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AUTOCRAZIA, TRA DISPOTISMO E DEMOCRAZIA

AUTOCRAZIA, TRA DISPOTISMO E DEMOCRAZIA

di Antonio Bettelli – Responsabile Nazionale dei Liberaldemocratici Italiani per le Politiche Nazionali, Europee e Internazionali di Difesa e di Sicur

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di Antonio Bettelli – Responsabile Nazionale dei Liberaldemocratici Italiani per le Politiche Nazionali, Europee e Internazionali di Difesa e di Sicurezza)

“L’unica preoccupazione dei re, o dei loro funzionari, si concentra in due soli scopi: estendere il loro dominio all’estero e renderlo più assoluto all’interno. […]

È facile inoltre capire che la guerra e le conquiste da un lato, e il progredire del dispotismo dall’altro, si aiutano reciprocamente; infatti è noto che da un popolo di schiavi si prelevano volontà, denaro e uomini per sottomettere altri, e che a sua volta la guerra fornisce un pretesto per nuove esazioni pecuniarie e un altro pretesto non meno specioso per avere sempre grandi eserciti al fine di intimorire il popolo.” (J.J. Russeau)

L’affermazione di Jean-Jacques Russeau, tratta dalla pubblicazione postuma nel 1784 del suo “Giudizio sul Progetto di Pace Perpetua”, si attaglia perfettamente a descrivere quanto stia accadendo nella Russia putiniana di oggi. 

Il controllo interno dell’informazione, il reclutamento autoritario ed eccezionale di soldati dalle aree più periferiche ed emarginate del territorio nazionale, lo stato di polizia e l’incremento della produzione bellica con trend senza precedenti negli ultimi ottant’anni sono solo alcuni esempi dei provvedimenti varati o inaspriti da Putin per effetto del conflitto con l’Ucraina e a sostegno di quest’ultimo. Questi provvedimenti, combinati con il ricorrente pronunciamento di proclami sciovinisti in nome della Grande Russia e con il successo militare sin qui ottenuto nei territori delle riconquistate province dell’Ucraina Orientale, ormai trincerate entro insuperabili barriere difensive, soddisfano l’unica e vera preoccupazione di Vladimir Putin: mantenere il potere e potenziare la sua leadership autocratica-dispotica. 

Alimentandone la nevrosi, parossisticamente espressa dall’atto di aggressione all’Ucrainagli effetti delle decisioni autoritarie perseverano lo stato di potere di Vladimir Putin e sottraggono il popolo russo a una prospettiva di apertura verso regole più libertarie, ampliando la separazione in regime di eccezionalità tra despota e sudditi (parafrasando Russeau).

In altre parole, la riconquista di importanti risorse geo economiche, di cui il territorio ucraino orientale abbonda, l’accesso terrestre alla Crimea attraverso le province conquistate di Zaporizhia e di Kherson, il controllo del Mar d’Azov e del Mar Nero, quest’ultimo in chiave emergenziale per il perdurare dello stato di conflitto e come forma di ricatto economico, la definizione di una zona geopolitica a protezione fisica e ideologica della Russia dall’Occidente e dalla NATO sono solo alcune delle condizioni che accreditano il dominio esterno, mentre l’esercizio di una rinnovata forma di controllo del popolo attraverso l’emanazione di leggi speciali corrobora quello interno. Le due forme di controllo, volutamente ricercate da Putin, si combinano sinergicamente acclamando nei risultati il concetto di indispensabilità, come se fosse un’assuefazione per il popolo, del Capo-Duce.

L’autorità di Putin, prima dell’aggressione all’Ucraina del 2022, era destinata a subire forse irrimediabilmente gli effetti soffocanti di una finanza mondiale sempre più eterodiretta da un ristretto manipolo di plutocrati (tra i quali vi era, e vi sarà tuttora, qualche oligarca russo non allineato al volere del suo Capo nazionale) ed era soggiogata al monopolio monetario statunitense, capace di orientare le scelte dei Paesi alleati e amici influenzandone economia e politica. La sindrome di accerchiamento, provocata dalla sottrazione di spazio di manovra nelle ampiezze territoriali della Grande Russia occidentale, spazio più volte usato a sostegno delle ritirate strategiche sulle linee del Dnepr, del Don e del Volga nel secondo conflitto mondiale o per stringere nella morsa dell’inverno le truppe napoleoniche agli inizi dell’Ottocento, era forse diventata ossessiva per un uomo abituato a decidere senza remore etico-morali; remore alle quali, invece, le nostre democrazie ci hanno reso avvezzi e bisognosi.

Cercando di immaginare la visione autoritaria di Putin, credo che per l’autocrate russo la misura della minaccia a danno della sua autorità fosse giunta al colmo e che la soglia di un pericolo troppo grande e non accettabile fosse stata raggiunta. Un limite oltre il quale non agire avrebbe procurato un danno non solo certo (a lui) ma anche superiore a quello che il peggiore tra gli scenari possibili dell’azione avrebbe potuto provocare. E così l’autocrate, assurto a despota, ha agito, compiendo un atto che pochissimi, a poche ore dai fatti, avrebbero immaginato.

Ammettendo come veritiera questa lettura degli avvenimenti che hanno coinvolto e che ancora oggi coinvolgono in modo tragico l’Ucraina, la Russia e l’Europa, viene ancora una volta da domandarsi perché non si sia operato diplomaticamente e con l’uso della dissuasione politica per scongiurare il precipitare della tensione tra i due Paesi confinanti e per evitare un conflitto dal quale al momento non si intravvede alcuna via d’uscita. Può forse bastare la tesi della non previdibilità della decisione russa? Si è trattato di un errore di miscalculation? E se poi fosse così, la miscalculation l’ha commessa Putin, nel voler raggiungere Kiev e il governo Zelensky e sottovalutando la coesione occidentale, o l’ha commessa l’Occidente nel non agire per evitare un conflitto ancora oggi perdurante e apparentemente senza soluzione?

A mio avviso, vi è solo una spiegazione, e cioè che in qualche misura, certamene non in modo così criminale ma forse non per questo non incolpevole, vi fossero interessi al conflitto anche nel campo opposto. Aggiungo che gli interessi del campo opposto, e qui vi metto in primo luogo gli Stati Uniti, non divergono nella sostanza dalle ragioni esplicitate da Russeau nel breve estratto che ho proposto in apertura. 

L’assioma pronunciato dal filosofo-pedagogista francese, circa la convenienza per il despota di turno di realizzare la sinergia del binomio dominio esterno e dominio interno, quindi perfettamente calzante alle esigenze di un regime dispotico, è negato per definizione e in modo altrettanto assiomatico in democrazia, ancor più se la democrazia fosse estesa a orizzonti ampi, abbracciando gran parte dell’umanità, ma di principio il contro-assioma democratico vale anche per una piccola democrazia isolata.

Ciò che voglio dire è che, seppur in forma diversa, la democrazia dell’Occidente, di cui gli Stati Uniti sono oggi rappresentazione riconosciuta e affermata (sic), non è esente dalle dinamiche compromissive che afferma Russeau circa le necessità, a preservazione della leadership del Capo di turno, di provvedere a conquiste territoriali e di assoggettare la società alla corresponsione di contributi in termini di volontà, denaro e uomini, non per ultimo per disporre di eserciti intimorenti. 

Le lobby finanziarie, in grado di influenzare le decisioni dei governi con i loro strumenti di monopolio, le pandemie come condizioni di necessità atte a proclamare stati estremi di emergenza, il predominio ambientale evocato dai frequenti eventi calamitosi, le grandi tematiche bioetiche sovvertitrici dell’ordine della società tradizionale, l’orizzonte scientifico che vorrebbe in alcune sue espressioni travalicare il confine dell’umanesimo accarezzando l’esistenza di un nuovo-superuomo-androide sono solo alcuni dei fenomeni che trasversalmente stanno spostando le società occidentali dal punto di equilibrio democratico tra egualitarismo e libertà e che quindi aumentano con la loro sussistenza le mire autoritarie alle quali anche i leader dei paesi democratici potrebbero non essere esenti.

La passività rispetto alle decisioni politiche e l’astensionismo elettorale sono forse le espressioni oggi più evidenti di questa grave diluizione della democrazia. L’indisponibilità perdurante di governi eletti e il quadro di eccezione rispetto alle regole costituzionali, il pregiudizio alimentato dal ricorso a espressioni estreme del dialogo politico verso un pensiero diverso e opposto, l’adozione della denigrazione personale a danno dell’avversario quale arma di convenienza politica, questi sono ancor più in dettaglio i segnali della lenta degenerazione delle società democratiche. 

Non vi è allora da meravigliarsi che a dispetto dell’innegabile esistenza di despoti pronti a compiere azioni efferate e criminali, come il dramma russo-ucraino dimostra, l’Occidente democratico possa perdere (o aver perduto) l’occasione per esercitare il suo ruolo di equilibrio, compromettendosi esso stesso con posizioni che potrebbero non essere scevre da interessi di parte.

Non so se vi sia tempo e modo per riguadagnare una posizione centrata e centrale rispetto al caos europeo. La guerra è in atto, come sta peraltro già accadendo in molte altre aree più lontane dalla nostre porte di casa, e di questa guerra, che ci riguarda molto da vicino, non riusciamo neppure a immaginare l’orizzonte. 

Ho personalmente sempre sostenuto che le guerre vanno evitate con tutte le risorse di cui si disponeL’alternativa è combatterle, ma combatterle veramente, con eguale se non superiore dispendio di energie morali, umane e materiali. 

Nel formulare questa affermazione, volutamente forzata, sono consapevole che la decisione tra combattere e non combattere risieda, per entrambe le accezioni, nella volontà sovrana del Parlamento e non certo (lo dico per enfasi) nell’opinione di un singolo, di un gruppo di singoli, di una parte politica e neppure nell’opinione di un qualsiasi governo.

Stare in mezzo, tuttavia, non giova a nessuno. Credo che non giovi soprattutto a noi popoli democratici.

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