amministratori delegati di grandi società americane se non rispetteranno lo “Statement on the Purpose of a Corporation” sottoscritto alcuni mesi prima della pandemia. Un impegno a «guidare le loro aziende a beneficio di tutte le parti interessate: clienti, dipendenti, fornitori, comunità e azionisti».
Durante la crisi indotta dal coronavirus hanno fatto quanto possibile per garantire occupazione e sicurezza dei lavoratori, anche a scapito del profitto? Come hanno trattato i clienti piegati dalle chiusure obbligate? Se costretti a ridurre le retribuzioni, ciò è avvenuto con equità? O magari hanno approfittato della situazione per licenziare?
Pandemia, cartina tornasole
La prima volta del greenwashing e i 7 peccati capitali
E il greenwashing? La nascita di questa locuzione risale al 1986, quando l’ambientalista Jay Westerveld la usò in un saggio. Westerveld criticava un hotel che incoraggiava i propri clienti a riutilizzare gli asciugamani per proteggere l’ambiente. Quando in realtà il suo fine era solo ridurre i costi e migliorare i propri margini di profitto. Una pratica che ora apprezzeremmo unanimemente, preoccupati semmai che le aziende non diffondano notizie ingannevoli o fuorvianti sul loro impatto ambientale. Basti ricordare le polemiche recenti sulla collezione “Conscious” di H&M.
Consci di cosa?
Greenwashing H&M: dietro le promesse, poco o nulla
Oggi, del resto, il greenwashing è considerato all’articolo 12 delle regole di comportamento nel Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale. Ed è stato al centro di un’interessante analisi europea svolta su centinaia di siti ;web. Mentre la società americana specializzata TerraChoice Environmental Marketing ne ha definito addirittura le prassi più diffuse:
- nascondere la verità: strategia comunicativa che prevede che si consideri un prodotto green basando la comunicazione solo su una singola caratteristica ed ignorando quelli che sono gli aspetti di impatto dal punto di vista ambientale. Sarebbe la pratica più utilizzata;
- non dimostrare: dichiarare caratteristiche che non sono accompagnate da sufficienti informazioni o da certificati rilasciati effettivamente da terze parti;
- vaghezza: utilizzo di affermazioni imprecise, poco chiare, che possono facilmente garantire equivoci e malintesi con il consumatore;
- false etichette: quando le parole o le immagini di un certo prodotto danno l’impressione che ci sia un certificato di parte terza, mentre in realtà non esiste;
- irrilevanza: enfatizzare caratteristiche green che in realtà non sono rilevanti ai fini di una scelta consapevole;
- scegliere il minore tra i due mali: vantare una caratteristica del prodotto che non risolve l’impatto ambientale;
- mentire: l’utilizzo di un’affermazione falsa. Ad esempio una certificazione falsa.
Da Amazon a Shell, tra green e social washing
Molti hanno imparato queste lezioni, e tra loro anche varie multinazionali, più o meno peccatrici: da quelle che si propongono molto meglio di quanto potrebbero essere a quelle recidive in settori critici. Fino a quelle colte con le mani nella marmellata. E ciò anche se il contraltare dei rischi reputazionali e dei danni economici diretti è sempre meno sostenibile per chi si macchia di green o socialwashing.
Lo sa bene Volkswagen, che sta ancora pagando le conseguenze del dieselgate, lo scandalo delle emissioni truccate. E lo sanno Walmart e Amazon, che hanno patteggiato qualche anno fa una multa con lo Stato della California per aver commercializzato come biodegradabili prodotti in plastica che non lo erano.
La campagna di Shell
C’è infine da chiedersi se anche Shell non ne sia consapevole. Condannata dalla corte d’appello dell’Aia pochi mesi fa per le conseguenze delle sue attività in Nigeria, è particolarmente attiva nell’offrire un’immagine di sé edificante. Sul piano ambientale, sponsorizzando per esempio da 35 anni l’Eco-marathon. E sul piano sociale, con spot come quello qui sopra. Entrambe iniziative che difficilmente potranno compensare gli impatti ambientali e sociali dibattuti in tribunale.
Gli altri washing, tra brand activism e coerenza da verificare
Dicevamo dello spot di Shell incentrato sulla storia della donna libera e orgogliosa di poter svolgere un lavoro – la guidatrice di mezzi pesanti – tipicamente appannaggio dei maschi. Ma la multinazionale petrolifera olandese ha messo in campo un ampio armamentario di contenuti web in cui si mostra attiva su vari temi sociali qualificanti e dibattuti. La lotta alla discriminazione di genere, l’emancipazione femminile e la parità di genere, innanzitutto.
La parità è lontana
Il wokewashing è un meccanismo di distrazione di massa, potremmo dire, che in parte include altre tipologie di washing mirate ad aspetti sociali e artistico-culturali specifici. Il pinkwashing, ma anche il rainbowashing, in cui la comunicazione, spesso diffusa tramite i profili corporate sui social network, esalta messaggi sul gender gap e sulla lotta alle discriminazioni sulla base dell’identità di genere. Magari cavalcando l’attenzione mediatica di eventi locali come i pride. E poi c’è l’artwashing, la sponsorizzazione di eventi culturali che servirebbe a presentarsi con un’immagine positiva (percepita però in contraddizione con la realtà). E volta a farsi apprezzare per generosità, nascondendo in tal modo aspetti critici o divisivi.
Healthwashing, la salute non si inganna
Ultima ma non ultima versione del washing è quella che riguarda la salute, quando qualcosa viene fatto apparire più sano di quanto non sia in realtà. Parliamo allora di healthwashing, mirato in gran parte alle persone interessate a nutrirsi con prodotti salutari, particolarmente ai genitori e agli alimenti per bambini e ragazzi. Tanto che nel Regno unito è stato fondato un movimento (Bite Back 2030) volto a difendere la salute dei giovani, a contrastare l’healthwashing e il cibo spazzatura, o gli snack. Al centro delle contestazioni e di alcuni studi figurano spesso le informazioni presenti in etichetta o sulle confezioni.
Greenwashing sulla confezione
Contro il washing serve ordine, soprattutto pensando alla finanza
Date le molte facce del washing, e le grandi risorse di cui spesso dispone, bisogna quindi alzare le difese. Quelle della buona informazione, innanzitutto. Ma anche dell’allarme che deriva da una consapevolezza: la posta finanziaria in gioco si sta alzando assai. Se ci preoccupa il greenwashing – ad esempio – è bene sapere che gli investimenti ESG (cioè legati a parametri ambientali, sociali e di governance) nel 2018 superavano i 30mila miliardi di dollari, e nel 2020 i fondi definiti tali hanno raccolto 51 miliardi di dollari.
Mentre il 6 luglio 2021 la Commissione europea ha pubblicato la sua strategia per rendere il sistema finanziario europeo più sostenibile, dopo aver pubblicato una proposta di regolamento che delinea lo European Green Bond Standard. Non solo. Il processo europeo per la definizione di una “tassonomia sociale” è infatti iniziato.
Fonte: