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Baltico: un mare in guerra senza saperlo

Baltico: un mare in guerra senza saperlo

Il Baltico fa parte della geopolitica dimenticata; l’immaginario collettivo, quando indotto a pensare al nord, approda sempre alla Scandinavia, forse

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Il Baltico fa parte della geopolitica dimenticata; l’immaginario collettivo, quando indotto a pensare al nord, approda sempre alla Scandinavia, forse all’Artico, mai a quel mare piccolo, freddo, eppure ricco di ambra, traffici mercantili, linee di comunicazione. Un mare per cui si è combattuto, per cui l’egemonia regionale ha fatto avvertire il suo peso nel corso dei secoli. Un mare gelido, che bagna terre dai confini bollenti, dove da anni non si registrano incidenti, dove non si spara, ma che rimangono sotto la vigilanza di Nato, Russia, UE. Una linea rossa di 2000 Km che parte dalla Finlandia, tocca Estonia e Lettonia, passa per la Lituania, rievoca l’eco ucraina, le proteste bielorusse, i small green men; una cortina di ferro che marca il nuovo confine tra oriente e occidente attraversato da esuli che vanno ad affollare le comunità baltiche disseminate tra Europa e Nord America. Un – non a caso – balteo acqueo, una cintura di rilevanza strategica, geopolitica, militare, economica in grado di assicurare il collegamento con l’Atlantico, con i suoi porti deputati al transito del petrolio russo verso i mercati europei, ed alle importazioni occidentali verso Mosca. Una terra che non può prescindere dal ricercare una forma di sicurezza multidimensionale che investa tutti gli aspetti, non solo quello militare; un’area sorvolata da aerei militari, con sottomarini che solcano le profondità delle acque baltiche, svedesi, norvegesi, danesi, lì dove insiste la piattaforma di lancio della proiezione di potenza americana.

Se una guerra per il Baltico in sé è improbabile, uno scontro anche se estemporaneo lo è molto meno, visto che in queste acque deflagrerebbe per riflesso qualsiasi attrito sia pur combattuto altrove fra Russia ed occidente, magari attivando Kaliningrad, oblast militarizzato tra Polonia e Lituania, con la Scandinavia a portata di assalto; sotto quest’ottica, è necessario rammentare come le Repubbliche Baltiche debbano essere considerate il fianco vulnerabile dell’Alleanza, visto che l’unico concreto collegamento tra queste e l’Occidente è un tratto di circa 60 chilometri a cavallo tra Polonia e Lituania, noto come la breccia di Suwalki, spazio soggetto alla potenziale attivazione di una bolla A2/Ad dal Baltico.

Le Carrè, nel bel tempo che caratterizzò la bipolarizzazione di una guerra che nel suo freddo stava preparando scenari incandescenti, nei suoi romanzi riportò all’attenzione Stati e città lasciati, fin da prima degli anni 40 del secolo scorso, sotto il velo polveroso della storia, ed ancor prima sotto il dominio svedese, sotto il controllo dell’aquila bicipite zarista, sotto l’oppressione tedesca; lo scrittore del Cambridge Circus preservò almeno la dignità letteraria per soggetti politici loro malgrado entrati in un gioco di equilibri di potenza troppo più grandi di loro, così egemonicamente forti da renderli repentinamente inconsistenti, un inciampo di poco conto nel percorso della storia. Non a caso Lituania, Lettonia ed Estonia, la cerniera baltica che non ha voluto permanere nell’allora CIS russa per entrare invece nell’EU, simbolo di progresso economico, e nella Nato, Alleanza bilanciatrice della volitività russa, continuano a celebrare l’indipendenza conquistata nel 1918 considerando i periodi successivi come oggetto – nazista prima e sovietico poi – di pura occupazione si transitoria, ma ancora foriera di non ingiustificati timori di una revanche moscovita.

Malgrado la storia le abbia accomunate, le tre repubbliche evidenziano significative differenze e pesanti eredità storiche; l’Estonia, grazie alla contiguità con Helsinki, ha puntato alla digitalizzazione, la Lituania ha guardato al pragmatico sud polacco, mentre la Lettonia ha dovuto prendere atto di una storia patria controversa e difficile. La politica adottata verso le minoranze etniche ha risentito dei rapporti, specie quelli passati, con la Russia, ragion per cui Riga e Tallinn hanno adottato linee di azione politico-sociali forse comprensibili ma di certo non giustificabili secondo gli standard europei: gli idiomi nazionali sono stati riportati in piena luce e, sulla loro conoscenza, dopo l’indipendenza, si è basato il test per la concessione della cittadinanza a quella quota parte di popolazione priva di un’attestazione di residenza che non fosse antecedente alla 2 Guerra Mondiale. Mentre rimane sempre più difficile concedere certificazioni a coloro che vengono considerati i discendenti in linea diretta degli ultimi occupanti, sullo sfondo si profila una marcata denatalità.

Quanto è accaduto in Georgia ed ancora accade in Ucraina induce a temere il peggio, con l’Orso russo ferito per la dissoluzione sovietica, ma proteso alla riconquista del preesistente senso di sicurezza geopolitica ed a garantire la protezione dei russofoni ovunque essi si trovino; un motivo, quest’ultimo, più che sufficiente per optare da parte baltica sia per una rigida ortodossia Atlantica che sconsiglia l’appoggio ai meno assertivi e fumosi progetti difensivi europei, sia nell’assunzione di atteggiamenti comunque concilianti verso Bruxelles, malgrado l’appartenenza al Trimarium, sodalizio sì atlantista ma non estraneo a linee politiche meno europeiste comuni al gruppo di Visegrad.

Sulle sponde baltiche la Russia rimane uno stato revanscista che persegue una politica di potenza fatta di conquiste territoriali (Crimea), guerre proxy (Donbass), offensive ibride e guerra cognitiva basata sulla disinformazione che mina tutto il fianco orientale dell’Alleanza Atlantica, che in nessun modo può permettersi di trascurare le sponde finniche e svedesi. Come nota di colore, basterebbe ricordare che le maggiori esercitazioni condotte dall’Esercito Russo si intitolano ZapadOccidente. Del resto non si può non considerare l’effetto di una geografia dominata da territori pianeggianti ed indifendibili che hanno impedito all’arco baltico di resistere al condizionamento delle potenze contigue, perseguito anche con tecniche di cyberwarfare simili a quelle che nell’aprile 2007, scatenando un attacco senza precedenti contro l’Estonia, hanno determinato la creazione del CCDCOE e la redazione del Tallin Manual, o come la più attuale querelle riguardante la vigilanza sulle iniziative cinesi relative alle vulnerabilità del 5G cinese che hanno visto Vilnius contrapposta a Pechino; la Lituania, stretta tra Mosca e Kaliningrad, ha compreso che opponendosi alla penetrazione cinese può ottenere un reale credito nei confronti di Washington.

In questo ambito si intravvede l’interesse strategico americano, volto sia ad incunearsi nelle relazioni russo tedesche, sia nel controllare i punti di faglia, specialmente ora che la crisi ucraina ha risvegliato le paure di chi non ha – e non può avere – lo stesso coraggio del vilniusski nastavnik Marko Ramius fuggito, grazie a Tom Clancy, con l’Ottobre Rosso. Lo stesso cuneo incarnato dall’altra parte della barricata dall’exclave russa di Kaliningrad, la base militare avanzata più grande d’Europa distante solo 104 Km dalla Bielorussia e dotata di armi in grado di inibire l’accesso al Baltico settentrionale per proteggere l’heartland russo.

Chi però nella realtà è rimasto anche troppo vicino ai confini del Cremlino, non può non temere di dover affrontare le stesse sfide che impegnano ora Kiev, accomunata dalle nutrite rappresentanze russofone, con l’occidentalizzazione baltica pronta a rammentare la sconfitta geopolitica del Cremlino privato del suo cuscinetto di sicurezza a favore di una persistente affinità verso la Germania, attribuitasi il merito di aver contribuito a sostenere, durante la guerra fredda, la causa dell’indipendenza lituana.

Il quadro baltico vede due forti contrapposizioni: da un lato l’aspirazione di Tallin, Riga e Vilnius, economicamente più vivaci della media regionale, a sottrarsi alla dipendenza energetica russa ricorrendo allo shale importato dagli USA; dall’altro il tentativo tedesco di accrescere il proprio rapporto economico e geopolitico privilegiato con la Russia.

Gli interrogativi non sono pochi: americani ed europei intendono davvero morire per i baltici? Sono sufficienti gli intenti espressi dal Triangolo di Lublino i cui angoli sono attestati su Varsavia, Kiev e Vilnius?

L’articolo 5 del Patto Atlantico garantisce l’intervento a difesa dell’alleato attaccato intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, un capolavoro concettuale e di cesello che apre più di una porta interpretativa in chiave di deterrenza.

Realisticamente un attacco convenzionale russo è al momento da ritenersi improbabile, benché ciò che rientra nei canoni della guerra ibrida ed asimmetrica non possa essere escluso, vista l’ira del Cremlino sia per l’espansione Atlantica verso est, sia per le discriminazioni verso i russi, ovvero reazioni ad anni di innegabili dispute territoriali, che hanno visto sia l’Estonia soccombente malgrado quanto stabilito con il Trattato di pace di Tartu del 1920, sia le latenti ostilità che hanno portato alla polarizzazione etnica russo-baltica solo parzialmente lenita dai tentativi di instaurazione di rapporti più amichevoli con il Cremlino volti ad evitare una possibile ucrainizzazione.

Economicamente, la Russia può proporsi sfruttando il leverage energetico esercitato attraverso la sua rete di oleodotti e gasdotti, mantenendo alti i prezzi salvo proporre accordi economico-politici a saldo che lascino la porta aperta al Cremlino ed alla sua energetic suasion. Tutto ciò alla luce degli accordi relativi al gasdotto Nord Stream, al momento flemmatizzato per carenza di requisiti utili al riconoscimento tecnico tedesco ed ispirazione per iniziative politiche che richiamano alla memoria sia i patti russo tedeschi del 1939, sia la guerra fredda. A tutt’oggi Berlino ha agevolato Mosca nella sua strategia del divide et impera che indebolisce la già fragile unità europea intaccata dal disatteso aumento della produzione gasiera russa, e dalla volubile politica del Cremlino.

Va poi detto che la differenziazione delle fonti energetiche da parte dell’UE, oggetto di vulnerabilità riguardanti dimensione e natura del mercato energetico, basandosi sull’estrazione di gas naturale, riproporrebbe il problema strategico connesso alla difesa della libera navigazione baltica, minacciata dal decadimento operativo di alcune Marine, come quella svedese, che hanno scientemente rinunciato alla ASW, cui va associata la difesa del Baltic Pipe, gasdotto strategico destinato a trasportare gas dalla Norvegia alla Polonia passando attraverso le ZEE di Copenaghen e Stoccolma; un’unione, quella europea, divisa, debole e facile oggetto dei pesanti strali del Ministro Lavrov, mai così prodigo di critiche e rimproveri mentre il ministro Shoigu annunciava il potenziamento di forze nucleari ed armamenti deterrenti convenzionali lungo i confini.

Scoppierà dunque una guerra nell’area baltica, visti gli avvenimenti ucraini? In un suo studio non troppo attempato, la Rand, ha messo in luce uno scenario in cui le forze Nato correrebbero il rischio di incappare in una pesante sconfitta, lasciando dunque le Repubbliche Baltiche in balia dell’onda d’urto russa. Notevoli i punti deboli evidenziati, primo tra tutti quello riguardante la debolezza strutturale dell’Alleanza, in cui il processo di decision making appare troppo lento e farraginoso. Al momento, tuttavia, nessuno dei due schieramenti sembra realmente intenzionato ad innescare un’escalation armata; l’equilibrio del terrore, dovuto alla minaccia nucleare in stile Guerra Fredda, risulta essere una volta di più elemento di scelta razionale. A questo va aggiunta la considerazione per cui la Russia, sulla base dei precetti del KGB, stia tentando di minacciare azioni senza però precludere nessuna opzione, nella speranza di sbilanciare gli interlocutori.

Ognuno dei contendenti è cosciente del fatto che la particolare configurazione geografica baltica consentirebbe l’interdizione delle rotte commerciali, determinando un’impasse strategica, uno stallo politico-militare dal quale tutti uscirebbero sconfitti. Lo scenario baltico è peculiare, in quanto integrato nell’area euro atlantica; se la guerra ucraina determinerebbe così gravi conseguenze per Mosca, un conflitto Baltico potrebbe portare a uno scenario decisamente peggiore.

Fonte: Difesaonline.it

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