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La blockchain divora energia. Ma una via green c’è

Quella di Bitcoin ha un consumo di elettricità pari a nazioni come l’Austria e la Svezia. Ethereum sta studiando come diventare "ibrida" e quindi più sostenibile

La blockchain divora energia. Ma una via green c’è

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Emissioni zero, tecnologia pulita, green economy: questi sono termini che stanno entrando sempre di più nelle agende del mondo dell’industria e dei governi. Gli obiettivi di crescita economica vanno ormai a braccetto con un modello di sostenibilità ambientale, che il nostro pianeta ci chiede a gran voce.

Ma non nel mondo della blockchain. Basti pensare che la blockchain di Bitcoin ha un consumo di elettricità pari a quello di nazioni come l’Austria e la Svezia. E tutto questo per registrare fra le 200 mila e le 300 mila transazioni al giorno. Per capire i numeri in gioco, si stima che VISA registri oltre 150 milioni di transazioni al giorno: la blockchain di Bitcoin, quindi, per registrare un numero di transazioni pari allo 0.2% di quelle di VISA usa lo stesso quantitativo di corrente necessario ai cittadini, alle industrie, alle infrastrutture di paesi come l’Austria o la Svezia. No, la blockchain di Bitcoin non è green!

Il motivo di questa “fame” di energia è legato al meccanismo alla base della blockchain di Bitcoin, la proof-of-work. Satoshi Nakamoto, l’ideatore della blockchain di Bitcoin, ha infatti risolto il problema della sicurezza della registrazione delle transazioni con un meccanismo che prevede che migliaia di computer competono 24 ore su 24 con altri computer dislocati in diversi angoli del mondo per risolvere dei “puzzle”. In tal modo ha ottenuto l’immutabilità della blockchain, cioè la sicurezza che le transazioni registrate sulla blockchain non possono essere cancellate/modificate, rendendo quindi la stessa un luogo sicuro per registrare il possesso e gli scambi di un bene, in questo caso il Bitcoin.

Come ricordato qui, i minatori (miner), cioè i pc che concorrono a costruire i blocchi della blockchain, lo fanno risolvendo un problema computazionalmente complesso (il puzzle di cui parlavamo sopra), spendendo risorse in hardware ed energia, ma ricevendo in cambio una ricompensa in Bitcoin. La remunerazione dei minatori è il motivo principale per cui la blockchain di Bitcoin è considerata immutabile, e quindi sicura: il minatore che crea un blocco oggi ottiene oltre 6 Bitcoin, oggi pari a circa 250 000 dollari. Potete immaginare quanto questa ricompensa produca una “gara” fra i minatori nel riuscire a creare un blocco valido, e propagarlo all’intera rete prima di tutti gli altri competitor. Se un miner malevolo volesse, ad esempio, cancellare una transazione, contenuta in un vecchio blocco, dovrebbe:

  • creare una blockchain simile a quella esistente, ma senza quella transazione;
  • “convincere” i nodi della blockchain che la sua versione è quella giusta, scontrandosi con quella su cui molti miner stanno lavorando per aggiungervi nuovi blocchi.

L’algoritmo ideato da Satoshi Nakamoto è costruito in maniera tale da preservare solo la versione della blockchain dove è concentrata la maggior parte di capacità di calcolo, per questo sarebbe possibile al miner malevolo imporre la propria versione modificata della blockchain solo se costui fosse in possesso di una capacità hardware superiore a quella di tutti i miner competitor messi assieme. L’elevata remunerazione gioca un ruolo chiave, assicurando quindi che ci siano numerosi miner interessati a competere per creare un blocco, utilizzando hardware all’avanguardia, rendendo impossibile, per un miner malevolo, avere una capacità di calcolo superiore a quella di tutti gli altri.

Ma la blockchain di Bitcoin non è l’unica blockchain esistente, anche se è sicuramente la più rappresentativa, e alcune blockchain si stanno evolvendo in una direzione green.

Le blockchain green sostituiscono la proof-of-work principalmente con una di queste due alternative: la proof-of-authority e la proof-of-stake. Si tratta di due meccanismi che potrebbero davvero permettere alla blockchain di divenire meno energivora e di scalare in termini di operatività.

L’idea della proof-of-authority è che ci sono dei nodi fidati che hanno l’autorità di creare i blocchi validandone le transazioni. Gli utenti di questa blockchain devono quindi fidarsi di tali nodi, e del fatto che il loro

comportamento non sia mai malevolo, cioè atto a sabotare la blockchain. Tale idea è spesso presente nelle blockchain permissioned, cioè blockchain utilizzabili da un numero ristretto di utenti scelti (i nodi della blockchain), di cui si conosce l’identità.

Appare chiaro che la proof-of-authority non potrebbe mai sostituire la proof-of-work in una blockchain come quella di Bitcoin, dove l’identità degli utenti non è nota, se non attraverso una sequenza di lettere e numeri. Dovrebbe entrare in campo una autorità (ad esempio una banca centrale?) che vigila sul loro comportamento. Come ci si potrebbe infatti fidare di alcuni nodi di cui non si conosce l’identità?

La proof-of-stake permetterebbe di mantenere alcune caratteristiche della blockchain (anonimità, aperta a tutti) e potrebbe permettere di costruire una blockchain green: nella proof-of-stake i minatori vengono sostituiti dai validatori. Il meccanismo si fonda ancora sugli incentivi a non manipolare la blockchain. I nodi, per poter diventare dei validatori, devono “congelare” una quota (stake) delle proprie criptovalute, come se fossero una sorta di deposito cauzionale. Questo è possibile ad esempio tramite smart contract, che rendono questi stake non spendibili per un periodo prefissato. La quota depositata non può quindi essere utilizzata o spesa. Semplificando, l’idea è che un validatore non agirà in maniera malevola, dato che un sabotaggio della blockchain distruggerebbe il valore della criptovaluta, e quindi il valore del suo deposito cauzionale. Se infatti i validatori si comportassero in modo malevole nessuno avrebbe fiducia nella blockchain e le loro criptovalute perderebbero di valore.

Dobbiamo infatti ricordarci che la blockchain è l’unica prova del possesso di una criptovaluta, come 1 Bitcoin: io detengo 1 Bitcoin se e solo se sulla blockchain esiste una transazione dove io l’ho ricevuto, e non esiste nessun’altra transazione dove io ho versato quel Bitcoin a qualcun altro. Che valore avrebbe, quindi, una criptovaluta legata ad una blockchain facilmente modificabile da un validatore malevolo? Nullo o comunque molto basso.

La proof-of-stake non è però immune da problemi: uno fra tutti, a quanto deve ammontare il deposito cauzionale per un nodo validatore creando i giusti incentivi? Se troppo alto, i validatori potrebbero essere pochi, se troppo basso, allora verrebbe meno il deterrente di perdere il deposito cauzionale, o di vedere il suo valore scendere, perdendo ricchezza. Ma è sicuramente la strada più promettente per una blockchain green. Esempi di blockchain con proof-of-stake esistono già, una su tutti Algorand, che però al momento ha una capitalizzazione di mercato di 6.5 miliardi di dollari, contro gli oltre 800 miliardi di Bitcoin. Ed una soluzione rivelatasi per ora “sicura” per una blockchain di 6.5 miliardi potrebbe non funzionare in un’economia 123 volte più grande, con interessi economici incredibilmente superiori.

In questi giorni, lo sguardo per una blockchain green va sicuramente ad Ethereum, la seconda blockchain per capitalizzazione, con una capitalizzazione di oltre 350 miliardi di dollari: Ethereum sta studiando il modo di inserire due livelli di blockchain, uno basato su proof-of-work e l’altro su proof-of-stake, per mantenere la sicurezza della proof-of-work, limitandone però l’uso. La strada non è stata semplice fino ad ora, i problemi di implementazioni sono stati molti, ma si aspetta l’annuncio per l’adozione di tale tecnologia.

Usando un’immagine presa dal mondo automobilistico, il sogno sarebbe un’auto a emissioni zero, le auto elettriche (blockchain basate su proof-of-stake) sono poco diffuse per i molti limiti, ma Ethereum potrebbe essere l’auto ibrida che inizia realmente la rivoluzione green per la sostituzione dell’auto a benzina (la blockchain basata su proof-of-work).

Fonte: Huffpost

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