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La bomba ad orologeria dell’economia turca: esplosione e fallout

La bomba ad orologeria dell’economia turca: esplosione e fallout

Nella nostra precedente analisi intitolata: “La bomba ad orologeria dell’economia turca”, pubblicata su Difesa Online il 18 agosto 2020, abbiamo descr

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Nella nostra precedente analisi intitolata: “La bomba ad orologeria dell’economia turca”, pubblicata su Difesa Online il 18 agosto 2020, abbiamo descritto i malanni latenti che si sono accumulati nell’economia turca negli ultimi 15-20 anni, in particolare l’utilizzo smodato della pratica degli “assegni post-datati”, descrivendo dettagliatamente come questa peculiarità dell’economia turca abbia giovato al sistema-paese fino al 2015-2016, mentre ha iniziato a creare problemi nell’ultimo quinquennio, quando la lira turca ha accelerato il proprio deprezzamento progressivo nei confronti delle principali valute mondiali (in primis dollaro ed euro).

Abbiamo inoltre argomentato come questa situazione abbia legato il governo turco mani e piedi all’impossibilità di lasciare che la Banca Centrale Turca mettesse in atto l’unica strategia in grado di contrastare il deprezzamento progressivo della valuta del Paese; ovvero aumentare i tassi di interesse ad un livello sufficiente per stabilizzare la valuta.

Infine, nella nostra precedente analisi abbiamo analizzato quattro possibili scenari a disposizione del governo di Erdoğan per affrontare la burrasca, scartando correttamente i primi tre, cioè la richiesta di aiuto diretto al Fondo Monetario Internazionale, la possibilità di un prestito “da stato a stato” ad altre potenze mondiali, ed il blocco della convertibilità internazionale della lira turca. Nessuno di questi tre scenari si è infatti materializzato. Corrette si sono invece rivelate le previsioni relative al quarto scenario, consistente in una sempre maggiore assertività diplomatica e militare a livello internazionale in tutti gli scenari geopolitici nel quali la Turchia ha un interesse nazionale, unita ad un sempre maggiore utilizzo di operazioni finanziarie spericolate.

Ebbene, sul fronte geopolitico già a partire dal 27 settembre 2020 il mondo intero ha assistito allo scoppio di una vera guerra fra Armenia ed Azerbaigian per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh (Artsakh per gli armeni), guerra che nell’arco di 44 giorni si è risolta con una piena vittoria per gli azeri grazie al decisivo supporto logistico e militare della Turchia.

Inoltre, il 18 ottobre 2020 al secondo turno delle elezioni presidenziali nella Repubblica Turca di Cipro del Nord (entità riconosciuta solo dalla Repubblica di Turchia), lo sfidante Ersin Tatar ha sconfitto il presidente uscente Mustafa Akıncı. La campagna elettorale è stata segnata da svariate denunce da parte del presidente uscente Akıncı di aver ricevuto minacce da parte turca, così come da iniziative neanche troppo velate da parte di soggetti riconducibili al governo di Ankara di aver sostenuto attivamente Tatar. Il neopresidente turco-cipriota è infatti un convinto sostenitore della cosiddetta “soluzione dei due stati” per Cipro, posizione gradita alla Turchia ma osteggiata dall’Unione Europea, dalle Nazioni Unite ed in generale dalla diplomazia internazionale.

La Turchia ha inoltre accelerato la sua strategia volta a garantirsi una proiezione militare e geopolitica ben al di fuori dei semplici contesti regionali, tanto che oggi i militari di Ankara hanno costituito, o sono in procinto di costituire, basi stabili in non meno di 10 paesi: Siria, Iraq, Qatar, Azerbaigian, Libia, Somalia, Cipro, Kosovo, Albania e Bosnia-Herzegovina. C’é da notare che mentre la presenza turca in alcuni dei paesi sopra menzionati avviane in maniera e secondo modalità perfettamente legali, quella in Siria, Iraq, Libia e Cipro è completamente illegale alla luce di qualsiasi norma di diritto internazionale (per quanto possa ormai valere effettivamente il diritto internazionale nella complicata era storica nella quale stiamo vivendo).

Segnaliamo inoltre che, filtrando la strategia geopolitica e militare turca attraverso il prisma esclusivo degli interessi nazionali del nostro paese, la presenza turca in Somalia, Libia, Cipro, Kosovo, Bosnia-Herzegovina e, soprattutto, Albania, rappresenta una minaccia concreta alla sicurezza nazionale della Repubblica Italiana.

Tuttavia, questo attivismo turco nei vari scenari geopolitici in cui lo stato anatolico ritiene di avere un interesse nazionale da difendere sarà forse servito a galvanizzare il supporto della base elettorale che sostiene il governo di Erdoğan, ma certo non ha potuto risolvere i reali problemi dell’economia turca, che invece hanno continuato ad aggravarsi. Sul versante economico-monetario, infatti, dall’estate 2020 fino ad oggi, il presidente Erdoğan non ha potuto fare altro che continuare ad esercitare fortissime pressioni sulla Banca Centrale Turca (Türkiye Cumhuriyet Merkez Bankası – TCMB) affinché essa continuasse ad implementare fedelmente i suoi desiderata, anche con repentini cambi al vertice se necessario.

Se nella maggior parte dei paesi del mondo è assolutamente normale che un Governatore della Banca Centrale (istituzione normalmente indipendente rispetto al potere politico, al contrario di quanto accade nel Paese anatolico) resti in carica per un periodo di almeno 4 anni o più, in Turchia il presidente-sultano ha cambiato ben 4 Governatori in 3 anni: il 6 luglio 2019 il 22esimo Governatore della Banca Centrale Turca, Murat Çetinkaya, è stato esautorato in favore di Murat Uysal, il quale ha dovuto poi cedere il posto a Naci Ağbal il 7 novembre 2020, a sua volta “licenziato” il 20 marzo 2021 in favore di Şahap Kavcıoğlu.

Si può certamente argomentare che ognuno di questi cambi sia stato fatto con l’obiettivo di rimpiazzare ai vertici dell’autorità monetaria personalità competenti con altre via via più prone ad eseguire la volontà del presidente, che è quella di non aumentare i tassi di interesse sulla lira turca a livelli adeguati a mantenere la stabilità valutaria e dei prezzi, neppure di fronte a scenari di sempre più rapido deprezzamento ed inflazione via via crescente.

Se al 31 dicembre 2018 per acquistare 1 euro servivano 6,05 lire turche, ed al 31 dicembre 2019 ne servivano 6,66, al 31 dicembre 2020 ne servivano ben 9,09. Quest’anno il deprezzamento è ulteriormente accelerato, dato che il tasso di cambio ha raggiunto quota 10,39 al 30 giugno e 11,44 al 15 novembre (dati Bloomberg). (Piccola nota degli autori: nonostante il mondo della finanza internazionale sia abituato a seguire il cambio di qualunque valuta al mondo – inclusa la lira turca – contro il dollaro americano, coloro che scrivono preferiscono monitorare il cambio della lira contro l’euro, dato che i paesi europei rappresentano la parte del leone negli scambi commerciali internazionali della Turchia).

Se da un lato si può argomentare che il deprezzamento della lira sia un problema secondario per Erdoğan, dato che esso comunque migliora la competitività delle esportazioni manifatturiere della “Sublime Porta”, lo stesso non si può dire per l’inflazione. Infatti, un’inflazione eccessiva (dove per eccessiva si intende superiore ai tassi di interesse nominali) rappresenta un pericolo mortale per il sistema bancario di Ankara, dato che potrebbe indurre i cittadini e le imprese a riversare sulle banche la montagna incontrollata di assegni post-datati di cui abbiamo parlato nella nostra precedente analisi. Se nel tredicennio d’oro della “tigre anatolica”, ovvero dal 2004 al 2016 inclusi, l’inflazione annua in Turchia si è sempre mantenuta stabile e compresa fra il 6% ed il 10% (tranne che nel 2008, quando si è attestata al 10.44% a causa dell’impennata del prezzo internazionale del petrolio), dal 2017 al 2020 compresi essa è aumentata e si è assestata ogni anno in una forchetta compresa fra l’11% ed il 16% (dati Banca Mondiale).

Seppur più alta, in questi ultimi quattro anni l’inflazione ha certamente preoccupato chi, fra i funzionari del governo e della Banca Centrale Turca, da molto tempo oramai invoca un approccio più ortodosso alla politica monetaria, ma certamente non il presidente Erdoğan, il quale ha imposto il sostanziale mantenimento della rotta.

Tuttavia, nel corso del 2021 l’inflazione ha subito un’impennata indigesta anche per il presidente, passando dal 14,97% di gennaio 2021, al 17,53% di giugno, al 19,89% di ottobre fino al 21,31% di novembre (dati Banca Centrale Turca, confronto rispetto allo stesso mese dell’anno precedente).

Superata la soglia psicologica del 20%, il presidente-sultano deve avere capito che non era più possibile mantenere la linea come se nulla fosse, ed ha deciso che era giunto il momento di fare qualcosa.

Ed ecco che nell’ultimo mese, la nostra previsione in base alla quale Erdoğan avrebbe continuato “ad utilizzare il già consumato mix di sparate propagandistiche ed operazioni finanziarie spericolate” si è confermata al di là di ogni nostra immaginazione.

Gli eventi salienti dell’ultimo mese si possono riassumere così:

– 2 dicembre 2021 il ministro delle finanze Lutfi Elvan, considerato l’ultimo sostenitore nelle stanze del potere turco di una politica economica minimamente “ortodossa”, rassegna le dimissioni e viene sostituito da Nureddin Nebati, convinto sostenitore della politica dei bassi tassi di interesse. Dopo l’insediamento, Nebati ha affermato sul proprio profilo Twitter che se nel passato il perseguimento di una politica di bassi tassi ha trovato una forte opposizione, “questa volta siamo determinati ad implementarla”;

– 8 dicembre 2021, dopo una riunione del gabinetto presidenziale, Erdoğan ha rilasciato una dichiarazione sul nuovo corso in economia durante la quale ha affermato: Sappiamo cosa stiamo facendo. Sappiamo come farlo. Sappiamo dove stiamo andando. Sappiamo cosa otterremo”. Interessante da questo punto di vista il parallelismo che gli storici dell’economia potrebbero fare con le parole pronunciate nel 1928 da António de Oliveira Salazar all’atto di assumere il potere in Portogallo (“So molto bene cosa sto facendo e dove sto andando”). Tuttavia Salazar era uno dei più grandi economisti del suo tempo e, per stabilizzare la moneta portoghese utilizzò tutti gli stumenti della politica economico monetaria classica (drastica riduzione dei salari, massiccio taglio della spesa pubblica e aumento delle tasse). C’é da chiedersi che faccia farebbe oggi al pensiero di quanto sta facendo Erdoğan;

16 dicembre 2021 il presidente Erdoğan annuncia un ulteriore taglio ai tassi di interessi di 100 punti base, unitamente ad un incremento del salario minimo in Turchia del 50% a partire dal primo gennaio 2022, l’incremento più alto degli ultimi 50 anni. A memoria degli autori, l’unico paese al mondo che abbia tentato di fare una cosa simile, quantomeno negli ultimi 30 anni, fu la Corea del Nord con la sua maldestra riforma del Won Nordcoreano che provoco una breve ma potenzialmente devastante situazione di caos in Corea del Nord nel 2009.

Si può dunque comprendere – specialmente dalla doppia mossa di giovedì 16 dicembre – come il presidente-sultano abbia voluto prendere il toro per le corna, ed affrontare tutti i problemi economici del suo paese, accumulatisi nel corso di 20 anni, nel più spregiudicato dei modi: causando intenzionalmente una “esplosione” di una spirale inflazione-svalutazione che oramai non può più essere controllata.

Per capire il perché il presidente Erdoğan abbia voluto attuare una politica che a prima vista può sembrare folle, a costo di annoiare il lettore è necessario fare una breve digressione e richiamare alcuni fondamentali cambiamenti che si sono verificati nell’economia e nel commercio globale come conseguenza della pandemia di COVID-19.

In primo luogo, la repentina chiusura della Cina nei primi mesi del 2020, a cui ha fatto seguito la chiusura di praticamente tutto il resto del mondo durante la primavera dello stesso anno, ha completamente ingolfato il settore dei trasporti commerciali marittimi transoceanici, dato che da 2 anni a questa parte vi è una cronica carenza di container vuoti “al porto giusto al momento giusto” e vi è una totale incertezza riguardo alle rotte delle navi transoceaniche ed ai porti nei quali esse potranno fare scalo. Di conseguenza, il costo di un container per un viaggio di sola andata Asia-Europa è oramai decuplicato rispetto ai tempi pre-COVID (fonte: The Economist). Inoltre, le tempistiche di tale viaggio sono perlomeno raddoppiate, e caratterizzate da assoluta incertezza.

In secondo luogo, la politica “zero COVID” perseguita dalle autorità cinesi (ed in misura minore da altre potenze manifatturiere asiatiche come il Vietnam) ha determinato di fatto la chiusura ermetica dei confini della Repubblica Popolare Cinese (e di alcune altre nazioni asiatiche) a tutti i visitatori stranieri da oramai due anni, oltre che la drastica ed imprevedibile attuazione di lockdown tanto estesi quanto indeterminati nella durata, anche solo per un numero ufficialmente ridottissimo di contagi.

Poche settimane orsono il governo cinese ha inoltre chiarito che sia la politica “zero COVID” sia la chiusura dei confini continueranno almeno per tutto il 2022. Di conseguenza, tutti gli uomini d’affari, tecnici e maestranze che fino al 2019 si recavano regolarmente per lavoro nel Paese che da oltre 20 anni rappresenta la vera “fabbrica del mondo”, per il terzo anno consecutivo si vedranno fisicamente impossibilitati a supervisionare le proprie produzioni. Inoltre, per il terzo anno consecutivo le produzioni cinesi e di altri paesi asiatici destinate all’esportazione saranno molto probabilmente soggette a ritardi di produzione e consegna assolutamente imprevedibili.

Il risultato di entrambi i fenomeni descritti è che un sempre maggiore numero di imprese europee ed americane di ogni settore manifatturiero stanno oramai seriamente lavorando ad accorciare geograficamente la propria filiera di approvvigionamento produttivo. In particolare, per le aziende europee ciò significa sostituire le produzioni in Cina ed in Estremo Oriente con approvvigionamenti in paesi caratterizzati da un basso costo del lavoro situati geograficamente più vicini all’Europa, il che vuol dire essenzialmente Nord Africa, Europa Orientale e (guarda caso!!) Turchia.

Una volta chiariti questi cambiamenti epocali che si stanno verificando nel commercio globale, possiamo ora cercare di capire qual è il “fallout atteso” dal presidente Erdoğan rispetto a questa “esplosione intenzionale” della spirale inflazione-svalutazione:

la lira turca, che un mese fa si trovava sul ciglio del burrone, ha fatto il passo avanti. Se (come già citato) al 15 novembre scorso essa cambiava a 11,44 contro euro, alla chiusura di venerdì scorso 17 dicembre 2021 il cambio si attestava a 18,68 il che significa una perdita di circa un terzo del valore in appena un mese (e di metà in meno di un anno). Tutto lascia pensare che questo sia solo l’inizio di un baratro profondissimo;

– il carovita è destinato a sfuggire di mano, sia a causa della svalutazione, che del colossale aumento degli stipendi minimi. Già nelle prossime settimane la Turchia sarà in una situazione di iperinflazione;

– la svalutazione e l’iperinflazione faranno carta straccia della montagna di assegni post-datati denominati in lire turche e accumulati a tutti i livelli dell’economia negli ultimi 20 anni, risolvendo il problema una volta per tutte;

le imprese turche resteranno a galla, poiché approfitteranno del crollo degli stipendi in termini reali, e già da qualche mese sono inondate da fiumi di ordini e commesse da parte di clienti europei che devono sostituire le produzioni asiatiche. Inoltre, le aziende turche per poter operare in un tale contesto devono necessariamente pretendere dai loro clienti (internazionali o turchi) pagamenti anticipati ed in valuta;

– ciò comporterà un brutale risanamento dei bilanci delle imprese turche, specialmente per quanto riguarda il capitale circolante, dato che ai pagamenti lunghissimi e con assegni post-datati di pochissimo tempo fa si passa repentinamente a pagamenti anticipati ed in valuta;

la popolazione salariata ed i pensionati saranno le vere vittime di questa situazione, dato che subiranno un crollo verticale del potere d’acquisto e dunque un generale impoverimento. Il governo conterà di poter tenere a bada la popolazione con aumenti di stipendi e pensioni tanto frequenti quanto generosi, che però non compenseranno del tutto la perdita di potere d’acquisto.

– la borghesia produttiva e le élite non soffriranno più di tanto, dato che sono già abituate a mantenere una quota considerevole dei propri risparmi in valuta pregiata (in primis dollari americani ed euro).

È di fondamentale importanza notare che il “rifugio anti-atomico” sul quale il governo Erdoğan fa veramente affidamento in attesa degli eventi è la solidità del sistema bancario, ovvero la convinzione che la “dollarizzazione di fatto” dell’economia turca appena descritta (o “eurizzazione” se il lettore di Difesa Online ci consente questo neologismo) non porterà ad una fuga di capitali dalle banche turche verso l’estero. La speranza è che il sistema produttivo, che dato il contesto dovrà da subito operare unicamente in dollari o euro, mantenga i dollari e gli euro depositati presso banche turche. In alternativa, ci si aspetta che quei depositi in valuta che una parte della borghesia produttiva vorrà per sicurezza spostare verso altri lidi vengano più che compensati dai flussi di valuta pregiata in ingresso, attesi ad esempio da tutti quegli investitori europei, ma soprattutto russi, che da qualche settimana hanno già messo gli occhi su ville e appartamenti in tutte le località di villeggiatura turche, ora in vendita a prezzi da saldo.

Una situazione di importanza limitata ma che rende l’idea è l’incredibile capovolgimento delle parti da girone dantesco che da qualche giorno si verifica lungo il confine bulgaro-turco. Infatti, da qualche giorno gli abitanti delle normalmente impoverite regioni del sud-est della Bulgaria stanno mantenendo rosee le sorti dei negozianti e dei bottegai della città di Edirne, effettuando acquisti (in lire turche) senza badare a spese.

Non dobbiamo pensare però che le azioni più propriamente economico-finanziarie rappresentino le uniche “armi” che Erdoğan utilizzerà nella sua “Jihad” di sopravvivenza del suo regime. Come già avvenuto in passato, tutte le iniziative del “Reis” sono state anticipate dalla solita grancassa mediatica ad uso e consumo interno protesa a rappresentare per l’ennesima volta la Turchia come “vittima di una congiura internazionale” causata dagli immancabili americani, europei, russi, ebrei e massoni e nella necessità da parte della nazione di fare quadrato intorno alla “sacra difesa della patria”.

Sul fronte geopolitico poi, già da settimane si rincorrono voci sull’inizio di una nuova offensiva turca in terra siriana che avrebbe come obiettivo tanto le milizie curde alleate dell‘Occidente che le forze fedeli al presidente Assad. Interessante notare che mentre all’inizio della crisi le parti in campo davano l’inizio dell’operazione turca come imminente, e i preparativi sul terreno stessero avvenendo palesemente di fronte alle telecamente di tutto il mondo, pare che ora i turchi stiano nicchiando e posticipando l’inizio del loro “prossimo colpo”. La ragione potrebbe essere il possibile scoppio della tanto temuta guerra tra Russia ed Ucraina, anch’essa campeggiante in quest’ultimo periodo sulla pagine dei mezzi d’informazione di mezzo mondo. Se tale catastrofico scontro dovesse avere luogo, per Ankara sarebbe una manna perché gli garantirebbe la possibilità di sostenere Kiev alla luce del sole e di poter intervenire impunemente in Siria senza che né la Russia né l’Occidente possano fare alcunché.

Nello stesso arco temporale, le forze aeree turche, in particolare i droni, sono state particolarmente impegnate in Iraq e hanno portato a compimento una serie di omicidi mirati di alto profilo contro alcuni leader politici e militari non solo del PKK ma anche della “Êzîdxan Protection Force”, delle “Sinjar Resistance Units” e delle “Êzîdxan Women’s Units”, tutte formazioni militari degli yazidi iracheni accusate da Ankara di essere niente più che delle “emanazioni del PKK” e che hanno come “peccato” quello di difendere il territorio degli yazidi situato sul Monte Sinjar, rilievo dalla valenza strategica che fa gola da molto tempo alle ambizioni geopolitiche di Ankara.

Non bisogna poi dimenticare gli ultimi sussulti delle travagliate vicende interne libiche, con la recente cancellazione delle elezioni presidenziali previste per la fine del 2021 a causa dell’ennesimo atto di forza delle milizie appoggiate in maniera occulta o palese dalla Turchia, la quale avrebbe tutto da perdere se vincitore della tornata elettorale dovesse essere Saif al-Islam Muammar al-Gaddafi figlio del defunto dittatore Muammar Muhammad Abu Minyar al-Gaddafi ucciso nel corso della guerra civile scoppiata nel paese nel 2011 e tutt’ora in corso.

A conti fatti quindi, è assai probabile che la Turchia sia spinta ad architettare un altro dei suo “colpi” in uno dei teatri geopolitici sopra citati nel corso del 2022, forse già nei primi mesi.

In conclusione, possiamo affermare che se il governo di Erdoğan ha sbagliato i conti, e nei prossimi mesi assisteremo ad una perdita di fiducia nel sistema bancario da parte degli operatori economici turchi con conseguente fuga di capitali dalle banche nazionali verso l’estero, allora la spirale inflazione-svalutazione si convertirà in una crisi di sistema dagli esiti tanto devastanti quanto imprevedibili sia sul fronte della stabilità politica interna della Repubblica di Turchia, sia sul fronte dei mercati finanziari internazionali. Data la relativa solidità delle banche turche, oltre che il grado di controllo che il presidente-sultano esercita sui principali gangli dell’economia, questo scenario al momento è improbabile.

Se invece il governo di Erdoğan avrà azzeccato la sua spregiudicata scommessa, è facile ipotizzare che di qui a qualche anno la lira turca verrà riformata come dopo la crisi del 2001, si elimineranno gli zeri che si dovranno eliminare e si ritornerà ad una politica monetaria ortodossa. Le aziende europee in cerca di forniture industriali a basso costo e vicino casa, a fronte dell’instabilità del Nord Africa, della carenza di manodopera nei paesi dell’Europa centro-orientale e della corruzione endemica nei paesi ex-sovietici, troveranno invece in Turchia un paese con una tassazione relativamente bassa ed una forza lavoro giovane ed ampia ad un costo del lavoro bassissimo e soprattutto, a 48 ore di trasporto via terra dall’Europa occidentale. L’economia tornerà a correre, e non è escluso che qualcuno parli di “risveglio della tigre anatolica”.

Il risultato? Una Turchia più industrializzata, anello sempre più imprescindibile nelle catene di approvvigionamento industriale dell’Europa, e di conseguenza più forte anche sul piano politico e diplomatico.

Abbiamo quindi tracciato due possibili sviluppi per la Turchia, uno negativo (in caso di crisi bancaria) ed uno positivo (in assenza di essa). Come andranno veramente le cose nei prossimi mesi ed anni? Ci sentiamo di prevedere, come sempre, una via di mezzo tra i due scenari estremi. In medio stat virtus.

Fonte: Analisidifesa.it

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