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Il lato oscuro della Cina

Il lato oscuro della Cina

Riprogrammare tutto. Dalla lingua al modo di pensare, fino ad arrivare a ridefinire la propria identità culturale. Educare di nuovo, attraverso proces

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Riprogrammare tutto. Dalla lingua al modo di pensare, fino ad arrivare a ridefinire la propria identità culturale. Educare di nuovo, attraverso processi di apprendimento forzato e attività coercitive. Nessun tipo di libertà e una serie di imposizioni che servono a controllare la persona, obbligata a seguire rigide regole su tutto, dalla pulizia personale all’uso del bagno. Si ottengono punteggi che, in base alla padronanza della (nuova) lingua e al processo d’apprendimento, determinano un eventuale ritorno a casa o un trattamento migliore. La Cina li definisce “Centri di istruzione e formazione professionale” per prevenire forme di terrorismo, ma mezzo mondo li riconosce come veri e propri campi di rieducazione. Per “purificare i cuori”, sostenere “il giusto” e “rimuovere ciò che è sbagliato”. Al loro interno sono detenute oltre un milione di persone, tutte appartenenti a minoranze etniche, la maggior parte delle quali di fede musulmana. Documenti riservati hanno dimostrato che si tratta di veri e propri centri segreti di forzata rieducazione ideologica e comportamentale. Ma i campi di rieducazione, in Cina, somigliano più a delle prigioni.

Il 24 novembre 2019, il Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi ha pubblicato il China Cables, sei documenti che confermano l’esistenza di un “manuale operativo” per la gestione dei campi e un uso dettagliato dell’intelligence artificiale per colpire le persone e regolare la loro vita all’interno degli istituti di rieducazione. Che esistono ufficialmente dal 2014 e, come riportato da Foreign Policy sono dislocati nella regione autonoma uigura dello Xinjang, appartenente alla Repubblica popolare cinese. Sebbene non esistano dati pubblici verificabili riguardo al numero esatto dei centri, la documentazione relativa ai campi è stata accertata grazie anche ad alcune immagini satellitari e a documenti governativi. Nel novembre del 2018, l’International cyber policy center dell’Australian strategic policy institute ha riferito l’esistenza di 28 campi sospetti nella regione, anche se altre organizzazioni presenti nel Turkestan orientale ne denunciano un numero più alto.

I campi di rieducazione hanno iniziato a diffondersi nello Xinjiang (la tumultuosa area di confine occidentale del Paese), dopo l’annuncio di Xi Jinping nel 2014 di una “guerra del popolo al terrorismo”, dopo che le bombe fatte esplodere da alcuni militanti uiguri avevano distrutto la stazione ferroviaria della capitale della regione, poche ore dopo la sua visita di Stato nell’area. Da quel momento, il Partito comunista cinese ha implementato le strutture che in molti definiscono dei “gulag etnici”. “Costruire mura d’acciaio e fortezze di ferro. Installare reti sopra e le trappole sotto. Colpire duramente i terroristi”, disse il presidente ai media locali. Chen Quango, un ufficiale della linea dura proveniente dal Tibet, segretario del Partito nello Xinjang e governatore della regione dall’agosto del 2016, è ritenuto l’architetto di questo programma di sicurezza. Che, ufficialmente, doveva servire a soffocare l’attività di alcuni terroristi della zona, ma che invece ha costretto alla privazione della libertà migliaia di persone ritenute innocenti. Così, la guerra al terrore dello Xinjang si è trasformata in una straordinaria campagna di detenzione di massa, con utilizzo di tecnologia di tipo militare. I centri sarebbero gestiti segretamente, al di fuori del sistema legale. I detenuti sono per la maggior parte uiguri, la minoranza etnica turcofona e musulmana oggetto da anni dell’attenzione delle autorità cinesi per varie vicende legate al terrorismo, che conta più di 10 milioni di cittadini. E non solo. Secondo quanto denunciato da Human Rights Watch nel 2018 molti dei prigionieri uiguri sono stati rinchiusi nelle strutture senza alcun processo e soprattutto senza capi d’accusa validi. Le autorità giustificano la detenzione delle minoranze etniche musulmane con lo scopo di contrastare l’estremismo, ma si stima che i funzionari cinesi abbiano rinchiuso in queste strutture migliaia di uiguri, kirghisi, hui e altre etnie turcofone musulmane e cristiane, oltre ad alcuni stranieri con cittadinanza kazaka, come rivelato da Independent. La maggior parte degli edifici che ospitano le “prigioni” sono stati riconvertiti da scuole esistenti o altre strutture ufficiali. Grazie alla sorveglianza capillare che caratterizza la regione, fermare e imprigionare gli uiguri non è stato particolarmente complicato. Nel 2017, per esempio, gli arresti nello Xinjang rappresentavano il 21% di tutti i fermi del Paese, nonostante l’area comprenda meno del 2% della popolazione nazionale. Descritti come luoghi preposti alla rieducazione dei separatisti, i centri di rieducazione ospitano più di frequente persone che poco hanno a che vedere con l’estremismo. Lo ha confermato anche l’economista Victor Shih, il quale, nel luglio del 2019, ha definito gli internamenti di massa formalmente inutili, visto che nell’area non c’era traccia di insorti attivi, ma soltanto episodi terroristici isolati

Per comprendere come si è arrivati a questa forma di rigido controllo nei confronti della minoranza uigura in Cina, è necessario conoscere le dinamiche dei conflitti che hanno interessato l’area dello Xinjang nel corso degli anni. La regione moderna passò sotto il dominio cinese a seguito dell’espansione verso ovest della dinastia Qing dei Manciù, con l’annessione di Mongolia e Tibet. Nel 1928, dopo l’assassinio di Yang Zengxin (il governatore del semi-autonomo Khanato Kumul nello Xingjang orientale sotto la Repubblica di Cina), al comando arrivò Jin Shuren. Il quale, alla morte di Kamul Khan nel 1930, abolì completamente il Khanato, prendendo il controllo della regione come “signore della guerra”. Nel 1934, la prima repubblica separatista del Turkestan orientale, fondata l’anno prima, fu conquistata da Sheng Shicai con l’aiuto dell’Unione Sovietica. Nel 1944, la ribellione di Ili portò alla costituzione della seconda repubblica del Turkestan orientale, dipendente dai russi per il commercio e le armi. Dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, il governo cinese sponsorizzò una migrazione di massa di cinesi Han nella regione e con quei primi movimenti venne promossa un’uniformazione culturale che puniva le espressioni più tipiche dell’identità uigura. Ne conseguì la creazione di una serie di organizzazioni separatiste militanti, spesso appoggiate dall’Unione Sovietica. Durante gli anni Settanta, i russi sostennero il Fronte rivoluzionario unito del Turkestan orientale, che aveva un unico scopo: combattere i cinesi.

I rapporti tra Stato centrale e regione rimasero tesi per tutto il corso del secondo Novecento. Nel 1997, una retata della polizia e l’esecuzione di 30 sospetti separatisti durante il periodo di ramadan portarono a un’ondata di manifestazioni, che provocarono, a loro volta, ciò che storicamente è riconosciuto come “l’incidente di Ghulja“, ovvero la repressione dell’Esercito popolare di liberazione, che causò diversi morti. Alla fine del febbraio del 1997, un attentato su un autobus a Ürümqi uccise nove persone e ne ferì 68: in quella circostanza, ogni responsabilità venne attribuita ai gruppi esiliati uiguri.

Nel marzo dello stesso anno, un’autobomba uccise due persone e l’attacco venne rivendicato dalla minoranza musulmana e dall’Organizzazione per la libertà del Turkestan orientale, con sede in Turchia. La Cina, per decenni, ha lottato per controllare lo Xinjang, dove gli uiguri contestano l’ingerenza di Pechino. Dopo l’11 settembre, alcuni funzionari cinesi iniziarono a giustificare le dure misure di sicurezza prese nei confronti della minoranza musulmana, come anche le restrizioni religiose, con la scusa di respingere il terrorismo, sostenendo che i giovani sarebbero stati più suscettibili all’influenza dell’estremismo islamico. Nel 2009, le rivolte scoppiate in risposta a una violenta disputa tra uiguri e lavoratori cinesi Han in una fabbrica della regione costarono la vita a oltre cento persone. E fino al 2016, gruppi di estremisti uiguri sarebbero stati i responsabili riconosciuti del decesso di decine di cinesi Han. Molti degli attacchi furono organizzati dal Partito islamico del Turkestan (ex Movimento islamico del Turkestan orientale), ritenuto un gruppo terroristico dalle Nazioni Unite e da diversi Paesi (Russia, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti).

Il primo a limitare le espressioni culturali più tipiche e la religione locale fu Wang Lequan, che sostituì la lingua uigura (parlata quasi unicamente fino agli anni Novanta) con il mandarino standard e che vietò l’utilizzo di barba per gli uomini e foulard per le donne, il digiuno religioso e la preghiera in orario di lavoro. Il suo successore politico, Zhang Chunxian, rafforzò le sue posizioni repressive e nel 2011 cancellò, di fatto, l’identità uigura dalla cultura locale. Nel 2012 affermò, per la prima volta, di essere intenzionato a eliminare l’estremismo, iniziando a educare gli imam ritenuti “selvaggi” e radicali. Questo accadde anche perché la Repubblica popolare cinese adotta ufficialmente l’ateismo di Stato e ha condotto, nel corse degli anni, vere e proprie campagne antireligiose per riuscire a raggiungere questo scopo. Infine, dal 2014 il Partito comunista cinese ha rafforzato le sue politiche a favore della sinicizzazione totale del Paese e delle minoranze etniche e religiose.

Il 16 novembre 2019, il New York Times ha pubblicato un vasto leak di circa 400 documenti provenienti da un membro del governo cinese, il quale chiedeva che Xi Jinping fosse ritenuto responsabile delle sue azioni nei confronti delle minoranze. Il materiale sarebbe stato consegnato al Consorzio internazionale di giornalisti d’inchiesta da una fonte anonima e il l’ICIJ li avrebbe verificati esaminando i resoconti dei media statali e le notizie di fonte aperte dell’epoca, consultando esperti, effettuando un controllo incrociato e confermando le risultanze con ex dipendenti impiegati nei centri di rieducazione. Le carte arrivate a New York consisterebbero in una nota che fornisce le linee guida per i campi, quattro bollettini su come usare la tecnologia per colpire le persone e un caso giudiziario che si è concluso con la condanna a un membro uiguro del Partito comunista a dieci anni di carcere per aver detto ai colleghi di non dire parolacce, di non guardare pornografia e di non mangiare senza pregare. I documenti erano stati distribuiti ai funzionari dall’influente Commissione Affari politici e legali del Partito comunista dello Xinjang, la massima autorità della regione che sovrintende alla polizia, ai tribunali e alla sicurezza dello Stato. Sono stati redatti sotto l’allora capo Zhu Hailun, che li ha firmati personalmente e in base a quanto dimostrato dalla fuga di notizie, il materiale rappresenterebbe una clamorosa conferma di quanto si ipotizzava sui campi. Nei documenti, infatti, spesso è stato riconosciuto che i detenuti nei centri di rieducazione non avevano commesso alcun crimine e che il motivo della loro prigionia era legato al fatto che “il loro pensiero era stato infettato da pensieri malsani“. Ma per Pechino, i documenti trapelati rappresenterebbero soltanto false notizie: “Le autorità cinesi sostengono che nello Stato a maggioranza uigura la libertà religiosa e personale dei detenuti è pienamente rispettata”.

Nelle aree urbane dello Xinjang, le prigioni sono vecchie scuole professionali e ordinarie, ex istituti appartenuti al partito o altri edifici ufficiali. La situazione cambia nelle aree rurali, dove secondo quanto riportato dal Guardian la maggior parte dei campi è stata appositamente costruita. I centri sono sorvegliati da forze armate o da membri dei corpi speciali di polizia e somigliano molto a un qualsiasi penitenziario, con cancelli e muri che circondano gli edifici, recinzioni di sicurezza, torri di guardia e rigidi sistemi di sorveglianza. Nel 2018, il magazine Bitter Winteruna rivista sulla libertà religiosa in Cina, ha pubblicato tre video girati all’interno di due campi nell’area di Yining. Le immagini mostrano come la struttura abbia le stesse caratteristiche di un carcere, confermando la tesi che non si tratta di scuole o di istituti professionali.

In base a quanto riportato da alcune testimonianze fornite da detenuti ed ex internati, la vita all’interno dei centri di rieducazione non rispetta i diritti umani, nonostante il governo cinese affermi il contrario. L’uso dei telefoni cellulari tra i detenuti (che Pechino chiama “tirocinanti”) è severamente vietato per impedire qualsiasi “collusione tra interno ed esterno” e persino l’igiene personale e le pause per i bisogni fisiologici sono monitorate con rigore “per prevenire possibili fughe”. Kayrat Samarkand, un cittadino kazako emigrato dallo Xinjang, sarebbe stato detenuto in una di queste strutture per tre mesi a causa di una visita in Kazakistan. Per farlo scarcerare, nel febbraio del 2018, è intervenuto il ministro degli Esteri kazako, Kairat Abdrahmanov, inviando una nota diplomatica al suo omologo cinese. Dopo la sua liberazione, Samarkand avrebbe dichiarato di aver subito umiliazioni, numerosi lavaggi del cervello e di essere stato costretto recitare slogan di propaganda, augurando lunga vita all’attuale presidente Xi Jinping. Come riportato da Rainews24, Erzhan Qurban, di etnia kazaka ora tornato a vivere in Kazakistan, fu arrestato dalla polizia durante un viaggio di ritorno in Cina per far visita alla madre con l’accusa di aver commesso crimini all’estero. Protestò dicendo di essere un semplice pastore e che non era l’autore di alcun reato, ma per le autorità cinesi, il periodo in Kazakistan costituiva già un motivo sufficiente per la detenzione. Qurban, rimasto detenuto per nove mesi, ha raccontato di essere stato “trattato come un animale”, rinchiuso in una cella con altre dieci persone, tutte costrette a sedersi su sgabelli di plastica, mantenendo posture rigide per ore. Era assolutamente vietato parlare e a sorvegliarli, per 24 ore al giorno, c’erano due guardie. Gli ispettori verificavano periodicamente che le unghie fossero tagliate e che barba e baffi, tipici della tradizione islamica, fossero rasati. Chi disobbediva era costretto a inginocchiarsi o a trascorrere una giornata di isolamento in una stanza molto fredda.

Il centro di formazione Artux è stato definito un campo di indottrinamento

Nonostante Pechino insista nel dire che le strutture sono soltanto centri di formazione per persone più povere e meno istruite appartenenti alle minoranze etniche, svariati documenti dimostrano come tra i detenuti ci siano anche funzionari di partito e docenti universitari. Solitamente, i resoconti delle persone fermate vengono esaminati attentamente e i sottoposti agli interrogatori, spesso, sono spinti a denunciare i nomi di amici e parenti. Mamattursun Omar, cuoco ugiruo arrestato dopo aver lavorato in Egitto, sarebbe interrogato in quattro strutture di detenzione diverse per nove mesi nel 2017 e ai giornalisti che hanno ascoltato la sua testimonianza avrebbe riferito che la polizia cinese gli chiedeva continuamente di rivelare le identità di altri uiguri in Egitto. Come raccontato dallo chef, Omar sarebbe stato torturato con l’intenzione di indurlo a confessare che altri studenti appartenenti alla sua stessa etnia sarebbero andati nel Paese nordafricano per prendere parte al jihad. Legato a un dispositivo chiamato “sedia da tigre”, Omar avrebbe subito l’elettroshock e sarebbe stato picchiato e frustato con dei cavi per il computer. “Non ne potevo più e gli ho detto ciò che volevano sentirsi dire”, ha dichiarato il cuoco. Subito dopo, infatti, altri sei studenti che lavoravano in un ristorante egiziano sono stati individuati e fermati. “Fuggire era impossibile”, ha confermato la kazaka Sayragul Sauytbay, membro del Partito comunista, arrestata dalla polizia nell’ottobre del 2017 e costretta a diventare un’insegnante di mandarino all’interno di uno dei centri, che lei ha definito “un campo di concentramento, assai peggio di una prigione”. La donna ha parlato di stupri e di torture e un altro ex prigioniero, Zumrat Dawut, ha detto che agli internati sarebbero state somministrati farmaci in grado di renderli innocui e più “arrendevoli”. “Non ci vedevano come esseri umani. Ci trattavano come animali: come maiali, mucche, pecore”, ha dichiarato un giornalista ed ex detenuto.

Secondo quanto ricostruito dallo studioso Adrian Zenz, i centri di rieducazione funzionerebbero anche come campi di lavoro forzato, dove gli uiguri lavorerebbero a vari prodotti pensati per l’esportazione. Nel 2018, il Financial Times ha riferito che il centro di formazione professionale della contea di Yutian Keriya, tra le più grandi strutture di rieducazione dello Xinjang, aveva aperto una struttura di lavoro forzato che includeva otto fabbriche, le quali si occupavano di calzature, assemblaggio di telefoni cellulari e imballaggi di tè. Ogni detenuto riceveva uno stipendio mensile corrispondente a circa 190 euro. E il problema esiste, non soltanto nell’area della regione autonoma, ma anche in altri punti del Paese.

La “nuova” educazione

Tra gli obiettivi di questi centri di rieducazione c’è quello di reimpostare il pensiero, attraverso un tentativo esplicito di cambiare il modo in cui i detenuti agiscono e ragionano. E, infatti, la prima materia elencata come parte del curriculum di queste strutture è l’educazione ideologica, un’idea radicata già nell’antico credo cinese della trasformazione degli individui attraverso la didattica e l’apprendimento. Nel mostrare agli “studenti” gli errori compiuti in precedenza, le strutture promuoverebbero “il pentimento e la confessione”, come si legge nei documenti arrivati a New York. Oltre a una forma di indottrinamento, è prevista anche l’educazione alle buone maniere, dove il comportamento è improntato a “un cambio regolare dei vestiti”, “tagli e rasature tempestive” e a “un bagno una o due volte alla settimana”. Un ex membro della televisione della regione dello Xinjang era stato selezionato per insegnare il mandarino durante la sua detenzione di un mese nel 2017: secondo la sua testimonianza, due volte al giorno, i carcerati venivano messi in fila e ispezionati dalla polizia, poi alcuni (scelti a caso) venivano interrogati in mandarino. Chi non era in grado di rispondere nella lingua ufficiale poteva essere percosso o privato del cibo per giorni. I prigionieri, infatti, sarebbero testati continuamente su lingua, ideologia e disciplina, con una piccola verifica settimanale, un test medio al mese e una prova a fine stagione. I punteggi ottenuti vengono inseriti in un elaborato sistema e chi dimostra di comportarsi correttamente può essere ricompensato con le visite ai familiari o la possibilità di laurearsi. Chi, invece, registra scarsi risultati ha più spesso tempi di detenzione più lunghi e, in alcuni casi, può essere sottoposto a punizioni come la privazione del cibo, le manette, l’isolamento e forme di tortura. Gli internati uiguri più anziani risulterebbero i detenuti più svantaggiati, perché meno inclini all’apprendimento della nuova lingua e delle nuove abitudini.

Tra le conseguenze delle detenzioni di massa delle minoranze, i primi a essere lasciati soli sono spesso i bambini, cioè i figli dei prigionieri che, senza la presenza dei loro genitori, sono vengono sottoposti al controllo del governo cinese. Il quale provvede alla loro educazione e al loro mantenimento spostandoli in collegi e strutture apposite. L’intento? Rieducare anche loro, cancellando le radici e quel poco di cultura appresa prima dell’arresto dei familiari. Chi è scappato o chi si trova in esilio non sempre è al corrente della sorte dei propri cari, né sa dove siano ubicati i propri figli.

Ma è nella gestione tecnologica di questi prigionieri che la Cina si è dimostrata (ancora una volta) all’avanguardia, sfruttando una nuova forma di controllo sociale attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale. Come emerso dai documenti in possesso dal consorzio giornalistico, in una sola settimana, attingendo a dati raccolti da queste tecnologie di sorveglianza di massa, i computer avrebbero mostrato i nomi di decine di migliaia di persone da interrogare o da arrestare. Il sistema, che rappresenta il più sofisticato dispositivo di controllo contemporaneo, monitora e classifica intere etnie per sottometterle con la forza. Si chiama Integrated Joint Operations Platform (IJOP) ed è stato realizzato da una società di proprietà dello Stato legata all’esercito. Nato come uno strumento di intelligence per la condivisione di informazioni, è stato sviluppato dopo che analisti militari cinesi avevano studiato l’uso delle tecnologie informatiche da parte dell’esercito degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan. “Non c’è nessun altro posto al mondo in cui un computer possa mandarti in un campo di internamento. Si tratta di un sistema senza precedenti”, ha spiegato Rian Thum, esperto di Xinjang dell’università di Nottingham, riportato da Rainews24. La tecnologia cinese è quindi riuscita a riconoscere nomi e identità di persone ritenute sospette dal governo, come migliaia di imam “non autorizzati” perché non registrati. I comportamenti ritenuti estremisti sono stati definiti in modo talmente ampio da poter includere tantissime azioni quotidiane, come per esempio quella di recarsi all’estero, chiedere di pregare o usare applicazioni per cellulari che non potessero essere controllate da Pechino. La tecnologia ha iniziato a monitorare gli utenti che utilizzavano Kuai Ya, un’applicazione simile ad Airdrop di iPhone, diventata molto popolare nella regione uigura perché consente agli utenti di scambiarsi video e messaggi privatamente. Un resoconto cinese avrebbe mostrato come le autorità siano riuscite a identificare circa 40mila fruitori dell’app, messi poi sotto inchiesta e potenzialmente candidati all’arresto. Di questi 32 sarebbero finiti in una lista di persone appartenenti a organizzazioni terroristiche. Dopo la raccolta di nomi, le liste con le persone oggetto di attenzione passano alle prefetture che, a loro volta, li inoltrano ai capi di distretto. Poi, i nominativi sono inviati alle stazioni della polizia locale e infine ai vigilanti di quartiere e ai quadri del Partito comunista. Un bollettino, emerso tra i documenti arrivati al consorzio di giornalisti, avrebbe rilevato che, in una sola settimana, nel giugno del 2017, l’IJOP avrebbe identificato 24.612 “persone sospette” nel sud dello Xinjang, con 15.683 cittadini inviati in strutture di “istruzione e addestramento”, 706 in carcere e 2.096 agli arresti domiciliari. Il sistema di controllo cinese ha tenuto sotto stretto controllo anche le persone che ottenevano passaporti o visti stranieri. E ai funzionari sarebbe stato richiesto di verificare le identità anche delle persone al di fuori dei confini nazionali, un fatto che dimostra quanto il Paese osservi gli uiguri anche al di fuori della regione cinese. Negli ultimi anni, Pechino ha esercitato una certa pressione su quei Paesi in cui si sarebbero rifugiate più facilmente le minoranze, come la Thailandia e l’Afghanistan, con lo scopo di estradare i cittadini.

Secondo quanto indicato da alcuni dati delle Nazioni Unite, citati da Reuters, nell’agosto del 2018, in tutta la regione dello Xinjiang, sono state trattenute contro la loro volontà all’interno di questi campi da uno a tre milioni di persone. Un fatto inaccettabile per l’Onu, che nel luglio del 2019, tramite i suoi ambasciatori di 22 nazioni, tra cui Australia, Canada, Francia, Germania, Giappone e Regno Unito ha firmato una lettera di condanna della detenzione di massa, esortando il governo a chiudere queste strutture perché allarmati per la diffusa sorveglianza e repressione al loro interno. Al contrario, invece, sempre come segnalato da un altro articolo di Reuters, una dichiarazione congiunta a firma di 37 Stati (tra cui Algeria, Repubblica Democratica del Congo, Russia, Arabia Saudita, Siria, Pakistan, Corea del Nord, Egitto, Nigeria, Filippine e Sudan), che non è mai stata mostrata al pubblico, avrebbe espresso approvazione nei confronti del programma antiterrorismo cinese dello Xinjang. Nell’ottobre del 2019, 23 Paesi hanno firmato un’altra lettera, sollecitando la Cina a chiudere i campi. Pechino, nel tempo, ha negato la loro esistenza, almeno fino alla loro legalizzazione (nell’ottobre del 2018). Attualmente Pechino rivendica ottimi risultati, visto che, in base a quanto riportano fonti governative, nella regione non si sarebbe verificato alcun attacco terroristico. Tuttavia, l’esperto di Xinjang Zenz, i documenti arrivati ai giornalisti americani confermerebbero un vero e proprio “genocidio culturale” perpetrato ai danni dei musulmani dello Xinjang. “Fin dall’inizio, il governo cinese aveva un piano ben preciso”, ha concluso lo studioso.

Fonte: Insederover

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